La meritocrazia al potere
“Mi sorprende la popolarità del governo, ma i cittadini capiscono che i sacrifici sono per la dignità dell’Italia”. Potremmo liquidare questa frase pronunciata da Monti nella recente conferenza stampa di fine anno con ironia e indignazione, e indubbiamente necessitiamo di entrambe le cose. Ma proviamo a prenderla sul serio e a farci interrogare dalla pacata sfrontatezza del presidente del consiglio. Mentre giustifica una manovra che lui stesso definisce recessiva “ma senza alternative” e vara una sedicente “fase due”, ennesima rassicurazione di uscita dalla crisi che su nulla poggia se non sulla dogmatica arroganza dei mercati finanziari; mentre dichiara che l’obiettivo è di impedire che scoppi e si generalizzi il conflitto (per questo, afferma senza fronzoli, serve coinvolgere le cosiddette parti sociali) – Monti si stupisce della popolarità del suo governo. E, almeno in questo, ne ha ben donde. Il punto è, dunque, capire fino in fondo la natura di questo governo, il governo del presidente, il governo commissariale. Capire i suoi tratti transitori oppure paradigmatici, occasionali o di tendenza, di eccezione o di normalità. Capire per affrontarlo. Capire per dare battaglia.
Si è detto: è il governo della dittatura finanziaria e della macelleria sociale, freddo esecutore dei programmi della Bce e dei think tank neoliberali – la cui ferocità, sia detto per inciso, è direttamente proporzionale al loro fallimento globale. É, ovviamente, anche questo, ma non è solo questo. Innanzitutto, prima ancora che il governo della tecnocrazia, definiremmo quello attuale come il governo della meritocrazia. Lo dimostrano l’ostentazione dei titoli da parte dei componenti dell’esecutivo, il loro chiamarsi l’un l’altro professore e professoressa, lo sfoggio di ermellini e cattedre della Bocconi e della Cattolica. Se Berlusconi rispondeva alle domande dei giornalisti con le barzellette, Monti & C. le aggirano esibendo i propri curriculum. Dopo essere passato per l’oscenità dei festini di Arcore e Palazzo Grazioli, il potere deve diventare austero.
É proprio quello che ci vuole per governare nella crisi. Non si balla più nei privè del Titanic, non perché si pensi di poter evitare il naufragio ma semplicemente per razziare meglio e sperare di abbandonare la nave in tempo. Comunque, tacciano gli ignoranti davanti alle competenze. Perfino l’essere stati o essere ancora manager, dirigenti e servitori di Goldman Sachs e delle banche, anziché sicura prova di colpevolezza per quanto sta avvenendo, diventa oggettiva misura del merito per accedere al rango di salvatori. L’unità di misura è, ancora una volta, completamente artificiale: è nuda emanazione di comando. Ecco qui profilarsi una prima chiave di lettura: dietro alla “popolarità” sbandierata dallo stupito Monti, vera o presunta che sia, vi è una rinnovata affermazione della sedicente neutralità del sapere e delle gerarchie che attorno a esso si costruiscono. Il sapere “tecnico”, quello che si suppone posseduto e trasmesso dalle istituzioni che si autodefiniscono di “eccellenza”, non è meglio o peggio di un altro: è l’unico possibile. Per questo non c’è alternativa a quello che il governo Monti sta facendo. Così, l’ormai vetusta questione dell’uguaglianza viene definitivamente tradotta – secondo i crismi della neolingua impostasi a partire dagli anni Ottanta – nel tema dell’equità, cioè della conservazione e riproduzione dell’esistente.
