La fabbrica predatoria della Movida
“Movida. E’ più forte di me. Movida. Non mi so controllare. Movida. Basta poco e ci ricasco io… E’ più forte di me.” Così recitava una canzone del 2004 degli ATPC, gruppo rap torinese, celebrando un’epoca spensierata e piena di speranze della città, ma di cui già iniziava ad intuirsi la crisi.
Sono passati quindici anni e molta acqua del Po è passata sotto i ponti tra la Gran Madre e Corso Vittorio. Quindici anni fa in quelle acque, da metà primavera ad inizio autunno, si riflettevano le luci dei Murazzi che si riempivano di vita tra locali più o meno alternativi e sottoculture diverse che si incrociavano. I giovani torinesi appesi tra la sperimentazione della precarietà e la visione di un futuro fuori dalla fabbrica dove erano stati tumulati i padri si affollavano ad ascoltare musica, discutere e fare esperienze nuove. Oggi, dal 2012, le arcate dei Murazzi sono deserte se non per qualche presidio di resistenza che continua a tenere accesa la luce.
Nel frattempo il termine Movida ha assunto altri significati nella percezione comune. Il fenomeno della movida è diventato un pomo della discordia in una città che invecchia e si spopola, ma al contempo si riempie di giovani fuori sede con le loro esigenze. Per altri, i soliti noti, ha significato un bel po’ di quattrini.
Tutto sommato si può dire che la movida è una delle fabbriche che hanno progressivamente sostituito la vocazione industriale di Torino e che hanno permesso di continuare a fare profitti ai padroni della città o a quei pochi che hanno intuito dove stava girando il vento giusto in tempo. Certo non l’unica fabbrica e non quella più redditizia, ma una tra le altre. Una industria, quella del divertimento, che impiega migliaia di giovani sottopagati e precari, ma su questo ci torneremo più avanti.
Per adesso ci concentriamo su un paio di domande centrali per comprendere cosa è successo: come si è generata questa fabbrica? Come è stato recuperato il bisogno di socialità che migliaia di giovani spaesati dal futuro esprimevano?
Per quanto la narrazione dei giornali e delle tv voglia indicare la movida come un fenomeno “fuori controllo” la verità è che specifici investimenti, piani urbanistici, facilitazioni nella vendita delle licenze, tentativi di “normalizzazione” e dispositivi di controllo e disciplinamento hanno permesso, anzi sponsorizzato, l’attecchire di questa fabbrica in contesti territoriali circoscritti e scelti ad hoc.
Il processo di una movida spontanea, dal basso si è consumato ormai molti anni fa, con il recupero delle esperienze alternative che avevano fatto gridare alla “Torino nuova Berlino”, ma rispunta ogni tanto in esperienze di autorganizzazione subito represse e attaccate dai giornali come fu il caso del Botellon in Piazza Valdo Fusi.
Dunque come si è sviluppato questo processo di messa a valore della movida?
Il primo tentativo di convogliare i bisogni giovanili di aggregazione e socialità in un territorio specifico è proprio quello che ha coinvolto i Murazzi tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80. Le arcate prima di questo progetto erano le rimesse, per lo più abbandonate, delle barche dei pescatori. L’amministrazione comunale intuisce le potenzialità di quel luogo sotto il profilo economico e di recupero delle rivendicazioni giovanili di quegli anni che volevano rompere con la visione padronale di Agnelli della città che è ben riassunta in queste sue parole: “Torino ricorda le antiche città di guarnigione, i doveri stanno prima dei diritti, il cattolicesimo conserva venature gianseniste, l’aria è fredda e la gente si sveglia presto e va a letto presto, l’antifascismo è una cosa seria, il lavoro anche e anche il profitto.” Una città dove non c’era spazio per il divertimento e la socialità, ma che doveva essere impostata sul sacrificio, sulla sobrietà e sull’austerità… ma solo per gli operai, che dovevano tornare a casa presto per svegliarsi al mattino e fare il turno, mentre l’Avvocato magari faceva ancora bisboccia.
I murazzi, dunque, vengono designati come il luogo dove sperimentare un processo che tenga insieme il tentativo di recupero dei bisogni giovanili e la messa a valore di un’area della città sostanzialmente abbandonata. Gli strumenti che vengono scelti per mettere in moto questo processo sono principalmente tre: la concessione di licenze per l’apertura dei locali, la creazione di un servizio di navigazione sul fiume Po e l’istituzione di una ronda notturna di polizia operante fino all’alba.
