Il precipitare di un mondo, l’urgenza di una lotta
Mercoledì 30 settembre la prefettura di Ventimiglia, su ordine del Ministero dell’Interno, ha deciso di sgomberare il presidio di migranti e attivisti che da mesi occupava una piccola area nei pressi immediati del confine tra Italia e Francia. Ventimiglia era uno dei tanti nodi caldi della questione immigrazione che sta ridisegnando le cartine territoriali, sociali, politiche e umane del pianeta.
Siria, Afganistan, Iraq, Somalia, Libia, mille altri luoghi: l’elenco dei paesi in guerra è infinito e milioni sono le persone che scappano dalle loro terre. Le cause di queste tragedie e dei relativi esodi sono sempre le stesse: un tempo si parlava di colonialismo e imperialismo, oggi la chiamano globalizzazione. E’ il capitalismo che da secoli saccheggia i territori, costringendo alla miseria e alla fuga le sue popolazioni. Ed il capitalismo stesso sa di non poter fermare il disastro, tant’e che dal 2004 ha istituito un organo di polizia internazionale, Frontex, per pattugliare e controllare quelle frontiere e quei confini che dividono il pianeta in modo sempre piu spietato. Oggi Frontex ci dice che quest’emergenza durerà decenni. Bella scoperta.
La celebrazione della caduta del muro di Berlino e quella degli accordi di Schengen come fine di un’epoca in nome della libera circolazione appaiono oramai una barzelletta storica, uno scherzo di cattivo gusto. Confini fortificati, muri di cemento e reticolati di filo spinato percorrono l’Europa in lungo e in largo per centinaia di chilometri, aumentando in modo esponenziale di giorno in giorno. Schengen rimane valida solo per le merci, a ricordarci qual è la vera scala dei valori per il capitalismo, al di là delle retoriche di facciata dei politici di turno. Hanno cominciato anni fa le barriere metalliche di Ceuta e Melilla a ricordare il privilegio della ricca Spagna nel cuore del povero Marocco; allora sembrava un anacronismo fuori tempo, in realtà era un avamposto. Oggi a scoraggiare “scomode intrusioni” stanno crescendo muri ovunque, tra Grecia e Macedonia, tra Ungheria e Serbia, Bulgaria e Turchia, uno a Calais; ognuno di essi porta tutti i giorni storie di morte e disperazione. E dove non c’è la terra da dividere, da rendere impenetrabile, c’e il confine naturale del mare da superare, reso terribile dalle varie mafie che gestiscono la tratta dei migranti: oltre tremila morti nel Mediterraneo solo dall’inizio del 2015. Non è forse questo lo scenario di una guerra, una guerra dell’Occidente contro i poveri e gli esclusi?
Nella geografia spaziale che i migranti determinano nei loro tentativi di sopravvivere si materializzano scenari dai significati profondamente diversi. Due casi paralleli esemplari: quattromila migranti accampati nella cosiddetta “giungla” di Calais sulla costa francese; altri quattromila ospiti nel CARA (Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo) di Mineo nel cuore della Sicilia.
A Calais i migranti arrivano dopo viaggi infiniti, con la meta agognata dell’Inghilterra; lì vengono bloccati da un dispositivo feroce che deve impedire loro di attraversare la Manica. Gli assalti al tunnel, ai camion e ai treni che attraversano il canale sono continui e sempre piu di massa: quelli che ce la fanno sono pochi, non rari i morti. Nell’attesa i migranti hanno occupato un’area ai margini di Calais costruendoci una vera e propria città precaria – la “giungla” – dove migliaia di persone vivono, in molti ormai da anni. La polizia, che sistematicamente sventa ogni tentativo di occupazione di case in città e nei paesi limitrofi, saltuariamente sgombera con violenza “la giungla”, che però rinasce dalle sue ceneri come una Fenice, arricchendosi di volta in volta di scuole, negozi, attività, spazi di ritrovo e socialità. Tra un tentativo e l’altro di attraversare la Manica, tra una sfida e l’altra con la morte, tra mille difficoltà e inevitabili contraddizioni, gli abitanti nella “giungla” si autogestiscono e si organizzano, al punto che molti di essi hanno rinunciato a raggiungere l’Inghilterra perche ormai preferiscono restare nel luogo e nelle relazioni che lì vi hanno preso forma e vita.
