La sollevazione sudanese: “questa è una rivoluzione del popolo”
Continuano da un mese e mezzo le proteste di piazza in Sudan contro il regime trentennale di Omar al Bashir.
Mobilitazioni inedite che sono arrivate a coprire l’interezza delle regioni del paese ed un ampio spettro di classi ed interessi sociali, dai marittimi di Port Sudan ai tifosi dell’Hilal, dai ribelli delle periferie del Kordofan e del Darfur agli studenti ed ai professionisti di Khartoum. Mentre la dittatura si trincera con l’appoggio di potenze straniere vicine e lontane, la radicalità delle proteste aumenta e con essa le possibilità di politicizzazione di una serie di istanze a lungo latenti nella società sudanese – che ben promettono per l’apertura di ulteriori orizzonti di liberazione.
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Di Mohamed Elnaiem
In Sudan, un’opposizione civile variegata sta ponendo una seria minaccia alla resilienza del regime dittatoriale di Bashir dopo settimane di proteste.
Se un ospedale non è un rifugio per una persona ferita allora cos’è? E che livello di odio, che tipo di infamia può venire soddisfatta dal tentativo di assicurarsi che un manifestante muoia due volte? Il 9 gennaio la celere, i lealisti in borghese di Bashir e le forze di sicurezza hanno sparato lacrimogeni e proiettili nell’Omdurman Teaching Hospital in Sudan dopo che manifestanti feriti sono stati portati li nel corso della più grande protesta di sempre a pretendere la caduta del regime.
Mentre nugoli di sostanze chimiche soffocavano i feriti, il personale dell’ospedale ha dovuto improvvisare – svuotando taniche di ossigeno nella stanza per disperdere il gas CS. Questo è quanto sta affrontando il popolo sudanese dopo un mese di proteste per deporre il Presidente Omar al-Bashir.
Dal 19 dicembre il Sudan è stato infiammato da oltre 300 proteste popolari aventi luogo attraverso il paese. La sollevazione generale è iniziata nella città nordorientale di Atbara – una città con una lunga eredità di lotte – prima di colpire 22 piccole e grandi città, inclusa la capitale Khartoum.
Dopo una visita del FMI a luglio, il governo sudanese ha adottato un programma di austerità che ha tagliato i sussidi e triplicato il prezzo del pane. L’inflazione galoppa al 70% secondo i dati ufficiali, la disoccupazione è la quinta peggiore al mondo, il pane è caro e la benzina sta scarseggiando in tutto il paese. Allo stesso tempo, il paese sta osservando un’acuta crisi di valuta estera con i bancomat spesso vuoti. Il popolo del Sudan non ne può più.
E’ notevole che le proteste siano iniziate nelle periferie prima di colpire la capitale – dato che se la popolazione della capitale patisce la miseria, quella delle periferie potrebbe presto patire una crisi alimentare. Le Reti di Sistema di Avvertimento Preliminare della Carestia (Famine Early Warning Systems Networks) hanno predetto che i prezzi del cibo, già del 150-200% sopra la media, aumentino ulteriormente al 200-250%. Secondo gli specialisti nel 2019 si attende un’insicurezza alimentare critica nella maggior parte delle città periferiche. La colpa va unicamente al malgoverno. Il Sudan è un paese che spende la maggior parte del proprio bilancio annuale per foraggiare i lussuosi stili di vita dell’élite di regime.
Ma come si tratta di un momento tragico per il popolo sudanese, è anche un momento di trionfo. Da quando sono iniziate le proteste, non vi è stato giorno senza una manifestazione in qualche parte del paese. Il sindacato dei medici sudanesi persegue uno sciopero a tempo indeterminato. L’amministrazione delle università sudanesi si è schierata con la rivolta. Gli ultras del calcio, associati alla popolare squadra dell’Hilal hanno bloccato i ponti. E le persone comuni si sono ritrovate ad intraprendere l’impensabile – paralizzare un sistema rimasto al suo posto per quasi trent’anni.
Un regime onnipotente?
Un regime che un tempo sembrava invincibile ha mostrato di essere tutt’altro. A lungo gli analisti politici hanno considerato indistruttibile il regime sudanese. Le infinite guerre civili accompagnate dalle persecuzione di tutto il popolo sudanese ha comportato che la maggior parte del PIL finisse per foraggiare uno stato securitario per combattere guerre e torturare dissidenti. Nel 2013, il Sudan riuscì ad evitare la Primavera Araba, sebbene un’ondata di proteste popolari incentrata in particolar modo sulla capitale riuscì a spaventare l’élite di governo.