Questi tre strumenti sembrano abbastanza elementari, ma pongono le basi per lo sviluppo di una vera e propria governance della movida. In primo luogo la concessione delle licenze come facilitazione dell’impresa capitalistica con questo genere di vocazione. In secondo luogo la predisposizione del territorio con la fornitura di nuove attrattive, di trasporti più facili, di infrastrutture e servizi (salati) per convogliare gli utenti e gestirne la permanenza. Infine la forza di polizia come strumento di controllo e disciplinamento dei comportamenti e in certi casi di vera e propria repressione.
Vedremo questi tre elementi ripresentarsi e affinarsi nelle altre zone predisposte negli anni alla movida, ma la differenza profonda è che mentre i murazzi erano tutto sommato una zona abbandonata e in disuso, in una posizione centrale della città, affianco al salotto buono, nel caso di San Salvario, del Quadrilatero e di Vanchiglia la vicenda assume nuove sfaccettature. Queste zone sono state tutte quartieri proletari ed operai dentro al centro o a pochi passi da esso, delle anomalie. Zone con delle potenzialità di rendita molto alte per le loro posizioni strategiche, ma occupate da settori popolari con un basso reddito e altre priorità. L’uso combinato della movida per mettere a valore questi territori e espellere i loro abitanti tradizionali è stata una scelta strategica delle amministrazioni che si sono susseguite e che oggi vediamo in azione anche con i 5 stelle su numeri più grandi e in maniera più cruenta a Porta Palazzo.
Molto spesso accompagnata da una campagna giornalistica martellante sul degrado e la necessità di un recupero, la riqualificazione di queste zone è stata accolta in maniera contraddittoria dalla popolazione che le abitava tra una effettiva necessità di delle migliori condizioni di esistenza e l’intravedere un’opportunità economica. Giusto per capirsi citiamo un pezzo di Repubblica del 2017 che celebra i vent’anni della riqualificazione al quadrilatero con queste parole: “Oggi e domani si celebrano i vent’anni di quella intuizione che cambiò pelle non solo ad un angolo di Torino, rifugio per prostitute e tossici, ma diede una patina nuova alla città. Lo slogan dei festeggiamenti è “Come è bello avere vent’anni”. “Un esempio di collaborazione pubblico-privata – dice il presidente di Confesercenti Giancarlo Banchieri – vent’anni dopo possiamo dire che quella scommessa è stata vinta e che il Quadrilatero costituisce un esempio di movida sostenibile e di buone pratiche che, con gli opportuni adeguamenti, potrebbero essere applicate in altre zone”.
Al quadrilatero il rilancio iniziò con la cessione di 40 licenze gratuite per aprire locali, una vera e propria liberalizzazione ante-litteram. Oggi le strade del quartiere sono per lo più deserte durante il giorno e spesso anche nelle serate intra-settimanali per poi vedere qualche passaggio in più nel weekend, ma con una affluenza che neanche lontanamente ricorda i bei tempi. Il quartiere è stato spopolato e valorizzato, ma la valorizzazione in questo gioco non dura mai in eterno e la movida cambia gusti e mode, sceglie altre zone, abbandona quelle precedenti lasciando spesso simulacri vuoti e ristoranti e locali oziosi. Questo genere di messa a valore è vorace e consuma in breve tempo i territori lasciando ben poco dopo il suo passaggio. Persino i valori delle case che in un primo momento salgono vertiginosamente, consigliando ai residenti di spostarsi altrove per affittare le vecchie abitazioni, successivamente crollano a causa degli effetti non graditi della fabbrica divertimento: il rumore, il traffico, la percezione di insicurezza ecc… ecc… come ad esempio si può notare a San Salvario dove i cartelli affittasi e vendesi affollano i portoni di molti palazzi, via via scolorendosi.
Man mano che la movida viene sperimentata e si fa sistema le esperienze di questo tipo aumentano e gli strumenti si raffinano. Vanchiglia in questo senso è paradigmatica: la mutazione del quartiere è stata pensata dall’inizio alla fine. Qui la potenzialità è quella di avere una zona sostanzialmente vergine a pochi passi dalla sede universitaria di Palazzo Nuovo: il quartiere è una vera e propria zona di confine tra il centro e zone più residenziali. Oltre a ciò è un luogo con un suo fascino per le storie che qui sono nate e i personaggi che hanno percorso le sue strade. Dunque è il luogo perfetto per dar vita a un Campus urbano in maniera da, in un colpo solo, mettere a valore il territorio e il consumo degli studenti universitari che in Vanchiglia passano ormai la gran parte del loro tempo. La trasformazione è impressionante: in pochi mesi dalla nascita del Campus Luigi Einaudi bar storici, piccole botteghe, negozietti lasciano il posto a locali pettinati, ristoranti, atelier artistici con qualche presidio di resistenza che dà un tocco di autenticità alla situazione.