A Mineo invece i migranti arrivano quando uno dei tanti barconi che parte dalla Libia riesce nell’impresa di attraversare il Mediterraneo senza affondare, e approda a Lampedusa. Da lì quelli che intendono richiedere asilo politico vengono smistati dalla autorità nei cosiddetti centri di accoglienza. Mineo è uno dei piu grossi d’Europa. Mineo è un villaggio di prefabbricati e case unifamiliari costruito dall’impresa edilizia Pizzarotti nella campagna intorno a Catania per ospitare i militari americani della base di Sigonella, che i militari stessi hanno abbandonato nel 2010 per trovare una sistemazione migliore. Mineo è un luogo anonimo, isolato dai paesi circostanti da oltre dieci chilometri di campagna non serviti da nessun mezzo pubblico. Nei prefabbricati di Mineo i migranti vivono per anni in attesa di un asilo che non arriva mai, in condizioni penose materialmente e moralmente, invisibili alla popolazione, isolati, sradicati, con una scheda prepagata di pochi spiccioli da spendere, senza la possibilità di cucinare autonomamente negli alloggi sovraffollati, con plotoni di poliziotti in antisommossa che li controllano tutto il giorno. E’ la tipica gestione concentrazionaria dei luoghi gestiti dalle autorità (polizia, esercito, Croce Rossa) in situazioni di emergenza, come nei campi post-terremoto dell’Aquila, dove nessuno spazio è concesso all’autonomia e all’autorganizzazione delle persone in nessun ambito della propria vita. Mineo se non proprio un lager è una prigione; e infatti a Mineo ci sono suicidi e talvolta rivolte, come nelle prigioni. Mentre nella “giungla” di Calais, attraverso l’autogestione, molte persone arrivano al punto di abbandonare il desiderio di andarsene, a Mineo, sotto il controllo dello Stato e delle forze di polizia, le persone desiderano evadere e togliersi la vita. Ma non solo; Mineo, come tanti altri centri di accoglienza, è finita nel ciclone dell’inchiesta di “Mafia Capitale”, punta dell’iceberg del business dell’accoglienza che sembra aver turbato tante anime belle. Mineo è una delle tante mangiatoie in cui le cooperative di ogni colore politico si spartiscono la torta succulenta del terzo settore; milioni di euro stanziati formalmente per aiutare i “dannati della terra” che vanno ad arricchire le tasche dei soliti noti.
In questo confronto tra la gestione della propria sopravvivenza da parte dei migranti e il trattamento riservato agli stessi dalle autorità emerge nitida una fotografia di cosa c’è in ballo sui confini d’Europa; e, di riflesso, si intuisce il significato di quanto accaduto in questi mesi a Ventimiglia, sorella minore della “giungla” di Calais. Rivendicare l’esperienza di Ventimiglia significa rilanciare l’importanza dell’autorganizzazione dei migranti nel momento del disastro, disastro di cui loro sono le prime vittime ma di cui tutti siamo parte e di cui dobbiamo decidere se essere complici o nemici; significa condividere un’esperienza diretta di lotta per rompere la gestione totalitaria delle autorità – statale o internazionale che sia – che produce solo repressione per i poveri e business per i ricchi.
L’ esperienza di Ventimiglia ha punti di forza da rilanciare come debolezze da cui trarre insegnamenti.
