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Sottoproletariato, “mafia” e crisi del radicalismo di sinistra

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Ripubblichiamo questo interessante ragionamento di Pietro Saitta ospitato da LavoroCulturale; il testo ci pare interessante nella capacità che ha di analizzare la pericolosità di un discorso esclusivamente legalitario in merito alle vicende di Ostia e all’arresto di Roberto Spada, inserendo il discorso nel quadro più ampio del distacco tra parti della “sinistra” e le nuove forme di vita proletarie che emerge a partire dalla richiesta perbenista di manette e dalla contemporanea assenza di discussione sui percorsi di lotta sociale da contrapporre nelle periferie alla liaison tra fascismo e criminalità organizzata e ad un rassegnato via libera all’azione cosmetica e contingente delle istituzioni. Buona lettura.

Questo articolo considera la vicenda ostiense – fatta di evocazioni della mafia, del malessere metropolitano, del neofascismo – come una vicenda densa sul piano simbolico. Una vicenda, in altri termini, che parla al cuore, alla storia e alla biografia dei militanti della sinistra radicale italiana, così come quello scambio sul social network suggerisce.

Il pretesto per la discussione è costituito da un articolo tratto da Gli Stati Generali, icasticamente intitolato: «Gli arresti a furor di popolo non ci piacciono: neanche per Spada». La tesi dell’intervento – perfettamente condivisibile nella prospettiva fredda dell’analista sociale, del quasi-giurista (sono un sociologo critico della devianza), oltre che del militante politico di sinistra – è che quel fermo ha probabilmente avuto luogo fuori dalla cornice dello stato di diritto, che, in casi del genere, di solito non prevede quella misura, se non in presenza di circostanze verosimilmente assenti e inattuali nella vicenda in questione (per esempio il pericolo di fuga, di inquinamento probatorio o di reiterazione del reato). Quel fermo – è la tesi dell’articolo – è verosimilmente il frutto di «24 ore di polemiche e invocazioni di giustizia, anche sommaria, magari in nome dell’antifascismo e dei valori democratici».

Una tesi – come nota uno dei commentatori del mio post – che presenta «ragionamenti e riflessioni lineari, che non possono essere sottoposti a nessuna obiezione». Che non possono esserlo, in altri termini, perché è indiscutibile che quella tipologia di reato prevede comunemente l’arresto in flagranza o, quantomeno, nell’immediatezza dei fatti. Oltre che essere un atto simbolico (verosimilmente destinato a non essere convalidato, se non tramite il “trucco”, effettivamente adoperato, dei riferimenti a un’aggressione avvenuta in un “contesto mafioso”), il fermo di Spada a distanza di un giorno segnala, di fatto, l’instaurazione di un piccolo “stato di eccezione” ad hoc. Uno di quegli stati di eccezione che, normalmente, qualunque sia la forma e il pretesto (la lotta al “terrorismo rosso” o al “fondamentalismo islamico”; il disastro dell’Aquila ecc.), dovrebbe quasi naturalmente infastidire molti di coloro che si collocano a sinistra. Uno di quei temi, lo stato di eccezione, che non a caso, ha partorito una moltitudine di obiezioni; nella stampa regolare e in quella universitaria, dai giuristi e i filosofi politici sino agli studiosi di disastri. Lo stato di eccezione – peraltro categoria giuridica imputabile, a torto o a ragione, a Carl Schmitt; a un autore, cioè, tanto insigne quanto compromesso col nazismo – alla sinistra radicale, fosse “di strada” oppure “accademica”, un tempo di solito proprio non piace(va).

Sarà chiaro a questo punto che riterrei naturale, per chi si colloca nell’alveo di una “sinistra radicale”, la diffusione di atteggiamenti critici riguardo gli usi tattici del codice penale. Un’assunzione possibile in ragioni delle aspettative minime che compongono, o componevano, i giudizi, le visioni e l’“intimità culturale” di chi occupa quella posizione. Di chi si colloca, cioè, in un quel variegato universo posto “a manca” del Partito democratico, di Rifondazione comunista e delle altre formazioni “dell’arco costituzionale”, che raccoglie gli anarchici, gli “autonomi” di differente confessione, i centri sociali e i “cani sciolti” alieni a qualsiasi etichetta.

Ma, a sorpresa (si fa per dire, dato che in realtà è una vecchia deriva), alcuni miei compagni di avventura politica, in alcuni casi di vecchissima data, notano che: «insomma il fascista […] con associazione a delinquere va protetto dalle istituzioni e lasciato stare nella sua attività di penetrazione delle istituzioni. Mi sembra perfettamente logico»[intervento n. 1].