Le licenze anche qui vengono quasi regalate e la promozione del quartiere passa anche attraverso una serie di feste in strada ed eventi. Vanchiglia nel giro di pochissimi anni cambia completamente volto.
Il processo parte molto prima però, già nel 2002 si parla di trasformare l’ex Italgas in corso Regina Margherita in una residenza universitaria. Questa area sarebbe stata riqualificata per utilizzarla come villaggio olimpico per ospitare una parte dei giornalisti nel 2006 e poi sarebbe diventata un collegio universitario all’interno del futuro campus. La residenza ancora non è stata costruita, ma nel frattempo atterra nella zona l’astronave Campus che viene inaugurata nel 2012. Nell’estate del 2015 poi sono partiti i bandi per trasformare l’area degli ex gasometri (simbolo del quartiere) nel collegio che sarebbe costruito e gestito in una combinazione pubblico-privato e che dovrebbe ospitare 500 studenti. Come leggiamo in un altro articolo di Repubblica: “L’area dei gazometri diventerà residenza e avrà anche una parte di servizi per gli studenti, come palestre e aree di ristoro. Ma non è previsto in questa trasformazione l’inserimento di centri commerciali. In Comune spiegano che le piastre commerciali verranno comunque realizzate a poca distanza: nel medio periodo dovrebbe infatti partire la ristrutturazione dello scalo Vanchiglia, parte della variante urbanistica 200, legata alla nuova linea 2 della metropolitana.” Dunque un’ulteriore riqualificazione di una parte di territorio che si dovrebbe combinare con un’altra zona destinata alla movida come leggiamo ancora nello stesso articolo:
“Quando il progetto di intervento sull’area Italigas sarà completato, la vocazione universitaria dovrebbe trasformare tutta la zona oltre la Dora in una nuova meta per la movida torinese. Un fenomeno che è già in parte iniziato dopo l’entrata in funzione del Centro Einaudi. L’obiettivo è di distribuire sulla carta geografica della città una decina di nuove residenze universitarie in grado di trasformare gli atenei torinesi in un vero e proprio motore di sviluppo economico.” Chiara la dinamica, no?
Ma di chi sono le responsabilità di queste scelte?
Sicuramente, come abbiamo visto è determinante il ruolo dell’amministrazione pubblica, ma non solo. A giocare un ruolo centrale sono le banche come Intesa San Paolo, vere e proprie registe della trasformazione urbana e della valorizzazione, i consorzi di commercianti e imprenditori e nel caso di Vanchiglia, naturalmente, l’università.
La movida come fabbrica e i suoi lavoratori
Il quartiere Vanchiglia incrocia qualche parallela e qualche perpendicolare delimitata da fiumi e da grandi corsi urbani che, facendo da collante tra alcuni poli universitari, ha subito nel tempo una profonda trasformazione, caratterizzandosi come una costellazione di bar, locali, ristoranti, air bnb. Il pullulare di formule attrattive per uno specifico target di soggetti ha determinato le modalità di vivere il quartiere e le relazioni al suo interno secondo precise direttrici. Il consumo, non solo in termini di cosa si compra ma anche in termini di tempi e di spazi, è la forma principale di sfruttamento, da un lato del territorio stesso e dall’altro di coloro che lo vivono. I giovani studenti e studentesse, i giovani e le giovani lavoratrici, che frequentano questo luogo non solo vi consumano, ma vengono consumati nel momento stesso in cui il loro lavoro, condizione sine qua non per poter sopravvivere tra affitti, tasse universitarie, libri, socialità, fa gola al profitto di molti. A titolo di esempio, qualche mese fa fu reso noto il caso di un locale, il Bouyabes, in cui il cuoco non veniva pagato per ciò che gli spettava. Durante alcune serate un gruppo di solidali si è riunito per occupare lo spazio antistante il locale per denunciarne la situazione di sfruttamento. Sicuramente non è questo l’unico caso.