Nel 2014, l’88% del bilancio nazionale andò al “settore della sicurezza” ed al “settore sovrano”, ovvero nelle tasche dell’élite. I membri dell’establishment dominano gli interessi commerciali locali in virtù dei propri stretti legami con il governo. Persino le agenzie di sicurezza controllano una vasta gamma di settori economici. Ma questo non è l’unico segreto del controllo parassitario del regime sull’economia.
Il governo sudanese ha impiegato varie strategie per mantenere il proprio potere. Il governo ha risposto alle richieste di sviluppo da parte delle neglette popolazioni rurali armando le milizie paramilitari, che a propria volta hanno mantenuto il potere terrorizzando il popolo del Darfur e delle montagne Nuba.
Il governo ha risposto alla fame con l’austerità. Ha diviso il paese per mantenere il potere. Ed ha lasciato quelli delle periferie senz’altra opzione che la lotta armata. In una parola, l’instabilità ha fomentato la stabilità dell’establishment – nella misura in cui questo è stato in grado di consolidare la sovranità attraverso la violenza continua.
Il governo sudanese segue anche la dottrina del patto col diavolo: in cambio di benefici per i singoli, o per paesi ed istituzioni più potenti, cerca protezione e legittimità. Riforme neoliberali per la benevolenza del FMI; lussi e privilegi per la locale classe capitalista; terra a buon mercato per paesi come la Turchia, il Kuwait ed il Qatar; soldati per la coalizione a guida saudita in Yemen e buone novità per la Russia. Fa ciò nella speranza che queste potenze ottemperino alla loro parte di accordo e lo proteggano dai disordini popolari.
E di fatto abbiamo già visto come ciò abbia pagato. Lo Sceicco Tamim bin Hamad Al Thani del Qatar ha prestato il proprio sostegno ed offerto aiuto a Bashir dopo l’inizio delle proteste. Anche Cavdet Yilmaz, vicepresidente dell’AKP al potere in Turchia, ha espresso solidarietà. “Sosteniamo il legittimo governo del Sudan. Molte volte la Turchia ha affrontato simili complotti”, ha dichiarato dopo essersi incontrato con l’ambasciatore del Sudan. Il Wagner Group russo è stato invitato da Bashir all’inizio del 2018 ed ha attualmente una presenza in Sudan. Il 12 gennaio, Al-Hadi Adam Musa, capo del sotto-comitato parlamentare su Difesa, Sicurezza ed ordine pubblico ha annunciato che molto presto navi da guerra russe avvicineranno i porti sudanesi.
Ma se il regime ha le armi, l’appoggio della “comunità internazionale” e le milizie, il popolo sudanese è rimasto saldo. A lungo gli analisti sono rimasti perplessi per come il regime sia rimasto talmente resiliente. Sebbene questo possa apparire il caso, il popolo sudanese ha mostrato che ciò non è altro che un’apparenza, che in gran parte esiste nella misura in cui la gente lo creda.
Il 19 dicembre quando gli studenti delle primarie, delle superiori e dei college hanno avviato la prima protesta ad Atbara incenerendo la sede del National Congress Party al governo, quando hanno iniziato a picchiare la polizia e quando il colonnello Mohamed Karshom ha defezionato ed impedito alle Forze di Supporto Rapido – le forze paramilitari fedeli al regime – di entrare nella città, l’incantesimo si è rotto e si è palesato che lo stato si stasse già frantumando.
Nulla era certo: era possibile l’ammutinamento dell’esercito, la polizia non era preparata alle battaglie di strada, lo stato ha perso velocemente il controllo. Da est ad ovest, da nord a sud, le forze di sicurezza sudanesi non erano state in grado di reggere. Il regime non era mai stato onnipotente – ed il giorno che ce ne si è resi conto è stato il giorno in cui il suo destino è stato segnato.
L’NCP: disperato e spietato
Vari elementi dell’establishment al potere hanno abbandonato la nave. Paramilitari lealisti del regime come la Forza di Supporto Rapido – le note milizie Janjaweed che hanno commesso il genocidio in Darfur erano un tempo parte di questa forza – guidate dal Luogotenente generale Mohammed Hamad Doqlou hanno già sollevato critiche contro Omar Al-Bashir, forse avvertendo volgere l’ondata a suo sfavore e temendo che la propria combutta opportunistica con il suo governo possa divenire un impaccio.
Persino alcune branche dell’esercito – la stessa istituzione che ha portato al potere la Giunta di governo – sembrano essersi ammutinate. Ogni singolo giorno sembra che l’establishment al potere divenga sempre più disperato.
