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Un sospiro di sollievo, nient’altro

Più che la vittoria dimezzata, per quanto in parte sorprendente, della sinistra in Francia ciò che c’è possiamo festeggiare è la sconfitta del Rassemblement National. Una sconfitta chiara, ed una buona notizia nel breve termine, ma che, dopo aver tirato un sospiro di sollievo, ci costringe a porci diverse domande.

Gabriel Attal annuncia nella serata di ieri di voler presentare le dimissioni ma oggi Macron già ritratta e prova a convincerlo a rimanere al suo posto. Dal NFP viene annunciato che verrà espresso un nome per il nuovo Primo Ministro. L’unica certezza rimane il dubbio su come si riuscirà a governare in questa situazione complessa, molte sono le ipotesi degli scenari possibili, dal governo di minoranza, a un governo tecnico a un governo di coabitazione. Rispetto a questo Melanchon ieri sera ha preso parola per scongiurare i dubbi su un’alleanza con Ensemble (sebbene alcune voci nel PS parlino già di “responsabilità”), mentre Macron non si è espresso e il che dà luogo ad alcune prime considerazioni.

Il primo dato è che Macron è effettivamente il vero perdente, ancora una volta, di questa tornata: prima la dissoluzione dell’Assemblea Nazionale, poi la sua tattica per liquidare la sinistra che ha finito per rafforzarla. Macron avrebbe voluto governare con l’estrema destra a determinate condizioni oppure rafforzare il suo campo ma ciò non è avvenuto. Anche se ovviamente le tenterà tutte per evitare che si formi un governo con un primo ministro del campo di Melanchon. 

Il punto è che se la sconfitta si è manifestata sul piano della mobilitazione elettorale, della crisi politica ed istituzionale, il raggruppamento centrista è comunque in grado di “tenere in ostaggio” il paese. Dunque Macron perde, ma sopravvive e mantiene un certo margine di manovra.

Se giustamente fino ad ora gran parte delle compagini di sinistra radicale, di movimento e partitica, non hanno ceduto ad una visione rigidamente ideologica della politica istituzionale è chiaro che di fronte ad un voto protestatario bipartisan contro il Macronismo la desistenza rischia a posteriori di essere percepita come una forma di “complicità”. Certo il cerchio magico di Macron, con Darmanin in testa, evidenzia come il vero pericolo che preoccupa la borghesia francese sia LFI ed il programma di riforme sociali del NFP (per quanto, secondo i crismi anche solo di qualche anno fa, tutto sommato timido). Dunque, il problema della percezione sociale di questa tornata è tutt’altro che tattico: la polarizzazione si articolerà intorno a due visioni, da un lato la sinistra che vince “inaspettatamente” e la Macronie con il suo residuo di potere le impedisce di governare, dall’altro il barrage repubblicano che viene rappresentato alla stregua dell’atteggiamento dei partiti centristi e socialdemocratici europei durante la guerra fredda nei confronti dei partiti comunisti. 

Può sembrare un controsenso, dunque cosa intendiamo? 

Per i liberali l’esclusione dell’RN dalle possibilità di governo non ha nulla a che fare con l’attacco ai diritti civili e sociali che Le Pen e compagnia porterebbero: Bardella impallidisce di fronte alla macelleria sociale di Macron e sul fronte dei diritti è chiaro che comunque l’obbiettivo del disciplinamento degli indigenes, delle donne e dei territori in rivolta in caso di un governo di ampia coalizione senza LFI o di un governo tecnico si approfondirà (non in fretta quanto con l’RN, ma quasi): il vero punto è la politica estera. La normalizzazione della destra reazionaria è prassi europea ormai, purché nella sfera di un atlantismo ed europeismo solido con tutte le sfumature del caso. Anzi è un passaggio che molti nelle borghesie europee ritengono ormai necessario. Tanto che uno dei piani B di Macron era certamente quello di una coabitazione con i lepenisti in cambio di un’abiura sul posizionamento internazionale della Francia. Ma su questo ci torneremo più avanti. 

