Impressioni da Parigi
Riceviamo e pubblichiamo questo contributo in forma di annotazioni a caldo scritto da un compagno presente nella piazza parigina dei gilet jaunes dello scorso sabato.
Premessa
La giornata di sabato a Parigi è stata a tal punto estesa nel tempo e nello spazio ed eterogenea nella composizione che è fisiologicamente impossibile restituirne una sintesi esaustiva. Nello spazio perchè, alle 14 ad esempio, si contavano più di 40 blocchi nella zona (larga) attorno agli Elisi, in prossimità, sì, ma otticamente non apprezzabile. Banalmente per spostarsi da uno all’altro si impiegavano anche decine di minuti e la possibilità di uno sguardo “complessivo” sfumava. Nel tempo perchè si è protratta dal primo mattino fino alla tarda sera e non avendo nè una apparente direzione nè tantomeno un “percorso” anticipatamente deciso, solo per sommi capi se ne può sancire un inizio e una fine, e soprattutto se qualcuno aveva deciso di approfittarne per una passerella a mezzogiorno già se n’era tornato a casa. Pertanto solo l’odioso volo d’uccello degli elicotteri della Police ha forse avuto contezza della giornata nel suo complesso. Per chi come noi l’ha vissuta da dentro il quadro è impossibile, si possono restituire solo parzialità ed individuarvi note comuni. Sicuramente dovremo essere abili a combinare, a comporre questi scorci nei giorni a venire. Le ore precedenti non sono state poi diverse dalle tante che sempre anticipano le grandi occasioni politiche. Polizia in fibrillazione, appelli al buon senso, paranoie di varia natura. Differenti, almeno rispetto all’Italia, sono forse state le esplicite prese di posizione dei leader di opposizione. Melenchon e la Le Pen non hanno esitato a schierarsi con i Gilet, così vari altri sindacati, benchè chiaramente sin dai giorni precedenti era noto che non sarebbe stata una passeggiata. “Pas de justice, pas de paix” è stato il richiamo del portavoce della Gauche, comunque al 19% alle ultime elezioni. Chi si fosse troppo fermato a leggere la stampa mainstream nei giorni precedenti, avrebbe rischiato – se non dotato di dovuti anticorpi – di farsi fare il lavaggio del cervello: il copione era lo stesso usato per i forconi italiani. Zotici e fascisti contro il ministro ambientalista e attento al futuro. Se sicuramente è innegabile che l’estrema destra (Front National) non solo non abbia taciuto le proprie simpatie per i Gilet ma realmente, attraverso i suoi militanti, abbia partecipato ad alcuni blocchi (come sabato a Parigi, con qualche bandiera), la riduzione metonimica di centinaia di migliaia di persone a questa componente è sbagliata e colpevole.
I simboli – Cambia il tricolore ma non cambia la sorte
Poche bandiere, niente di simile a quelle sceneggiate folkloristiche cui ci ha abituati l’estrema destra, tenute in mano come a ricongiungersi idealmente con una comunità sentita adesso come vessata ed espropriata: la sensazione era che chi sventolava il tricolore, in quel momento si stava riappropriando del potere di decidere sul valore, sul senso, sul contenuto di quel vessillo sottratto, “nelle mani sbagliate” fino ad un attimo prima. Del resto il “simbolo” è una soglia contesa significata da rapporti di forza che si sostanziano, sciolgono e riaggrumano nella Storia e non un oggetto eternamente maneggiabile allo stesso modo. A costo di essere frainteso: la “”””francesità”””” profonda di cui con la mascherina antigas si andava alla riconquista, quel “Marchon, Marchon!”, sostanziava di una nuova contingenza le 3 note parole: libertà di bloccare tutto, uguaglianza economica e non sperequazione della ricchezza, fratellanza tra sfruttati in un binomio semplice “Macron démission”. Sembra posticcio ricordarlo: nel 2013 succedeva la stessa cosa in Grecia, la bandiera bianco-celeste sventolava tra i gas lacrimogeni. La stessa che divenne simbolo di antifascismo e ostilità alla Troika, non a caso a Bologna gli studenti la sottrassero anche all’ambasciata durante un corteo. Chi sabato portava con sè il tricolore sugli Elisi non sembrava perciò instaurare un rapporto obliquo sul piano dell’etnia o dell’appartenza ad altri stati nazione, quella rivendicazione era interna ad un perimetro amministrativo e obliqua secondo la domanda “chi decide?”. Era politica ma polarizzata da una questione di ricchezza, non di razza. Quello di cui quel popolo era espropriato era futuro e denaro, i nemici coloro che ne detengono troppo. Una questione di classe. Se gli oggetti simbolici chiamati ad unire questa rivendicazione sono diventati un Gilet giallo e la bandiera nazionale c’è dunque poco da elucubrare e da fare gli ideologi, e soprattutto non c’è niente di zotico: prosciugati da qualsiasi altra “grande narrazione” è chiaro che a venir caricati politicamente di senso collettivo sono gli oggetti della quotidiniatà (in questo caso il gilet, obbligatorio sul cruscotto delle macchine), che mettono in comune una condizione di sfruttamento, e la bandiera nazionale. Al netto del cambiamento di ruolo dello Stato europeo nella globalizzazione, della sua ricollocazione etc, è innegabile che resti un perimetro per lo meno amministrativo che ti ricorda di sè ogni volta che paghi le tasse, vai all’ospedale, prendi una multa o ti chiedono di andare a votare. Non a caso i lepenisti (fino a che ci sono rimasti in piazza) avevano la propria bandiera, quella francese era troppo larga per loro, in quelle ore richiamava una comunità di cui loro stessi non si sentono parte, quella dove il colore della pelle e il genere non sono discriminanti. Di questo è emblematico, a Montpellier, il tocco solidale con il corteo #NousToutes .
