I covi fascisti non si chiudono a chiacchiere
L’alternativa al corteo teso, democratica in senso istituzionale, magari c’era: non fingere di non vedere sessanta fascisti fare cinquanta metri di piazzale dello stadio per assaltare il Dordoni e tentare di uccidere qualcuno, non fingere di non avere telecamere che li abbiano inquadrati fuori dallo stadio durante una partita a rischio, non coprirne la fuga nonostante alcuni picchiatori fossero stati fermati, non indagare gli aggrediti ma gli aggressori, non consentire a confraternite fasciste di aprire sedi come fossero un franchising, non farli sfilare nel cuore delle città medaglie d’oro della Resistenza. Ma ciò non è avvenuto, ciò normalmente non avviene quando si servono gli stessi padroni sia da eversori che da repressori. Nessuna autorità di questo bel paese sembra avere la minima intenzione di comportarsi in questo modo, per quanta “sinistra” finga di portarsi nel DNA. A nessuna istituzione salta in mente di difendere i luoghi autogestiti e conflittuali in quanto ricchezza e antidoto alla canaglia razzista; a nessuna istituzione viene spontaneo portare la solidarietà incondizionata quando si subiscono rigurgiti fascisti: perché i centri sociali, se non diventano circoli di partito o non tubano con le amministrazioni locali, sono brutti sporchi e cattivi. Però, in cambio si pretende un “porgi l’altra guancia” cui non crede nemmeno il comandante in capo della remissività cattolica, neppure per un futile motivo come l’insulto alla mamma.
Leggiamo comunicati e dichiarazioni di indignazione, e finanche d’infame istigazione alla repressione, provenire dai soliti noti, anche se affidati alle federazioni locali che non sono per forza espressione del pensiero di ogni iscritto: Anpi, Cgil, Arci, Sel, Rifondazione. I dirigenti di queste organizzazioni sono soliti far così in ogni occasione in cui si esca dalla mera declamazione, e ancora si smarronano sul perché nessuno voti più la “sinistra radicale”. Tutti insieme, non rappresentavano una parte né prevalente né significativa del corteo di Cremona, in grande maggioranza composto da centri sociali, cioè da quelli che normalmente subiscono la repressione e a cui perciò brucia di più, anche per identificazione, l’idea di un compagno a rischio di vita per aver difeso il suo centro sociale. Alcune di queste organizzazioni istituzionali erano presenti in piazza… dalle quattro alle cinque. Al primo lacrimogeno erano già sulla via di casa. Si sono così persi un elemento fondamentale della situazione: che l’andamento del corteo, con tutta la sua tensione, non ha comunque impedito, a chi voleva restare in piazza, di restarci senza rischiare nulla. Così abbiamo fatto noi, così hanno fatto moltissimi altri, e non ci è parso di sentire lamentazioni per i “black bloc” che hanno preso con l’inganno la testa del corteo. Questa versione è scollata dai fatti e mostra un’ottusità tutta ideologica e formalistica, un’affezione più verso le cose che le persone, più verso l’immagine che il contenuto. Chi racconta fandonie sulle dinamiche del corteo, mente due volte: la prima perché vorrebbe accreditare l’immagine dei compagni di Emilio come poveretti cui è stata tolta la possibilità di manifestare pacificamente; la seconda perché, al primo momento di tensione, i cordoni sulla difensiva e pronti al peggio non erano solo alla testa, ma fin oltre la metà del corteo. Che poi tutto si sia svolto solo alla testa, si deve semplicemente al fatto che la polizia non ha né voluto né potuto caricare, limitandosi a “saturare” senza risparmio di gas, a indietreggiare e a barricarsi. Abbiamo pianto, tossito e imprecato, ma non c’è da lamentarsi per così poco.
Altro paio di maniche, rispetto ai dissociati cerchiobottisti, è rappresentato dai militanti che c’erano e si sono ritrovati in una situazione che, col senno di poi, giudicano negativamente. Nell’ambito del giudizio equilibrato e non opportunistico, ciascuno può trarre diverse conclusioni, che sono degne di rispetto. Qualcuno si è già espresso, offrendo al dibattito la sua valutazione. Prendiamo il comunicato del CSOA Scurìa di Foggia . Nello spiegare il “fallimento” di Cremona, viene identificato l’errore collettivo nell’aver creato un ibrido: un corteo partecipato sfociato in logiche da “banda”. In altri termini, la lamentela è che la Cremona solidale non darà più il suo presunto consenso agli antagonisti, che si sono attaccati a una dicotomia residuale (fascismo/antifascismo è roba vecchia… ma questa, sebbene effettivamente il fascismo sia ancheroba vecchia, l’abbiamo già sentita un po’ troppo spesso, di recente). Ora, secondo questa linea di pensiero, il Dordoni subirà la repressione mentre gli altri si vanagloriano con l’epica dello scontro.