In un contesto di sovraffollamento di locali che hanno un’offerta sostanzialmente simile e una domanda che rientra in un target specifico chi ci vuole guadagnare deve pur tirare la coperta, che già è abbastanza corta. Come ottenere profitto dunque in un contesto in cui la concorrenza è spietata e la richiesta rimane molto alta? Soprassedendo sulle condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici. Facendo qualche chiacchiera durante l’iniziativa in solidarietà al cuoco del Bouyabes, sentendo i racconti dei compagni di corso o di colleghi di lavoro (perché di lavori se ne hanno almeno due o tre), diventa immediato notare come le esperienze simili si moltiplicano : contratti in nero, mal pagati, orari inumani, straordinari non pagati, flessibilità obbligata e, non da ultimi, maltrattamenti, molestie, obbligo di ringraziare perchè si occupa un posto di lavoro. Le condizioni di vivibilità e accettabilità diventano clausola non scritta nei contratti, quando ci sono, portando con sé il peso della ricattabilità e dell’impossibilità di rifiuto. Al contempo, quando si ha la fortuna di trovare un posto in cui si possa lavorare in un contesto sereno e “sicuro” non si ha la garanzia che possa durare per un tempo utile.
Insomma, una catena di profitti che per non incepparsi utilizza il tempo, i corpi, la disponibilità e l’impossibilità di scelta di tutti e tutte coloro che hanno bisogno di lavorare per poter vivere, facendo leva su un tessuto sociale logorato e disgregato che si tiene insieme sulle dinamiche di consumo, di sfruttamento e di precarietà.
Territorio, utenti e socialità asservita al consumo
Qual’è la trasformazione territoriale provocata dalla dimensione della movida? Su che territorio impianta la sua estrazione di valore?
Al di là della composizione assai variegata, di persone che vivono questo fenomeno di socialità del consumo, un ruolo importante lo gioca il territorio su cui si impianta questo tipo di fenomeno, inteso come rapporto fra elementi architettonici e spaziali e relazioni sociali preesistenti. Il Quartiere di Vanchiglia è un quadrante cittadino ed un quartiere tutto sommato limitato come dimensioni, caratterizzato dalle classiche vie perpendicolari alla torinese, condomini di metà – fine 800, non molto alti, anch’essi caratterizzati dal torinesissimmo sistema a ballatoi su cui poi si sviluppano gli appartamenti. Il quartiere ospita un mercato in piazza Santa Giulia che insieme a Largo Montebello rappresentano i due maggiori spazi aperti del quartiere. Fino a qualche anno fa, all’incirca fino al 2010-2012, la composizione sociale del quartiere era popolare tipica dei quartieri adiacenti il centro cittadino. Semplificando, si può definire di ceto medio-basso e proletaria, con però la quasi assenza in termini numerici significativi di quello che classicamente può essere ascritta alla parte più bassa del proletariato metropolitano spesso ai confini del sottoproletariato. La mancanza di agglomerati significativi di case popolari in Vanchiglia è abbastanza emblematica in questo senso.
È sempre stata presente una componente di studenti fuori sede abbastanza numerosa ma minore rispetto a quella attuale. Anche se questa è sicuramente un’analisi superficiale, serve a capire quali sono stati i cambiamenti negli ultimi 8 anni.
La costruzione del Campus Luigi Einaudi e il masterplan che lo ha accompagnato hanno cambiato le carte i tavola. È aumentata la presenza di studenti agevolata dai prezzi inizialmente bassi degli affitti, aumentati a dismisura negli ultimi due anni, questo meccanismo è stato frutto di un disegno preordinato da Intesa San Paolo, Comune e dinamiche immobiliari private, fra cui quella di numerosi piccoli e medi allocatori che hanno sfruttato l’onda di profitti crescenti.
Questo meccanismo ha scatenato un progressivo aumento della popolazione di studenti, e mescolato alla liberalizzazione delle licenze per l’apertura dei locali ha innescato, insieme ai fattori trattati sopra, uno stravolgimento delle attività commerciali del quartiere e dello spazio comune. L’estensione dei parcheggi a pagamento e un certo intervento sull’arredo urbano hanno facilitato questo meccanismo. All’oggi però va specificato come questo sia ancora un processo in divenire e lungi dall’essere compiuto, e vive ancora molte contraddizioni e stratificazioni sociali fra chi abita il quartiere. Non va dimenticata infatti l’alta percentuale di mono-proprietari che storicamente abitano in zona e che non hanno materialmente la possibilità o la volontà di cambiare casa.