Questo primo intervento è seguito da quello di un altro compagno, che osserva: «A Roma i compagni sul litorale c’hanno lasciato la gente per terra, come Renato Biagetti. A Ostia la Mafia ci sta eccome, i fascisti pure, e spadroneggiano. Spada con ‘sta gente sguazza come il pesce nell’acqua e a me tanto basta. Le fini analisi le lascio ad altri» [intervento n. 2].

I due interventi conducono a un altro nodo critico, che, pressoché naturalmente, si impone d’imperio a chi si trova a osservare la questione da una prospettiva di sinistra radicale: l’accettazione acritica di termini, giudizi, etichette e categorie di senso ormai comune. Penso in particolare all’impiego disinvolto del termine “mafia”, a una definizione del territorio romano come spazio collocato al di fuori dalla legalità, all’etichetta di “fascista” applicata con leggerezza a Spada. Senza contare lo sprezzo sostanziale rivolto nei confronti di una tipologia urbana: quella sottoproletaria – o ex tale – incarnata proprio da Spada.

A leggere – come avviene in un documentato articolo citato sopra – che per procedere col fermo «si trattava di mettere a sistema le possibilità offerte del codice» e che «la soluzione era a portata di mano. Giusto il tempo di valutare i referti, la posizione della famiglia, i precedenti, blindare il decreto in modo che possa reggere davanti al giudice, e infine agire», da sinistra radicale dovrebbe infatti venire su uno spontaneo moto di fastidio. Di più: mentre si può lasciare alla stampa mainstream e ai benpensanti la soddisfazione per le competenze tecniche dei magistrati che sistemano per le feste il malcapitato, dalla sinistra radicale ci si attenderebbe un profondo senso di disagio per questo “trattamento differenziale”. Lo stesso trattamento, per inciso, riservato a tanti compagni nell’arco della militanza. Ma anche quel trattamento che permette di guardare al diritto come a un dispositivo tutt’altro che neutro e disponibile a essere piegato non verso astratte esigenze di giustizia, ma di mera repressione nei confronti di categorie e classi pericolose. Oggi i fascisti, noi i restanti 364 giorni dell’anno.

Ritornando così al dibattito sulla mia bacheca, alla mia obiezione che le osservazioni contenute nell’intervento n. 2 non fanno «del tipo né un fascista né un mafioso. Ma un proletario a cavallo tra mondi che sbarca il lunario. Personaggi a cui ho quasi sempre guardato come il centro di un’azione politica di sinistra e non un nemico a prescindere», il mio contatto obietta:

ebbasta! Co st’ uso ed abuso di proletario stai delirando davvero. Quelli sono lo stereotipo della peggio merda sottoproletaria di estrema destra. Non è né uno scivolamento a destra né uno di quei casi in cui attivare la coscienza sporca da militante di sinistra benestante. Questa è tradizione ventennale, saldatura inossidabile tra malavita e fascismo, che in questa città è ‘na storia vecchia quanto il cucco. La gente così va eliminata anche fisicamente; altro che centro di attenzione politica.

Il passaggio – per quanto apparentemente episodico e ininfluente, in quanto opinione individuale confinata nello spazio di un commento da social network – va invece preso sul serio e appare centrale per una riflessione critica sulla contaminazione tra radicalismo di sinistra e discorso di senso comune. Molti indizi suggeriscono infatti che tale contaminazione sia estremamente diffusa e costituisca ormai il sentire di molti altri collocati, esattamente come il mio amico, nella sinistra radicale: quella dei centri sociali degli anni Novanta, dell’autonomia, delle “controculture” di strada (l’hardcore e poi l’hip hop, i graffiti) e, poi… la “libera opinione”.

È abbastanza evidente, per iniziare, che l’interesse per i rapporti tra Casapound e il “clan Spada” – come ormai lo si definisce comunemente – si sviluppa in un quadro pre-elettorale, al fine di contrastare l’ascesa, anche istituzionale, della formazione neofascista a Ostia. Similmente l’impressione è che questo discorso non nasca o, per lo meno, non si diffonda a partire dall’impegno delle formazioni antifasciste radicali, ma di quelle semplicemente “riformiste” e per fini elettorali. Difatti la prima volta che il discorso si impone a livello nazionale è, per quanto ho potuto vedere, lo scorso 30 ottobre, quando quotidiani certamente non radicali – come, per esempio, Globalist – si appropriano del tema e lo diffondono. A partire da quella data inizia la campagna contro Spada e, perciò, contro Casapound, generalmente accusata di avvalersi dei servigi del “boss legato ai Casamonica”.