Il secondo dato è che esiste realmente una grossa fetta di società che rifiuta il razzismo e uno stato autoritario e che è disposto ad attivarsi per la giustizia sociale. Come sottolineano alcune prese di parola nella compagine di movimento (ad esempio se leggiamo questo breve comunicato di ContreAttaque) ora nulla è guadagnato, ma tutto è da conquistare e ciò che deve dettare il tempo è la mobilitazione di piazza. La questione che si apre è inedita in quanto se il fronte ha permesso una sconfitta dell’estrema destra non si può non vedere che in termini di numeri il sostegno all’estrema destra è di massa, ufficialmente il primo partito di Francia, messo all’angolo temporaneamente per questa scelta tattica (maggiormente aiutata dal ritiro dei candidati arrivati terzi nelle circoscrizioni in cui nel primo turno NFP si trovava in terza posizione, lasciando dunque il campo a Ensemble). 

Come sottolinea Houria Bouteldja in un post su Facebook, l’estrema destra ha rinforzato la sua base elettorale, seppur apparentemente abbia perso. La sua base regionale non smette di ingrandirsi ed è ciò che possiamo definire come una base realmente popolare a un partito che si attesta a 10 milioni di elettori. E’ qui la domanda più significativa: su quali istanze il partito di Le Pen riesce a coagulare una base elettorale interclassista e dunque quali sono le possibilità di scomposizione?

Queste elezioni ci dicono due cose in particolare: la crisi che attraversa la Francia è strutturale ed è la rappresentazione della crisi del capitalismo, delle istituzioni della V Repubblica, una crisi morale la definisce Houria Bouteldja  – che noi potremmo definire più che morale, soggettiva – dunque in questo declino generalizzato il fascismo rimane un’opzione per risolvere la crisi; rispetto alla classe popolare, proveniente dai quartieri popolari, delle persone razzializzate, ad oggi l’unico sostegno che si è manifestato è stato quello della France Insoumise, ma il suo compito, oltre a non cedere alle pressioni e non fare passi indietro, sarà quello di dover conquistare la classe operaia, enorme risorsa che si è astenuta. 

Effetto contagio?

In Italia assistiamo allo strenuo tentativo da parte della narrazione ufficiale di interpretare quanto accaduto come una vittoria di Macron, come se fosse ancora in possibilità di governare negando la rottura che ha rappresentato l’opzione del Nuovo Fronte Popolare e la sua rimonta inaspettata. Nessuno qui intende indorare la pillola o illudersi che rappresenti una vittoria di per sé, ma si tratta di essere capaci di vedere spiragli di scomposizione del quadro dominante e essere capaci di intervenire per approfondire le contraddizioni. Il programma di Melanchon non piace alle élites e alla borghesia perché se ne coglie il rischio di una scrollatina ai propri sudati privilegi. L’establishment europeo ha buon gioco ad assumere il ruolo di legittimare e sostenere la solidità di un asse atlantista che vuole rappresentare come forte e inscalfibile. Che la Meloni si trovi sola in Europa senza la Le Pen non è vero, la vicinanza al programma del blocco neoliberale in particolare in ambito di politica internazionale trova serenamente appigli, in primis la volontà di aumentare la spesa per le armi e il sostegno militare all’Ucraina. 

Il tema della guerra in Ucraina resta centrale per verificare la direzione che prenderà la nuova formazione di governo in Francia e per effettivamente segnare una linea di demarcazione e una possibile faglia all’interno del blocco occidentale. Se questo oggi è l’unico vero discrimine che separa “buoni” e “cattivi” sul piano europeo è anche perché le masse interne sono recalcitranti nei confronti dell’escalation che viene preparata giorno dopo giorno e l’eventualità che queste pulsioni trovino una rappresentanza politica chiara che inserisce i conflitti in corso non solo all’interno delle dinamiche geopolitiche e di supposte guerre di civiltà, ma in rapporto alla crisi capitalistica, li terrorizza. I “talk show” ci tengono regolarmente a sottolineare che la guerra non pesa sulle dinamiche elettorali, come se i settori popolari ragionassero come bestie, intente a difendersi da ciò che gli è estraneo e a riempirsi la pancia quando possibile. In realtà il pericolo di una guerra globale è un tema che ritorna continuamente nelle sue declinazioni sociali, economiche e politiche in maniera spesso confusa, poco chiara. Il rifiuto della guerra e dei suoi costi è destinato ad essere l’elemento qualificante di qualsiasi proposta politica di rottura a venire. Oggi chi si fa garante e protagonista dell’escalation all’interno delle dinamiche elettorali viene inevitabilmente e forse persino inconsciamente punito. 