Da un lato c’è il valore impagabile di una situazione che, trasformandosi da luogo opprimente di transito in spazio di organizzazione e autonomia, è diventata una comunità permanente in lotta. In questo processo essa è stata preziosa in sé e per sé, un’esperienza che ha infuso forza e coraggio a chi vi ha partecipato, migranti e solidali. Nello scenario imposto dal capitalismo e dalla Fortezza Europa, contro la guerra tra poveri fomentata dai razzisti (e tollerata da troppi complici di “sinistra”), si vince già autorganizzandosi, vivendo assieme, sperimentando la solidarietà tutti i giorni tutto il giorno, costruendo e vivendo collettivamente una situazione di resistenza e lotta. Come hanno ben detto alcuni compagni milanesi “la forza di Ventimiglia sta nel fatto che come in Piazza Tahir, al campeggio di Chiomonte, Piazza Taksim, Piazza del Sol intorno a una lotta contro un’ingiustizia si scopre la vita, la felicità di lottare insieme, di costruire con le proprie mani qui ed ora un’alternativa alla miseria che ci vogliono imporre. Si scopre che forse non vale la pena andare fino in Germania a trovare un futuro migliore, perche il futuro è già qui, nella solidarietà e nell’amicizia, nella gioia dell’amico che ce l’ha fatta grazie al nostro aiuto e nella rabbia per i ragazzi chiusi in un container dalla gendarmeria francese”. Fare questo, “stravolgere i territori che sembrano inabitabili e renderli luoghi dove è piacevole stare, da dove non vorremo mai andarcene” e farlo insieme ai migranti, significa, per chi ce l’ha a cuore, portare la lotta contro il razzismo nel quotidiano, in un reale denso di sfumature e possibilità. Fare questo offre preziose opportunità di recidere le radici alla presa di terreno dei neofascisti, senza dover aspettare lo scontro occasionale e l’apertura delle sedi di Casapound e Forza nuova. Da sempre la destra raccoglie consenso nel momento in cui situazioni di crisi spostano il bersaglio facile del disagio su chi è piu debole, in questo caso i migranti, i profughi. Non è un caso che stiano rialzando la testa proprio ora e la parabola di Alba Dorata in Grecia in questo senso è semplare, paradigmatica. Per loro è un momento propizio, un’occasione da cogliere; a meno che i compagni non capiscano il senso profondo di quello che sta accadendo e di costituire a partire da esso una posizione di contrattacco. Dall’altro lato è pur vero che situazioni come il campeggio di Ventimiglia e altri snodi a ridosso dalle frontiere sono bolle difficili da gestire materialmente ed a livello strategico. Intanto perché per la stragrande parte delle persone non è materialmente possibile trasferirsi a vivere sul confine. Ma soprattutto perché le sfide decisive di quest’enorme partita si giocano altrove. L’accoglienza, la gestione logistica e lo smistamento delle masse dei migranti avvengono a monte, al momento del loro arrivo e nelle grandi città. Ed è lì, in questi snodi, che chi ha cuore di spendersi in questa lotta di umanità, giustizia e riscossa puo impegnarsi su svariati fronti.
All’apice della lotta Notav sovvenne la consapevolezza che la lotta all’alta velocità in Valsusa si giocava nella scommessa di allargare a macchia d’olio quell’esperienza di resistenza: “portare la valle in città”, “portare la valle ovunque”, divennero le parole d’ordine di un momento storico breve e intenso, che fece intravedere potenzialità di lotta enormi. Qualcosa di molto simile vale oggi per la lotta di resistenza alla Fortezza Europa. Molto si puo fare per portare “Ventimiglia ovunque, in ogni città” e, in questo senso, il bagaglio di esperienze dei compagni, arricchitosi in questi anni di lotte, non ha che da dispiegarsi permettendo ad ognuno di muoversi a seconda della propria sensibilità.
Se c’è un dato incontrovertibile degli ultimi anni è che oggi la possibilità di accedere alle informazioni è moltiplicata a dismisura: tutti, o quasi, hanno la possibilità di sapere ciò che accade nel mondo. A fronte di questa massa di informazioni l’apparente paradosso è che aumenta il senso d’impotenza, il dubbio di non sapere cosa fare, da dove partire, come organizzarsi e reagire. Eppure questa ricchezza di informazioni non puo rimanere un handicap. E’ necessario sapersi muovere nello sterminato campo delle necessità pratiche, nelle strade delle città e negli spazi focali della lotta, quanto nel delicato empireo delle idee e dell’immaginario, di tutto l’apparato che influenza la nostra volontà di agire e di metterci in gioco. Dobbiamo trovare le modalità per destreggiarci nell’urgenza degli avvenimenti quanto di elaborare ragionamenti di lunga prospettiva; essere in grado di formulare un immaginario altrimenti colonizzato dalla passività quanto di elaborare una teoria all’altezza degli accadimenti.
La storia non procede in modo lineare. All’interno dei processi storici ci sono salti, precipizi, accelerazioni, momenti in cui percorsi anche secolari arrivano improvvisamente ad una soglia critica, ad un dunque, ponendo questioni decisive che riguardano tutti.
E’ nostra sensazione che questo assomigli proprio ad uno di questi momenti epocali.
Il moltiplicarsi e la recrudescenza di conflitti in territori sempre piu vasti, il loro sovrapporsi in modo incontrollabile ed il loro presentarsi alle nostre porte nella forma della questione migranti non lasciano molti dubbi sull’urgenza e la gravità di quanto sta accadendo. Arriviamo forse oggi al dunque di un processo secolare di depredazioni, saccheggi e conflitti che l’Occidente capitalista ha provocato e che dimostra oggi di non saper gestire, a meno che non sia per lucrarci le ultime speculazioni possibili (“Mafia Capitale” appunto). Le milioni di persone in fuga dagli infiniti scenari di guerra e fame non sono contenibili, non sono gestibili, se non probabilmente con politiche già sinistramente sperimentate in passato. All’ombra di muri, fili spinati ed eserciti schierati ai confini, non è fantascienza distopica immaginare per esempio una riproposizione della gestione di quest’umanità in eccesso attraverso la riproposizione e l’aggiornamento dei campi di concentramento.