La composizione – Buongiornissimo, scontri?
Gli ultimi due anni di movimento francese ci hanno presentato una composizione a guida giovanile, la cui disponibilità allo scontro era realizzata sulla piazza dai “cortège de tete”, le teste combattive delle manifestazioni. La “queue” di quelle giornate passava sempre più inosservata, benchè gli inizi dell’insubordinazione contro la Loi Travail vedessero una forte partecipazione operaia. Ricordiamoci che furono i giubbetti rossi della CGT i primi ad incendiare i picchetti con barricate di copertoni. Questo sabato, invece, è stata la “coda” (in generale, chi stava prima “in secondo piano”) a prendersi la testa. I giovani in piazza c’erano, ma assolutamente non come componente maggioritaria. Un’altra questione generazionale prendeva il sopravvento, quella di chi nel mito del futuro e del lavoro c’è cresciuto, c’ha fatto su famiglia e adesso come cielo di carta vede tutto andare in rovina. La madre 40enne con la bandiera francese in mezzo ai lacrimogeni che grida “per i miei 3 figli che non hanno futuro” può essere una buona sineddoche. Per tutta la giornata sono state erette barricate con tutto ciò che era a disposizione lungo i grandi boulevard. Questo gesto ripetuto in loop con sensazione di pura normalità non era assolutaente “delegato” ai più giovani, generalmente considerati “più in forza”. Era pratica di chi aveva qualcosa a portata di mano ultile a bloccare tutto, assolutamente non una questione d’età. A dare battaglia sugli elisi per 12 ore c’erano indifferentemente donne, uomini, giovani, meno giovani, neri, bianchi e a pallini. Quello che ha messo in diffcoltà la Police, o che comunque ha sconsigliato a chi sta in alto di dare certi ordini ai suoi, è stata – oltre alla determinazione – anche questa eterogeneità: “Les francais en colère”, era una questione generale, non settoriale, non si trattava di educare qualche giovane scalmanato. In piazza c’erano famiglie, dai nonni ai figli, e avevano la pelle di vari colori. C’era il vecchio elettorato ed il futuro. Attraversata anche da istanze indipendentiste (Bretoni e Corsi), il problema dell’appartenenza nazioanle espresso era perciò scomposto su più piani: c’era chi – rispetto a quella francesese – se ne chiamava totalmente fuori, rivendicando per sè un’altra identità e riconoscendo nella Francia un invasore, chi invece si sentiva dentro al tricolore, ma tradito nella sua attuale interpretazione. Quel sentimento appariva perciò, in questo secondo caso, spostato dalla posizone coloniale e patriottica (Francia VS il resto del mondo) e ricollocato, ricomposto sul piano politico interno dello Stato. La sensazione era che ad essere messo in discussione fosse un patto sociale, che il tricolore testimoniasse la natura oppressiva di questo patto. La comunità immaginaria evocata non era dunque “sangue e suolo”, ma bisogni e condizioni. Questo chiaramente non per fare la toletta alle contraddizoni e ambiguità del magma giallo, nè per appiccicare un modellino a quanto accaduto, piuttosto per evitare di fissarci sull’unghia del dito che indica la luna.