Sul piano interno, le riforme sociali come l’innalzamento del salario minimo a 1600 euro e la pensione a 60 anni così come il blocco sui prezzi dei beni essenziali, se verranno portate a termine, potrebbero rappresentare un precedente interessante per dimostrare che i governi non sono obbligati a far tirare la cinghia alla popolazione per sopravvivere. Un ultimo aspetto interessante potrebbe essere la moratoria sulle opere inutili, a partire dal ritiro dei progetti di mega invasi e che potrebbe aprire la strada a un’effettiva marcia indietro anche sul Tav. Tutto questo rimane su un piano delle ipotesi, a dir la verità piuttosto remote, in un quadro in cui ben che vada il governo di minoranza del Fronte Popolare dovrebbe misurarsi con una condizione parlamentare di estrema debolezza e con la coabitazione con Macron, certamente indisponibile a tornare indietro su qualsiasi di queste riforme strutturali che considera il suo lascito. 

D’altro canto questo quadro potrebbe avere l’effetto di far serrare i ranghi nelle compagini corporativiste e della piccola e media borghesia, come ad esempio una parte dei lavoratori dell’agroindustria, con un rafforzamento del sindacato degli agricoltori maggioritario FNSEA, con posizioni molto vicine alla dimensione dell’estrema destra, con cui i sindacati come la Confederation Paysanne, i movimenti ecologisti e ambientalisti avevano faticato a interfacciarsi durante le proteste di febbraio. Il tema della transizione ecologica ed energetica assume quindi un ruolo di primo piano anche in questa nuova fase, mostrando ancora più plasticamente la sua ambivalenza davanti alla quale occorre essere all’altezza – in quanto soggetti che aspirano a movimenti di massa – di vedere e aggredire. Così come sul tema del razzismo e della risoluzione della crisi interna, occorrerà mettere in campo strategie di ricomposizione della classe popolare, al di fuori dei centri nevralgici delle metropoli. I lepenisti comunque vada approfitteranno di ogni occasione per mostrarsi come l’unica opposizione credibile. Nel caso in cui a governare sia in qualche grado il NFP è probabile che assisteremo a una transizione dell’RN verso delle forme di fascismo più simili a quelle “tradizionali”.

Houria Bouteldja, fa un’analisi lucida della situazione che ci sembra importante riportare soprattutto quando dice che “governare in questa situazione è scivoloso, meglio lasciare Macron gestire la sua merda e intanto costruire e massificare una vera linea di rottura e demarcazione.” Insomma, se la FI andasse all’opposizione avrebbe maggiori chances di cavarsela. I movimenti sociali dunque hanno un ruolo centrale in questo, così come hanno imposto un programma a partire dalle rivendicazioni di piazza, dovranno continuare a essere la valvola di pressione affinché ci siano reali passi nella direzione del programma annunciato oltre che una leva per aprire contraddizioni interne all’arco istituzionale. Autodeterminando la propria agenda senza inserirsi in una dialettica integrata all’agenda politica istituzionale.

In conclusione, come sempre, staremo a vedere ma possiamo trarre una lezione importante dalla postura delle militanze e dei movimenti d’oltralpe. Da un lato, l’importanza della continuità e del radicamento nei quartieri popolari, negli strati sociali che hanno costruito in questi anni di movimenti antirazzisti un rapporto di forza tale, ma anche l’ipotesi di un’opzione in grado di ricomporre i movimenti ambientalisti e dei comitati territoriali, sul piano del politico, ma capace di tracciare nuovi confini di un campo che potremmo definire dell’ecologia popolare e, dall’altro, la lucidità con cui si sono sapute cogliere delle occasioni, anche se in maniera tattica e congiunturale. Questa fase impone una riflessione profonda anche sul ruolo delle militanze oggi, anche alle nostre latitudini, a fronte di una società scavata da decenni di politiche austere, ma non solo, sull’adeguatezza delle forme organizzative e di una proposta autonoma in un quadro in cui la lacerazione della classe raggiunge picchi senza precedenti. 

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