La meritocrazia, lo abbiamo detto più volte, è la mistificazione della precarietà nel capitalismo cognitivo. Mistificazione, in termini marxiani, non è sinonimo di falsificazione, bensì di un’organizzazione discorsiva della realtà legata a utilità e interessi materiali, dunque a una collocazione di classe. Anziché essere dovuto a rapporti di produzione e di sfruttamento storicamente determinati, le condizioni di precarietà e impoverimento della forza lavoro cognitiva vengono in tal modo ricondotte alle cricche di corrotti che impedirebbero il corretto funzionamento del sistema. La continua e violenta imposizione dell’ormai svuotata legge del valore — attraverso, appunto, unità di misura artificiali — diventa non il problema ma la soluzione. In questo quadro, tuttavia, dobbiamo anche constatare che il governo Monti realizza il perverso desiderio del grillismo e del populismo viola: finalmente chi ha merito gestisce la cosa pubblica. Dopo il governo delle veline e del bunga bunga, che cosa si può dire di fronte a un esecutivo composto da chi ha studiato — non importa perché, dove, cosa o per cosa? Non si dice niente, appunto: ecco il problema. Il governo Monti, da questo punto di vista, ci pone allora di fronte ai danni non tanto di quindici anni di berlusconismo, ma prima ancora di quindici anni di anti-berlusconismo. E con questo dobbiamo fare ora i conti in modo risoluto.
Non solo. La “neutra” tracotanza del governo tecnico e meritocratico esige delle mediazioni sociali, come ha sottolineato Monti nel passaggio sopra ricordato sulla necessità del dialogo con le rappresentanze. Potremmo anzi dire che questo esecutivo contiene in sé la rappresentanza delle mediazioni sociali. Si pensi al cattolico sociale Riccardi al ministero della cooperazione e dell’integrazione, oppure alla lacrimevole Fornero che tenta di dare un volto umano ai sacrifici, o ancora al furbo e dialogante pasdaran della meritocrazia Profumo al Miur. Questo aspetto non ci pare possa essere ridotto, semplicemente, all’adozione di ragionevoli accortezze nell’imposizione di drastiche politiche di austerity; coglie delle peculiarità del contesto italiano e della sue specifiche forme di traduzione di tendenze che sono interamente globali. A differenza di altri luoghi, persiste qui il peso di strutture di mediazione e rappresentanza che, per quanto in evidente crisi, hanno ancora la capacità di funzionare da tappo: vanno dai partiti e sindacati, alla chiesa, alla famiglia, fino ad arrivare all’interno dei movimenti. Si prenda la questione del welfare e dei diritti del lavoro, trasmutati in privilegi: mentre il governo ne attacca gli ultimi brandelli, i giovani vengono giocati contro i vecchi sul mercato del lavoro e ricomposti nell’istituzione famigliare.
Quanto potrà durare e tenere questo quadro, a fronte del rapido asciugamento del welfare e della redistribuzione famigliare (sua materiale fonte di legittimazione), della conseguente e ulteriore crescita dei livelli di indebitamento per i “precari di seconda generazione”, della massificata esperienza del declassamento e dell’impoverimento – a dispetto delle retoriche meritocratiche – per la giovane forza lavoro altamente scolarizzata e produttrice di saperi? Non molto probabilmente, e del resto proprio la progressiva rottura di queste strutture di rappresentanza delle mediazioni è stata una delle condizioni di possibilità delle insorgenze in Nord Africa o del movimento degli indignados in Spagna. Tuttavia, dobbiamo fare molta attenzione a non affidarci a un nefasto determinismo, che fa il paio con il discorso catastrofista egemone nella sinistra italiana dentro la crisi. É invece in questo intricato e irrisolto insieme di questioni qui schematicamente presentato che ci sembra possa essere utilmente analizzato il fallimento delle varie opzioni “frontiste” emerse negli ultimi anni. Riducendo l’ambivalenza della crisi a catastrofe da arginare senza possibilità da cogliere, a frammentazione senza lotte, si finisce per rifugiarsi in una politica delle alleanze che, volenti o nolenti, produce una ricomposizione delle rappresentanze e non delle differenti figure di una forza lavoro precaria e impoverita. Allora, dal nostro punto di vista interrogarsi su quel compiaciuto stupore di Monti ci porta a chiederci: cosa impedisce il pieno emergere in Italia del movimento degli indignati o occupy, ovvero del loro equivalente funzionale? O per dirla con altre parole: come far saltare i “tappi” che trattengono le possibilità di una composizione comune del lavoro vivo e delle lotte?
Sono queste, crediamo, le domande su cui dobbiamo cominciare a fare ricerca, per liberare il campo e pensare a nuove forme di organizzazione.
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