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Intervista a Walden Bello: crisi finanziaria e crisi alimentare

Nella convesazione che abbiamo avuto con lui via Skype lo abbiamo visto stanco. Ha lavorato per portare  aiuto a Manila dove le inondazioni dei giorni scorsi hanno causato la morte di più di 60 persone e più di 360.000 senzatetto. Sono state conseguenza delle piogge monsoniche che secondo gli esperti delle agenzie internazionali hanno avuto conseguenze più gravi a causa delle baraccopoli e dell’accumulo di spazzatura nelle fognature.

PH: Com’è la situazione?

WB: È migliorata, perché il tempo è migliorato. Fondamentalmente è successo per il cambiamento climatico.

PH: Lei è stato membro di Greenpeace International nella regione Sudest asiatico e il suo libro sulla distruzione ambientale in Thailandia è stato ampiamente divulgato e premiato. Qual è la relazione tra la crisi finanziaria e quella ambientale?

WB: Le dinamiche della globalizzazione, del capitalismo, hanno contribuito in grande misura alla crisi ambientale. Quando guardiamo al capitalismo e alla sua relazione con la natura, vediamo che la natura viva si è trasformata in prodotti morti a causa di interessi privati, creando un enorme spreco nel processo. Le crisi finanziaria, alimentare e ambientale sono molto legate alle dinamiche del capitalismo e alla globalizzazione.

PH: Nel corso della sua carriera ha scritto numerosi libri come “Le guerre del cibo. Crisi alimentare e politiche di aggiustamento strutturale”, nel quale descrive in dettaglio le origini della cosiddetta “crisi alimentare” e i meccanismi che hanno contribuito ad aggravarla come l’aggiustamento strutturale, il libero commercio e le politiche dirette a dirottare le eccedenze dell’agricoltura verso l’industria. Parlavamo dei legami della crisi economica con quella ambientale, ma qual è la sua relazione con la crisi alimentare?

WB: Le due crisi fanno parte di una crisi più grande, quella della globalizzazione. La crisi alimentare è stata creata dalla globalizzazione della produzione degli alimenti, dalle multinazionali, dall’introduzione di nuove politiche nella produzione di alimenti specialmente nei Paesi in via di sviluppo. Le due crisi, economica e alimentare, sono legate alle politiche del neoliberismo che vanno a discapito di molti settori della società come i piccoli agricoltori e consumatori (nel caso della crisi alimentare) e della classe media (nel caso della crisi finanziaria). Nel 2008 c’è stato il momento peggiore a causa dell’aumento di più del 300% dei prezzi in soli tre mesi.

PH: Ora la FAO sta lanciando l’allarme su una nuova crisi alimentare, come vede la situazione?

WB: Sì, c’è una grande minaccia. I prezzi stanno di nuovo salendo e il cambiamento climatico sta danneggiando molto di più le dinamiche produttive: incendi, inondazioni… Si può vedere questa relazione di cui parlavamo tra la crisi ambientale e quella alimentare, la crisi dell’agricoltura. Non posso pronosticare quanto saliranno i prezzi ma certamente vedremo un’altro aumento smisurato.

PH: Che opinione ha della Politica Agraria Comune (PAC) dell’UE e della sua riforma l’anno prossimo?

WB: La PAC si è tradotta in politiche molto determinanti, specialmente nei Paesi in via di sviluppo e in Africa. Si sono dati grandi sussidi favorendo l’interesse dei grandi produttori, è stato creato l’incentivo del dumping (fissare prezzi più bassi delle spese di produzione che ci sono nel Paese in cui si va a esportare)… La liberalizzazione del commercio ha permesso che la carne bovina sovvenzionata e a buon mercato dell’UE entrasse in Africa rovinando gli allevatori di molti Paesi dell’Africa occidentale e meridionale. Lo stesso è successo con i cereali. La PAC non credo che aiuterà neanche i piccoli agricoltori europei , anche se distruggesse le naturali difficoltà che hanno gli agricoltori nei Paesi in via di sviluppo per competere sui mercati a causa dei sussidi e al dumping. I sussidi sono fatti per aiutare i grandi agricoltori e non quelli piccoli.

PH: L’agricoltura ecologica è una delle soluzioni per uscire da questa crisi?

