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Il disprezzo verso le periferie, da Nuova Ostia al Front National

Si dà spesso per scontato che l’ascesa delle destre in Europa abbia a che vedere con l’abbandono istituzionale delle periferie. Il trionfo del Front National in Francia è visto come il risultato dell’“abbandono delle classi popolari, del proletariato operaio, delle banlieue metropolitane da parte della sinistra socialista” (Alberto Burgio su il Manifesto, 8/12/2015); l’abbandono viene costantemente chiamato in causa per spiegare sia la radicalizzazione islamista che l’islamofobia; invariabilmente qualcuno risponde: quale abbandono, le periferie francesi sono piene di scuole e servizi, le rivolte distruggevano proprio queste strutture. Molti, osservando le conseguenze disastrose della deriva a destra in Francia, non esitano a tracciare apocalittici paralleli con l’Italia, e suggeriscono di rimediare “rammendando” le periferie, per riprendere l’infelice metafora di Renzo Piano.

Ma l’idea dell’abbandono è fuorviante. Qualche mese fa il giornalista francese Jack Dion ha pubblicato un librino in cui collega l’ascesa del FN all’atteggiamento della sinistra verso le classi popolari: lo battezza le mépris du peuple, il disprezzo del popolo. Al centro del suo ragionamento non ci sono le periferie e l’urbanistica; il titolo però richiama una riflessione di molti anni fa sui campi nomadi in Italia: L’urbanistica del disprezzo di Piero Brunello (1996). I campi rom sono stati in gran parte prodotto di amministrazioni di sinistra: a Roma il primo è stato istituito da Rutelli; Veltroni li ha chiamati “villaggi della solidarietà” e li ha spostati ancora più in periferia. Abbandono e disprezzo sono due cose diverse; se proviamo a ricostruire la storia di Nuova Ostia, capiamo la differenza tra questi due concetti.

All’inizio degli anni Settanta a Roma c’erano tantissimi borghetti auto-costruiti. Migliaia di famiglie italiane vivevano nelle baracche: alcune scandalosamente misere, altre dignitosamente povere. Una generazione di militanti politici, di attivisti cattolici, di ricercatori, frequentavano queste zone per alleviare le sofferenze degli abitanti, per dare voce alle loro esigenze o per creare reti di solidarietà. Franco Ferrarotti pubblicò interviste e descrizioni delle abitazioni più misere in uno dei primi libri di sociologia urbana in Italia, Roma da Capitale a periferia; Roberto Sardelli contravvenne agli ordini delle gerarchie ecclesiali trasferendosi a vivere in baracca, dove creò la Scuola 725. La “lettera al sindaco” con cui i bambini della scuola chiedevano case dignitose, restò inascoltata per qualche anno; finalmente la risposta arrivò, e dal 1972 iniziò una grande campagna di demolizioni e trasferimenti, che si concluse a metà degli anni Ottanta con le giunte “rosse” di Petroselli e Vetere.

La città – e soprattutto la sinistra della città, compresi i movimenti di lotta per la casa che avevano rappresentanti in comune – celebrò la soluzione del problema delle baracche; al posto dei tuguri dell’Acquedotto Felice si costruì il Parco degli Acquedotti: verde a perdita d’occhio per i pic-nic e lo jogging (e per la felicità dei proprietari immobiliari della zona). Ma pochi si preoccuparono di cosa succedeva nei posti in cui erano stati mandati i “baraccati”. Non c’erano più le loro case, e questo contava.

I grandi complessi di case popolari di Roma – Corviale, Laurentino 38, Torbellamonaca – nacquero dopo; vi confluirono anche ex baraccati, tra le migliaia di famiglie che provenivano da vicende del tutto diverse. L’unico quartiere composto interamente da ex abitanti dei quartieri spontanei è proprio Nuova Ostia: un complesso residenziale sul litorale, costruito abusivamente alla fine degli anni Sessanta, rimasto invenduto, dove il Pci e le associazioni del quartiere organizzarono un’enorme occupazione di case, di cui si beneficiarono milletrecento famiglie. A seguito di una vertenza, il comune assegnò le case che erano state occupate. Solo gli abitanti dell’Acquedotto Felice ebbero la fortuna di vedersi assegnare una casa; tutti gli altri furono alloggiati attentamente dai militanti della sezione locale, che assegnarono le case secondo i bisogni di ogni famiglia, provvedendo anche agli allacci dei servizi, agli spazi pubblici e a continue mobilitazioni per ottenere scuole e ospedali.