A questo punto, il pensiero di un “sinistro” radicale – sensibile peraltro ai temi della criminalizzazione; se non altro per provarla periodicamente sulla propria pelle – è che questa attenzione per Ostia, i quartieri abbandonati e, soprattutto, Casapound, non sia una campagna antifascista e per la democrazia nei quartieri. È, invece, una campagna elettorale alquanto tradizionale, giocata secondo lo stile di formazioni di destra “moderata” come il Partito democratico. Una campagna che, per una volta, non ha al centro gli immigrati, ma quegli spazi e quelle classi sociali che, d’altra parte, hanno costituito a lungo l’obiettivo naturale delle campagne di ordine e sicurezza prima del consolidarsi della questione migrante: le borgate e gli spazi dei poveri. Una campagna, più precisamente, che ha forse origine nella galassia “antagonista” e nell’impegno antifascista; ma che è stata, per così dire, scippata di mano e rivolta nelle direzioni classiche delle moderne campagne securitarie succedutesi a partire dalla fine degli anni Novanta.

In modo affatto diverso da quanto sperimentato a Caserta ai tempi della lotta contro i Casalesi, quando la lotta dello Stato contro un clan in caduta libera servì soprattutto a rinforzare la carriera di un ministro degli Interni e di uno scrittore, ciò che da sinistra radicale ci si aspetterebbe è il rigetto di un metodo e di una retorica pubblica fondata su copioni prevedibili e ripetitivi. Ma questo, tuttavia, non avviene e si assiste anzi alla cooptazione di ampi settori del radicalismo di sinistra nel discorso essenzialmente legalitario di questa nuova “destra”, coincidente essenzialmente col Partito democratico.

Si assiste dunque a una particolare cooptazione, ma anche a una sorta di svolta antropologica: quella che trasforma occupanti, illegali e soggetti d’area in genere in persone sensibili al discorso legalista, partecipi di quel sostanziale disprezzo dei “quartieri” che costituisce il centro e la ragione di una sconfitta preparatasi molto tempo fa. La consegna, cioè, di gran parte dei quartieri popolari – non tanto di quelli romani, ancora ripartiti tra fascisti e antifascisti, quanto di quelli nazionali – nelle mani della destra più o meno radicale. E non tanto da un punto di vista politico-elettorale (lì dove si può votare Pd o Forza Italia in modo pressoché complementare) quanto antropologico o culturale (nei termini di una xenofobia diffusa e di un nazionalismo identitario che prescinde dalle preferenze elettorali, specie se strumentali o clientelari).

Questo sostanziale disprezzo per quella tipologia umana sottoproletaria che costituiva il centro di ossessioni artistiche come quelle del neorealismo oppure delle finalità pedagogiche di una politica impegnata a costruire la cittadinanza (quelle finalità che avevano spinto i principali partiti del dopoguerra ad avere sedi capillarmente diffuse nei territori e nei quartieri), e tale accettazione diffusa dei termini del discorso legalitario, costituiscono le ragioni rispettivamente di una sconfitta e di una vittoria. La sconfitta della sinistra (radicale e riformista) e la vittoria della destra radicale. Una vittoria “egemonica”, che, come tale, può prescindere dalle urne e dirsi realizzata. Qui e ora, potremmo dire.

E se è pur vero che questo disprezzo è antico e che il padre putativo dei radicali contemporanei non celava il suo sdegno per l’universo sottoproletario – possiamo menzionare a riguardo le pagine del 18 brumaio di Napoleone Bonaparte di Marx – è pur vero che questo sprezzo è stato presto messo da parte. Si ricorderà, infatti, come persino le prigioni erano un tempo divenute spazio di una colonizzazione di sinistra volta a politicizzare quel sottoproletariato. Ma, soprattutto, vi è da dire che questo spregio appare anacronistico nella società della fine del lavoro. Nell’epoca, cioè, della sottoproletarizzazione complessiva della società. In tale quadro, in cui a fare la differenza è il capitale familiare più che qualsiasi altra prospettiva relativa al futuro, queste forme di distinzione ricordano il disprezzo nostalgico e revanchista dell’aristocrazia nei confronti delle “classi inferiori”, all’alba del proprio crepuscolo e in prossimità della propria estinzione come classe sociale.

Se tutto questo è vero, possiamo dire che molta sinistra radicale è andata oltre la semplice svolta antropologica per consegnarsi a un’illusione: la stessa, per dirla con un libro che ho apprezzato solo in parte, di quella “classe disagiata” incapace ormai di vedere il proprio posizionamento e destinata perciò a soccombere miseramente dinanzi alle istanze di una controparte infinitamente più cinica e capace di leggere il presente. Tempi interessanti.

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