WB: Credo di sì, è molto meglio a livello ambientale, è meno intensiva. È socialmente ed ecologicamente positiva, soprattutto nell’interesse dei piccoli agricoltori. Al tempo stesso credo che anche se il prezzo dei prodotti ecologici può essere superiore, questi sono più convenienti in termini di salute. Molte multinazionali stanno inserendo prodotti ecologici nelle loro marche: nella misura in cui se ne può trarre dei profitti, si comincia a integrare nel sistema dell’agrobusiness dominante. Le grandi multinazionali dell’agricoltura sono molto intelligenti a inglobare tecnologia per aumentare la produttività ma questo non lo si può fare solo con  cambiamenti nella tecnologia, devi fare anche cambi di direzione, nella struttura di produzione… perché sia più egualitaria.

PH: Nel libro lei racconta le conseguenze della Rivoluzione Verde in America Latina, Africa e Asia, ne rimangono delle conseguenze?

W. B.: La Rivoluzione Verde ha creato delusione per tutta la dipendenza chimica in agricoltura. Ha aumentato la produzione ma anche i conflitti sociali soprattutto in Asia e in India dove la terra è stata accaparrata da parte dei grandi agricoltori che erano quelli che potevano permettersi in maggior misura la  dipendenza chimica e tecnologica. Quello che ha creato la Rivoluzione Verde, tra l’altro, è stata la diminuzione dei piccoli contadini.

PH: Nel libro si dice che l’agricoltura africana “è un caso illuminante di come l’economia dottrinaria può distruggere la base produttiva di tutto un continente”. L’accaparamento di terre e la speculazione sono legati?

WB: Sì. L’Africa non è che fosse autosufficiente in alimenti ma esportava una media di 1,3 milioni di tonnellate di alimenti tra il 1966 e il 1970. Oggi importa il 25% degli alimenti che consuma e quasi tutti i Paesi del continente sono importatori netti di alimenti. Nel libro spiego che in Africa, la BM e il FMI hanno messo in atto una gestione a livello micro, arrivando a prendere decisioni sulla velocità alla quale avrebbero dovuto  essere eliminate le sovvenzioni, quanti funzionari dovevano essere licenziati e anche, come nel caso del Malawi, quante riserve di grano dovevano essere vendute e a chi.

Ora cominciamo a vedere Paesi con scarsità di terre che stanno comprando affittando terre in altri Paesi per esportare, come il Qatar in Africa. Questo è molto destabilizzante perché gli agricoltori di questi Paesi, specialmente quelli piccoli, diventano produttori per i Paesi ricchi; la speculazione in terra si traduce in speculazione finanziaria.

PH: Eric Hobsbawn, (“La Era degli estremi”, 1994) ha scritto che “la morte della classe contadina era il cambiamento più drammatico e di maggior impatto sociale della seconda metà di questo secolo” che “ci  allontana per sempre dal mondo del passato”. Ma come lei scrive nel libro, “i contadini hanno resistito a scomparire senza reagire”, e dimostrazione di ciò è la creazione nel 1993 di Via Campesina.

WB: Sì, sia al Sud che al Nord gli agricoltori e molte altre persone cercano di fuggire dai capricci del capitale riproducendo la condizione contadina, ritornando nei campi e mettendosi a sfruttare una risorsa fondamentale limitata indipendente dalle forze del mercato. L’emergere di un’agricoltura urbana, la creazione di reti che collegano consumatori e agricoltori nell’ambito di una determinata regione… questo è ciò che Douwe Van der Ploeg definisce movimento di “ricontadinizzazione”.

PH: Lei ha lavorato all’Istituto per le Politiche del Cibo e dello Sviluppo (Institute for Food and Development Policy), è stato presidente nelle Filippine della Coalizione per la Libertà dal Debito (Freedom from Debt Coalition) e ha partecipato a numerose mobilitazioni contro l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), eventi antiglobalizzazione, social forum e vertici alternativi. Che opinione si è fatto dell’attuale movimento spagnolo di cittadinanza 15M?

WB: ha molta importanza. In Europa c’è una crisi del capitalismo, della globalizzazione, è la peggior crisi dopo la Grande Depressione. Per colpa dell’irresponsabilità delle banche ora avete l’imposizione dei  programmi di austerità in tutta Europa ma principalmente nel Sud, in Paesi come Grecia o Spagna dove si sono tagliate le possibilità di crescita.La risposta della gente, i movimenti degli indignados e di Occupy Wall Street, sono molto positivi. È solo il primo passo.