Lasciamo perdere il cattivo gusto di scegliere questo momento per dichiarare residuale la questione del fascismo, un problemino che dodici anni fa ci ha tolto Dax e ora ha messo in grave pericolo la vita di un altro compagno: in tempi di leghismo d’assalto e Mafia Capitale (ricordate Alemanno e soci?), dopo gli omicidi razzisti di Firenze e le strizzatine d’occhio di Grillo ai fascisti, in pieno proliferare dello strampalato nazi-onalismo rossobruno e delle sospette aperture di certi “sinistri” intellettuali invitati a dibattere a CasaPound (quando li schifa persino la figlia di Ezra Pound)… Siamo certi che non si tratti di una vera e propria sottovalutazione, altrimenti i compagni di Foggia e di altre città non avrebbero fatto tanta strada per portare la solidarietà a Emilio e al Dordoni, bensì di un eccessivo accento su cosa, in tempi di crisi, importi alla “gente”… posto che valga la pena dare troppo peso a cosa pensa normalmente la “gente” in quest’epoca di cretinismo di massa. Entriamo invece nel merito della critica sollevata alla gestione del corteo.
Qui le cose sono due: o si sostiene che il Dordoni ha subito le scelte di chi ha provato, in un giorno inadatto, a raggiungere il covo fascista (rientrando sostanzialmente nella linea argomentativa delle organizzazioni di cui sopra), o si sostiene che le ha condivise. Il comunicato dei compagni di Cremona non lascia molti dubbi: devastazioni evitabili ma piena rivendicazione delle scelte e degli obiettivi. La nostra unica preoccupazione iniziale era che i compagni del Dordoni subissero situazioni che non desideravano, ma si vede bene che non è così; se ci saranno conseguenze future, sarà stata comunque una scelta legittima e consapevole di un centro sociale aggredito. Del resto, le organizzazioni oggi tanto indignate si erano già fatte il loro prudente presidio pacifico il giorno prima, pronte a non aderire a nulla che andasse oltre la chiacchiera. A che tanta sorpresa sullo svolgimento del corteo, dunque? Pare che tutti si aspettassero una reazione forte, eppure ora si piange sul consenso perduto e sui vetri rotti al momento sbagliato. Ma un consenso di questo tipo, un consenso “fino a un certo punto”, cioè finche siamo buoni e cari e forniamo servizi gratuiti o un posto per mettere musica, per noi ha quel sapore un po’ posticcio di chi si entusiasma di resistenze e ribellioni estere, per poi calare le braghe appena c’è il rischio di fare danni alle belle e meno belle città d’Italia. Perché di danni alle cose stiamo parlando, non di morti e feriti tra la polizia e i manifestanti.
A chi si lamenta dicendo: a cosa serve stare in piazza in questo modo?, si può rispondere: a dar l’idea che i centri sociali non sono lì a far da bersaglio gratuito a manipoli di squadristi reazionari. L’idea, nonostante le mistificazioni, è perfettamente passata a chi di dovere: forse che i fascisti avrebbero dichiarato, con la tipica pusillanimità del serial killer pentiti, di dover vendere la sede di Cremona, qualora di fronte avessero avuto il solito discorsetto di condanna formale? Si può benissimo non trovarsi a proprio agio tra i cori da stadio e le modalità tattico-stilistiche dell’antifascismo militante, ma qui va considerato che non ha senso accusare qualcuno di giocare agli hooligans: qui c’è in gioco una risposta collettiva a un tentativo d’omicidio politico sul quale c’è il fondato sospetto che non si voglia indagare.Visto che magari piace anche a voi prendere esempio dagli zapatisti, citateli anche quando chiedono chi ha il diritto di imporre agli studenti di Ayotzinapa come manifestare, o di stabilire se una lotta contro i nemici dell’umanità debba essere pacifica o no, e non solo quando vi fa comodo.