Ma il comune non aveva “abbandonato” il quartiere. Le palazzine non erano state tolte al proprietario e lasciate nelle mani del popolo. Tutt’altro: il comune prese in affitto la maggior parte degli appartamenti, pagando puntualmente al costruttore Renato Armellini la pigione – naturalmente, molto alta. Da allora e fino a oggi, ogni mese centinaia di milioni di lire, ora centinaia di migliaia di euro, piovono nelle tasche del palazzinaro, per delle case costruite senza permessi e fuori dal piano regolatore; mentre tutte le richieste degli abitanti sono sistematicamente disattese, anche per far asfaltare le strade ci sono voluti anni di manifestazioni. In Amore tossico di Claudio Caligari si ritrae piazza Gasparri come una specie di zona franca, off-limits per gli abitanti del resto di Ostia, in cui l’eroina circolava liberamente; solo l’autorganizzazione delle cosiddette “madri coraggio” di Nuova Ostia permise di creare i primi centri per tossicodipendenti.

A metà anni Novanta l’amministrazione propone di “investire” di nuovo nella zona: e parte il progetto del porto turistico di Roma, con la retorica del superare l’isolamento, del portare risorse nelle zone deprivate. Si puliscono le spiagge, si crea una passeggiata, una pista ciclabile, che rende permeabile un lato del quartiere; ma all’interno si continua a vendere e comprare le case popolari senza nessun controllo, e le reti criminali prosperano; strade e piazze diventano meno pericolose, ma le case cadono a pezzi. Nel 2009 il comune fa evacuare una palazzina pericolante, e si scopre che Armellini aveva fatto mischiare la sabbia del mare al cemento. Gli abitanti – quasi tutti muratori, quasi tutti con una lunga esperienza di autocostruzione – lo sapevano e lo dicevano da sempre.

Quest’anno, poi, con la scusa che Ostia è la porta d’entrata della mafia a Roma, l’amministrazione nominata dopo le dimissioni del presidente del Municipio (accusato di corruzione) ha colpito a casaccio, senza comprendere né il quartiere né la sua storia: hanno fatto chiudere una scuola di danza, senza dubbio abusiva (perché occupata dagli anni Settanta dal PSI, poi lasciata al vecchio custode) ma che suppliva alla mancanza di servizi culturali per i ragazzi; la chiesa, ugualmente abusiva (o occupata), è rimasta aperta. E la figlia di Armellini ha alzato l’affitto al comune, anche quando tutti i giornali hanno reso pubblico che, durante tutti questi anni, su quelle case non è mai stato pagato l’Imu. Intanto, emergono le connessioni tra i gruppi politici al governo, gli imprenditori che gestiscono le concessioni sul litorale e i narcotrafficanti. Ma l’accusa di “mafia” è invariabilmente per chi abita nel quartiere, non per chi ne trae enormi benefici.

Il disastro per le periferie non è l’abbandono. Nell’abbandono prosperano le attività criminali, ma anche autogestione e mutuo supporto. Gli spazi lasciati liberi dal controllo istituzionale permettono un certo grado di gestione collettiva del territorio, che in alcuni casi può riuscire anche a controllare, o a contenere, la diffusione della criminalità e della droga. Il disprezzo, invece, è il sistematico supporto delle istituzioni alle forze più antisociali e predatorie della città, che usano a proprio vantaggio i bisogni dei settori più deboli, e che quindi desiderano che i loro problemi non siano mai risolti. (stefano portelli)

La ricostruzione della storia di Nuova Ostia si basa su un’intervista con Giorgio Jorio, pittore e intellettuale di opposizione di Ostia, realizzata il 18 agosto 2015.

articolo tratto da NapoliMonitor.it

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