PH: Quali sono i successivi?

WB: La gente comincia a rendersi conto che deve organizzarsi di più, non solo localmente, ma  anche a livello nazionale e internazionale. Deve collegarsi ad altre forze, comprese quelle che sono state all’interno  del movimento antiglobalización en los 90. Per essere efficace bisogna lavorare molto in rete ma a partire dalla flessibilità. Tanto Occupy come gli Indignados hanno creato una grande energia che darà luogo a un lavoro più organizzato, a un pensiero più profondo sulla crisi. Negli ultimi cinque anni sembrava che la crisi fosse solo in Europa e negli USA e che non colpisse l’Asia ma ora stiamo cominciando a vedere che aumenta la popolazione in Cina e India, e il Brasile sta cominciando a cadere perché continua ad aumentare la sua dipendenza dal mercato europeo e statunitense. La prima faccia della crisi è stato il crollo di Wall Street, la seconda l’abbiamo vista in Europa e la terza sarà che le economie asiatiche compresa la Cina cominceranno a fermarsi, nei prossimi anni. La crisi sarà globale.

PH: Crede che la crisi possa portare alla fine del capitalismo?

WB: Non sono sicuro che userei questi termini ma quel che è chiaro è che non possiamo andare avanti con questo stesso dominio delle multinazionali e del mercato, che è la stessa cosa perché il mercato è controllato dalle multinazionali. È vero che si può parlare di un’economia postcapitalista. Il mercato non deve scomparire perché può svolgere un ruolo diverso, sostenendo i grandi valori della società.

PH: C’è chi pensa che la crisi sia un’opportunità per il cambiamento, è d’accordo?

WB: Bisogna andare oltre il capitalismo neoliberista per essere capaci di soddisfare i bisogni della gente. Questa si chiama democrazia sociale, democrazia popolare, socialismo… il nome non importa. Tutti condividono la visione che il mercato debba essere controllato, lo Stato deve svolgere un ruolo diverso… e i movimenti e la società civile devono prendere la leadership per essere capaci di trasformare un’economia basata sui profitti e la concorrenza a un’economia che si basi sulla cooperazione e persegua il benessere generale; che l’economia si trasformi e passi da servire pochi a servire la maggioranza. La gente vede l’importanza dei valori di giustizia, solidarietà, comunità…

PH: In Spagna qualche giorno fa membri del Sindacato Andaluso dei Lavoratori (SAT), hanno portato via del cibo senza pagare da vari supermercati per dar da mangiare a gente bisognosa. Come lo interpreta?

WB: Credo che succederà molte volte. È un segnale che ti indica che le cose non possono continuare per la strada vecchia. Queste azioni sono molto importanti in termini di mobilitazione della gente ma non credo che siano la soluzione. La soluzione dev’essere trasformatrice in termini di strutture economiche, di cambiare i rapporti di produzione. Queste sono azioni simboliche ma che non cambiano molto la situazione. C’è da pensare molto sulla natura della crisi, pensare a realizzare cambiamenti, essere capaci di organizzarsi e avere un programma di azione, azioni globali, non solo locali.

PH: Nel 2001 ha ricevuto il premio Suh Sang Don, attribuito dalle ONG asiatiche, e nel 2003 è stato premiato con il Right Livelihood Award (conosciuto anche come premio Nobel alternativo) per “i suoi rilevanti sforzi per formare la società civile sulle ripercussioni della globalizzazione e su come mettere in pratica delle alternative”. Il mondo ha bisogno di altri lottatori? È ottimista?

WB: Sì, sono ottimista perché non ho scelta. Non abbiamo altra scelta che lottare, la vittoria non è garantita ma dobbiamo continuare a provarci con tutte le opzioni a nostra disposizione. Non c’è bisogno di aver sempre presente chiaramente dove andiamo o se le nostre strategie sono corrette o no, l’importante è di impegnarsi. Non fa niente se si commettono degli errori. La mia esperienza è che sbagliando si impara, l’importante è di non commettere gli stessi errori due volte.

 

(da Senza Soste)

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