Un pensiero di commiserazione va infine ai corifei della socialità internettiana, che un giorno magari postano le note dei 99 Posse (che oggi sembrano la pietra dello scandalo ma che già più di vent’anni fa cantavano la celebre Rigurgito Antifascista, e scommettiamo che la cantavamo tutti: “i compagni sono tanti e ti verranno a cercare/in massa di giorno per fartela pagare”) o di Malarazza (“pigghia lu bastuni e tira fora li denti”) e il giorno dopo, biasimando chi esegue tali consegne, compiangono le filiali delle banche (le stesse che usano i soldi per finanziare pacificamente le guerre e non concedere, è pacifico, prestiti ai bisognosi) e il consenso dei benpensanti. Costoro dapprima si dichiarano “partigiani” magari per difendere un Santoro o un Luttazzi, e poi compiangono i martiri che domani, da stipendiati o assicurati, dovranno ripararsi le vetrine. I partigiani, cari nostri, han fatto saltare binari e ucciso nemici, e a poco vale dire che “c’era la guerra”, visto che i fascisti, nell’ultimo quindicennio, non si sono certo astenuti dall’omicidio e dal pestaggio. I partigiani erano giovani, irruenti e pronti ad attaccare e sabotare. Tra i partigiani, cari nostri, c’erano anche monarchici, liberali e democristiani: e tra questi anche chi, all’ultimo, ha provato a salvar la pelle a Mussolini all’insaputa di socialisti e comunisti. I partigiani non sono santini da tirar fuori per far bella figura nei talk show e nei party alternativi, buoni per le targhe e le celebrazioni di rito. I partigiani erano donne e uomini che potevano commettere errori, resistere alle atrocità o punire le insubordinazioni. I partigiani sono quelli che un giorno, il più bello di tutti, hanno intimato ai fascisti: arrendersi o perire. Altro che l’Anpi di sessanta/settant’anni dopo, che oggi a Cremona grida ai violenti come ieri e altrove scaricava senza indugi chi viene processato per resistere al Tav. Lasciate andare, e non fateci la lezione di storia.
Quella di sabato è stata una giornata positiva, che si è svolta secondo una logica iscritta nei fatti e che avrebbe meritato adesioni ancora più ampie, presenze più creative e meno scontate, parole d’ordine più allargate e variegate… ma purtroppo ben pochi, al di fuori dei militanti dei centri sociali, se ne sono accorti (merita una menzione, data la penuria di senno, l’articolo di Luca Fazio uscito sul Manifesto. Tuttavia, non abbiamo nulla da festeggiare: aspettiamo che Emilio si rimetta e che CasaPound sparisca per sempre da Cremona e dalle nostre città; col fuoco o senza fuoco, con l’estetica da lotta dura, con quella dell’irrisione colorata o con i procedimenti giudiziari, non importa poi tanto: purché chiuda bottega. A proposito di chiusure: anche una certa moderazione nell’aprir bocca a sproposito, una certa tempestività a chiuderla prima di pronunciare infamie di comodo, gioverebbe alla salute della derelitta sinistra nostrana, che si esalta per le elezioni greche e piange di paura appena intravede un antipasto, un tenue simulacro di quel che in Grecia è successo nelle strade prima delle elezioni.
Grazie alle compagne e ai compagni di Cremona per aver tenuto alta la testa in questi momenti, che immaginiamo tesi e difficili. Buona guarigione a Emilio, buona resistenza e alla prossima.
Le compagne e i compagni del C.S. CasaLoca e di Ya Basta! Milano
* Per dovizia d’informazione, riportiamo qui sotto il comunicato del Csoa Scuria di Foggia scritto successivamente al primo, che va a fare chiarezza (a scanso di equivoci) su quanto riportato all’interno della prima nota pubblicata dal centro sociale.
In merito alla nota “La logica del giorno di gloria”, alla luce dello scambio di opinioni che ne è seguito, come CSOA Scurìa ci teniamo a precisare alcuni passaggi che – per superficialità, malafede o altro – sono di fatto apparsi controversi.
Sabato 24 gennaio eravamo a Cremona con i compagni e le compagne, dei quali abbiamo condiviso la causa, coi quali abbiamo condiviso la barricata; mai e poi mai abbiamo pensato di criticare – a distanza – le scelte di chi ha organizzato ed animato il corteo. Che, nello specifico, rivendichiamo.
Gli spunti di critica, che speriamo possano rivelarsi costruttivi e che senz’altro sono stati espressi con scarso senso della tempistica, riguardano noi. Noi, intesi come collettività ristretta e come collettività allargata: le nostre pratiche, i nostri scopi, i nostri metodi. Ogni critica è un’autocritica. Anche se, capiamo, esistono modi e tempi. Ne riparleremo senz’altro. Ma, adesso, non è il tempo delle polemiche. E neppure di favorire – indirettamente e senza alcuna volontà reale – gli sciacalli. Partiti delatori e infami di ogni risma si tengano lontani da noi e dalle nostre argomentazioni. Che sono e restano cibo per compagni. E coi compagni verranno espresse. Nelle sedi adeguate.
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