Tutto sommato, si riscontra una presenza di attivismo di quartiere e attenzione alla vivibilità abbastanza sostanziale e capace di interagire con queste dinamiche, non soltanto in funzione delle periodiche attenzioni mediatiche. Il problema della crescita della frequentazione notturna del vanchigliese ha creato una massa di utenti della movida che non interagiscono in maniera organica con il tessuto sociale del territorio e di fatto ne logorano gli equilibri. Una specifica va fatta per i giovani, studenti e non, che vivono entrambi i lati della vita del quartiere.
Il fatto che non ci sia in generale interazione fra la dimensione di utenza della movida e la vita sociale del quartiere, esasperano quelle dinamiche di isolamento sociale e individualismo che già di per sé caratterizzano i rapporti sociali di questa società.
La socialità notturna inasprisce la dinamica di delega al consumo dell’interazione sociale, creando solitudine e rapporti umani tendenzialmente deboli poiché mediati dalla possibilità di avere del denaro o delle capacità da consumare per ottenerli.
Tutto ciò avviene a fronte di un bisogno umano inestinguibile e irriducibile di socializzare, che soprattutto nei giovani rappresenta di per sé una possibilità di alterità e di antagonismo al sistema capitalista. Il rifiuto di estinguere i propri rapporti alla dimensione produttiva e lavorativa (che sia lavoro salariato o studio), è un terreno di contesa e di possibilità per il capitale collettivo nella sua spinta a rendere totale la messa a profitto di ogni aspetto della vita delle persone. Proprio l’origine di questi comportamenti rappresenta un’ambivalenza, che potenzialmente può cambiare di segno.
Ritmi produttivi alti, affitti esosi e accesso sempre più difficile ai consumi, portano ad una socialità (che spesso viene definita come tipica della movida), che viene percepita da chi la vive come dovuta e nel concentrare migliaia di ragazzi e ragazze insieme, è difficilmente governabile solo attraverso l’uso delle forze dell’ordine (i fatti di Piazza Santa Giulia del 2016 lo simboleggiano abbastanza chiaramente), ma necessita di meccanismi di cooptazione molto più raffinati che non sempre sono possibili nei piani di ristrutturazione cittadini.
Nota sull’impatto territoriale dello spaccio
Una breve nota va fatta sul cosiddetto spaccio, che rappresenta una delle tante sfaccettature del meccanismo di messa a profitto che abbiamo provato a descrivere poco sopra. La prima importante differenza è la particolarità e varietà di prodotto che viene commerciato, sembrerà banale ma questa crea dinamiche uniche nel loro genere. È difficile qui affrontare la tematica del consumo di “droghe” e delle sue ambivalenze e contraddizioni e ci soffermeremo brevemente invece sull’impatto territoriale e sociale che questo tipo di narco-industria genera in questo particolare angolo della nostra città.
Premettiamo necessariamente che rifiutiamo qualsiasi interpretazione semplicistica e moralista del problema dei consumi, sia in senso proibizionista che antiproibizionista, e che siamo abbastanza coscienti dei danni provocati da questo tipo di approcci nel corso dei decenni passati.
In Vanchiglia, lo spaccio è cresciuto insieme alle dinamiche speculative immobiliari e di modificazione del territorio dall’alto. Lo spaccio è sempre stato presente in quartiere sia nei fasti della motorcity che nella sua fase di decadenza degli anni 80 e 90; tanto sull’uso padronale dell’eroina è stato scritto, detto e documentato, ma all’oggi crediamo di trovarci davanti ad un fenomeno per certi versi differente.
Il volume di spaccio è cresciuto gradualmente a partire dal 2012, è ha coinvolto principalmente piazza Santa Giulia e le vie adiacenti, inizialmente preponderante era la vendita di erba, hashish, cocaina; ora si estende a crack e ed eroina. Inutile negare che fra la grande presenza di giovani e l’aumento di spaccio ci sia una correlazione, ma non è la sola. Infatti le dinamiche di fornitura e lotta per l’egemonia nel controllo delle “piazze” spaccio in città fra le “mafie” della droga al dettaglio, come quella nigeriana, ne hanno favorito l’organizzazione e la crescita. Negli ultimi anni si sono visti progressivamente diminuire i piccoli spacciatori “indipendenti”, e sono aumentati i veri e propri salariati dello spaccio.
Se il grosso traffico è gestito dalle ‘ndrine calabresi, la gerarchia di quest’industria si diversifica ai vari livelli, ed è ingenuo pensare che con essi non interagiscano in vario modo le istituzioni cittadine, compresa la Questura. L’intensificarsi di retate ad uso e consumo giornalistico di questi mesi, la dice abbastanza lunga.