Basti pensare che l’Europa è sul punto di assegnare (lo decide il 15 ottobre) alla Turchia di Erdogan la gestione di campi profughi destinati ad ospitare milioni di profughi e migranti irregolari respinti da altre frontiere dell’Unione e di pattugliare, in collaborazione con Frontex, l’Egeo. In cambio cosa chiede Erdogan? Che la Turchia venga riconosciuto come “paese terzo sicuro”, ovvero come paese democratico che rispetta i diritti internazionali, che non tortura né perseguita nessuno. In pratica chi, sotto gli occhi del mondo, persegue, bombarda e tortura i curdi diventerebbe la forza democratica che gestisce e si fa garante dei flussi migratori nell’area al momento piu calda. Quale specchio piu significativo degli scenari prospettati dalla Fortezza Europa? La sensazione è di essere avviati ad un punto di non ritorno, di fronte al quale è impensabile restare spettatori passivi che si limitano a commentare le notizie e ad indignarsi. La guerra che si presenta alle nostre porte nelle forme delle masse di migranti in fuga ci riguarda in prima persona. Trovare la lucidità e le forme per opporsi ad essa non è una questione di pura solidarietà nei confronti degli ultimi della terra, ma di dignità e sopravvivenza collettiva. Come immaginare una qualsiasi lotta per la conquista di margini di libertà in uno scenario che diventa così soffocante? Come non schierarsi contro una guerra che è sempre piu palesemente “in casa nostra”? Il rischio è di svegliarsi troppo tardi, quando rimarranno pochi margini d’azione. Lo scenario muta rapidamente di giorno in giorno, non solo al livello delle scelte politiche dall’alto, ma anche nel vissuto delle persone travolte dagli eventi. Essere presenti, prendere posizioni incisive, costituirsi forza nell’ambito di ciò che sta accadendo, può spostare in modo decisivo l’ago della bilancia tra posizioni pericolose, esplicitamente reazionarie o semplicemente accondiscendenti, e opportunità da cogliere. Stabilire i passaggi da fare per muoversi in modo efficace in questo contesto è evidentemente tutt’altro che facile, ma è assolutamente necessario. Occorre sicuramente svegliare e condividere la coscienza dell’urgenza di doversi muovere su questo campo in modo risoluto. Occorre organizzarsi a livello locale stabilendo una priorità dei campi d’azione e intervento.
In definitiva la questione dei migranti, declinata localmente nella situazione di Ventimiglia ma al centro delle vicende internazionali, tocca il cuore di tutte le lotte che attraversano questi tempi e dovrebbe verosimilmente coinvolgere ogni compagno. Da chi, avendo cara l’opposizione concreta al razzismo e al fascismo, non puo non vedere la violenza e la minaccia in questo senso di muri, fili spinati e confini armati. A chi, lottando contro la devastazione e il saccheggio dei territori (la lotta Notav), non può ignorare la centralità decisiva del fatto che oggi le merci sono libere di attraversare il mondo e i corpi no; che si bucano le montagne per decine di chilometri per fare andare piu veloci le prime e contemporaneamente si alzano muri alti chilometri per bloccare i secondi. A chi, lottando contro la precarizzazione della vita – sul lavoro, nella lotta per la casa, contro l’allargamento delle sacche di povertà – non puo non rendersi conto che i dannati della terra in fuga dalla miseria e accalcati alle nostre porte sono solo l’avamposto di uno tsunami che a breve ci coinvolgerà tutti. A chi, avendo semplicemente preservato nell’animo un desiderio di umanità, spirito di solidarietà, voglia di rovesciare questo mondo, non riesce a voltare lo sguardo e a far finta di non sentire che si sta combattendo una delle battaglie piu importanti contro la miseria e la barbarie avanzanti.
Costruiamo comunità in lotta, rendiamo i flussi migratori un fattore di ingovernabilità, rendiamo la Fortezza Europa un barcone, attacchiamola da ogni lato, ovunque, ognuno dal posto in cui si trova, e affondiamola definitivamente.
Genova, ottobre 2015
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