Le pratiche – Il blocco, l’Eliseo
Questa è la mappa dei blocchi di sabato attorno alle 14. Non sono necessarie poi tante didascalie, pure il buon Haussmann ha sbattuto a ripetizione la capoccia sulla lapide. Chi è venuto a Parigi – in molti, a sentire chi abita la città da tempo, erano i francesi con un altro francese – lo ha fatto per un motivo chiaro: bloccare tutto, raggiungere l’Eliseo. Questa pratica del resto è fondativa per i Gilet Jaunes, tutt’ora mentre scriviamo ci sono blocchi in vari punti del confine con il Belgio, nonchè aldiqua della frontiera, e probabilmente molti altri di cui non abbiamo notizia. Per quanto effimera – una giornata – la sospensione di sabato se non rivolgere lo stato di cose presenti a Parigi, ha sicuramente dato modo di misurare, di osservare spazi di possibilità e risposta inediti. Parlando con compagni italiani e francesi che ben conoscono la città, abitandoci od avendoci abitato per anni, era comune la reazione “Mai visto prima”, in questi modi, con questa intensità, una sommossa che si è tenuta gli Elisi letteralmnete cacciando la polizia. Le prime barricate sono state alzate di mattina, fino a serata inoltrata se ne vedevano ancora a decine, abbandonate o ancora utilizzate. I fuochi, gli incendi di macchine o altro, la situazione sugli Elisi era per lo meno suggestiva, l’energia che si respirava inaudita, scene di liberazione generale e collettiva da un quotidiano ormai insostenibile. Si producevano comunità lì dove c’era circolazione, e si scopriva quanti ‘urbani’ possono esistere oltre quello di tutti i giorni. Semplicemente, che qualcos’altro è possibile, e non è un’informazione da poco. Non soltanto la normale circolazione era bloccata, il Black Saturday dopo il Black Friday, non solo l’aria pregna di gas aveva disinfestato le vie dello shopping dai più indesiderati tra gli avventori, gli upper class dalla sterminata puzza sotto il naso, ma a tratti si percepiva un inedito unisono. Purtroppo non è abitudine che una piazza combattiva sia applaudita da chi non ne fa parte, o che chi non partecipa a momenti di uso della forza politica più intensa si esima dal fare la morale al fratello o alla sorella. Anche questo però è successo sabato, mentre sugli Elisi si combatteva, un folto gruppo di Gilet bloccava le vie attorno alla Lafayette, al grido di “il popolo francese arrabbiato”, intonando alternativamente la Marsigliese e l’Internazionale. Si sentivano gli scoppi poco lontano, procedendo verso la Galleria si erigevano barricate a protezione: un suono che si irradiava nello spazio, riformulava i regimi di prossimità e distanza dando un’indicazione generale: la lotta continua, ad ognuno il suo fronte. Un’unisono popolare e di classe contro chi detiene, benchè sia l’1%, il 93% della ricchezza mondiale.
Le rivendicazioni e la soggettività – La transizione ecologica la paghino i ricchi
Note veramente parziali: la semplicità puntuale delle rivendicazioni, la coerenza pratica e la determinazione. “Macron démission!”, assedio finchè non te ne vai. Oltre al ritorno per così dire di pratiche e parole d’ordine che nel nostro paese negli ultimi 6/7 anni abbiamo più volte sperimentato (l’assedio, il blocco, il palazzo del potere), la questione più interessante credo sia l’itinerario che le rivendicazioni hanno percorso in due settimane, dato assolutamente anche qualitativo dal punto di vista della soggettività. Inizialmente partita come contestazione contro l’aumento dei prezzi del carburante, la protesta consisteva o nel bloccare o nel rallentare significativamente la velocità di scorrimento su quelle arterie che ogni giorno migliaia di lavoratori percorrono con la propria macchina. Velocissimamente si sono sviluppati due salti: il primo è stata la repentina massificazione che da facebook ha condotto quasi 300.000 persone in tutta la Francia a scendere in strada, vanificando la dicotomia virtuale-reale e dando continuità sul piano politico all’istanza espressa sul social network, la seconda la generalizzazione, non solo una questione contingente, ma complessiva: Macron ti devi dimettere. Ed in più: la transizione ecologica la paghino i ricchi. Queste sono forse le parole più importanti espresse dalla pizza parigina, in un momento in cui i cambiamenti climatici non solo sono sotto gli occhi di tutti, ma mietono vittime anche i Europa e generalmente non tra chi abita in villa. Sono 18 anni, dall’inizio degli anno zero, che la questione climatica è diventata (fatta eccezione per alcune battaglie territoriali tra cui chiramente la lotta No Tav ed altre nel nostro paese e non solo) “responsabilità civile del singolo” (la cicca a terra, la raccolta differenziata), un problema di targhe alterne o affare di mirabolanti accordi transnazionali che stanno praticamente poco sotto il piano della ricetta della Nutella. Quello che è successo sabato sembra riportare ad una velocità imprevista ed inaudita il problema, l’istanza ecologica alla base, su un piano di classe e conflitto di massa. Negli ultimi 15 anni per lo meno, il discorso ecologico – in senso generale di “ambientalismo” – è stato conquistato da un certo “capitalismo illuminato”, che ne ha fatto il campo di una mediazione possibile tra interessi della finanza e oggettive e soggettive necessità di rapportarsi ad un pianeta sempre più inquinato. Alcuni progetti urbani di piccola o piccolissima scala sono diventati il modello pilota per tendenzialmente andare a ripensare la vita e la mobilità su scale più ampie. Le aporie e le parzialità di classe dentro questo progetto di lungo periodo sono di giorno in giorno più evidenti. La piazza parigina, i Gilet Jaunes, sembravano quindi prorompere in una domanda dirimente per il diritto (imminente) alla “città del futuro”: la Smart City? Sì, ma la paghino i ricchi.
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