Il grosso impatto sul territorio di questo odioso raket, va ben aldilà delle percezioni di insicurezza di madamine e ultras del decoro urbano, e ha effetto concreto sulla vita sociale del quartiere. La tendenza di chi pratica questi affari è quella di controllare il territorio per poter massimizzare i profitti e l’irrompere nella scena di crack ed eroina peggiora la situazione. Questo aspetto, al di là delle narrazioni dei media, è abbastanza in marginale e in nuce, ma non è detto che rimanga sempre così. Ovviamente la percezione del fenomeno varia da il tipo di composizione che abita il quartiere e ci sembra che venga percepito da chi vive il solo aspetto della movida, perlopiù come un servizio clienti.
Come in altre situazioni analoghe lo spaccio si lega alla dimensione della movida e assume un carattere predatorio, gli esempi di San Salvario a Torino o di San Lorenzo a Roma sono abbastanza simili, anche se in Vanchiglia non sono dinamiche consolidate.
Questa vera e propria industria viene usata dalle istituzioni per aumentare il controllo poliziesco e disciplinare quegli aspetti della socialità che rappresentano un anomalia o che banalmente mostrano un’indisponibilità a piegarsi al solo consumo. Non vengono colpiti i fornitori di materia prima che spesso sono collusi con le forze dell’ordine e parti dello Stato, ma vengono colpiti occasionalmente i reparti bassi della forza lavoro impiegata, per poi stringere il controllo su di un territorio storicamente riottoso al sopportare una manifesta militarizzazione.
In questo senso l’industria dello spaccio aiuta il meccanismo di trasformazione del territorio ed è parte integrante dei piani istituzionali, anche se da essi venduto come effetto collaterale da controllare. Al saldo finale fa parte di un meccanismo di disciplinamento dei giovani che attraversano la socialità notturna, fa il gioco di palazzinari e banche. Inoltre il fatto che gran parte dei lavoratori impiegati nella vendita al dettaglio siano di origine africana o nord africana, aiuta a costruire retoriche razziste capaci di aumentare la coltre di fumo che occulta i veri responsabili e chi trae profitto dalla movida.
Vivendo il quartiere tutti i giorni crediamo, e da sempre ci siamo battuti per questo, che vada eliminata la presenza di spacciatori dagli spazi autogestiti, e nelle nostre possibilità anche dal quartiere dialogando e interagendo con chi in zona riconosce il pericolo di un attacco alle proprie condizioni di vita materiali, fuori da retoriche razziste e fasciste e al contempo battendoci contro la militarizzazione del quartiere anche a costo di denunce e arresti, perché crediamo che palazzinari e imprenditori della droga abbiano molto più in comune di quanto di solito non si pensi.
Ipotesi per orientarsi
Se, come crediamo, il punto di vista dal quale guardare al “fenomeno della movida” sia evidenziarne le dinamiche da fabbrica predatoria, diffusa su un territorio e che coinvolge numerosi soggetti, è fondamentale capire come lottare in questo campo. Certo è che il processo di trasformazione di Vanchiglia è ormai avviato ma questo non significa che dovremmo accettarne le conseguenze o apprestarci a raccogliere i cocci quando la tempesta sarà passata lasciando il quartiere che viviamo spolpato fino all’osso. Combattere in una fabbrica sociale come quella della movida vuol dire necessariamente frapporsi con la tendenza alla mercificazione della socialità e del territorio, vuol dire richiedere più diritti sul lavoro, consapevoli di non essere singoli dipendenti di un locale, ma parte di una forza lavoro che complessivamente produce su un territorio determinato, vuol dire trovare delle alleanze tra chi subisce gli effetti di questo processo facendo delle specifiche ricadute una forza comune da ribaltare verso l’alto, vuol dire mettere in discussione la valorizzazione come unica possibilità di trovare spazio in un’ottica meramente individualistica.
Significa cercare una prospettiva comune tanto tra gli abitanti del quartiere che affrontano l’invasività e il peggioramento delle condizioni di vita, quanto tra i giovani che si consumano consumando, al fine di rifiutare l’espropriazione di risorse, di ricchezza, di tempo che implica un costo sociale troppo alto per la socializzazione oggi.
Non si tratta tanto, né semplicemente di chiedere una regolamentazione della movida, quanto di pretendere che il quartiere e le forme di relazione che in esso si riproducono non siano un’impresa di profitti per pochi che rapina tutti gli altri. Oggi questo può avvenire solo individuando chiaramente chi sono i responsabili della situazione e chi ci guadagna a discapito di tutti gli altri.
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