Ma se le sollevazioni del 21°secolo ci insegnano qualcosa, è che la disperazione arriva per prima, presto seguita dalla barbarie. Oggi in Sudan le strade pullulano di poliziotti in borghese e milizie – picchiano i manifestanti, li seguono a casa o persino negli ospedali per assicurarsi di concludere il lavoro. Secondo Amnesty International almeno 40 persone sono state uccise. Centinaia sono scomparse. I dissidenti dell’opposizione sono stati arrestati in massa.
Il governo spera che la situazione precipiti in quella dello Yemen o della Siria; in modo da poter essere il “salvatore” — l’Ingaz — da una “minaccia terrorista”. Ma affronta un’opposizione ben organizzata e variegata. Al momento nella misura in cui le proteste restano pacifiche e nella misura in cui i rivoluzionari restano pazienti, potremmo ben assistere alla caduta di uno dei regimi più resilienti dell’Africa.
Una lotta variegata
Gli scorsi otto anni dall’inizio della Primavera Araba hanno lasciato molti – inclusa buona parte della sinistra – nell’ambivalenza riguardo al sostenere le lotte rivoluzionarie nel mondo. In Egitto abbiamo visto la protesta più popolare del mondo deformarsi velocemente in una restaurazione che ha portato al potere il generale Sisi. In Libia abbiamo visto un governo di transizione dipendente dalla NATO fallire nella stabilizzazione del paese dopo la caduta di Gheddafi. In Yemen una rivoluzione è precipitata nella peggiore crisi umanitaria del mondo dopo che il paese è divenuto una sfera di lotta per procura tra l’Arabia Saudita e l’Iran. In Siria il paese è stato ridotto in frantumi dopo essere divenuto un campo di battaglia per la Turchia, l’Iran, la Russia, i paesi del Golfo e gli Stati Uniti.
Se tutto ciò abbisogna di essere riconosciuto, non dovrebbe paralizzare la sinistra in una crisi di disperazione. Dal 2011 senza dubbio la sinistra è stata in crisi: ma un tempo ci riunivamo per celebrare la democrazia radicale delle piazze. Se dobbiamo riscattarci, dobbiamo tornare a quella speranza. Perché se una sinistra non è rivoluzionaria non è nulla.
Mai sentito del manuale dei dittatori? Ognuno dei sopracitati paesi vi ha contribuito con i rispettivi capitoli: in Siria si è appreso che le linee rosse non esistano e che sia lecito uccidere civili, in Egitto si è appreso che un regime possa continuare se ne si cambia il leader di facciata, in Libia e Yemen si è appreso che ci si possa alleare con le milizie per rimanere importanti: e in tutti i casi si è appreso che nel mondo della geopolitica non vi sia morale ma solo interessi.
C’è anche il manuale dell’opposizione. E’ un libro disseminato di fallimenti. In Siria la lezione della supremazia e dello sciovinismo arabi combinati con un fare affidamento sui regimi dispotici ci hanno insegnato che le rivoluzioni non possono essere forgiate senza riconoscere le questioni razziali (ad esempio la questione curda). E’ anche stato in Siria che abbiamo appreso che le rivolte non violente che si armano prematuramente sono un invito alle
potenze imperialiste. In Yemen si è appreso che l’opposizione di ieri può aprire le porte allo spargimento di sangue oggi, e in Egitto è divenuto chiaro che la lotta popolare e la disperazione possono essere cooptate da un esercito che promette la sicurezza piuttosto che la libertà. In tutti questi paesi, tranne che in Egitto, è diventato chiaro che l’intervento esterno conduce alla miseria.
Il che ci porta al Sudan. La lotta popolare di per sé non forgia le rivoluzioni, né lo fa l’ignorare i gap di razza e classe tra la periferia ed il centro. L’intervento esterno non può tracciare una rotta in avanti per il paese, né potrà farlo il ricorso prematuro alle armi. Occorre un governo di transizione, l’opposizione non dovrebbe essere armata. La rivoluzione dovrebbe essere rappresentata da un’organizzazione di base, non dall’esercito, e non si dovrebbe fare alcun affidamento su un intervento esterno. Sotto tutti i profili, il movimento rivoluzionario sudanese sembra essere preparato.
La Resistenza
Iniziamo dall’Associazione dei Professionisti Sudanesi (SPA), il principale gruppo che non rappresenta altro che la lotta di base. L’organizzazione-ombrello ha terrorizzato il sistema. Il suo volto pubblico e segretario, Mohammed Naji Al-Asam, è finito nel mirino ed è stato arrestato il 4 gennaio. Nel suo ultimo comunicato, calmo e ribelle, ha incapsulato la natura variegata della lotta nel suo appello contro razzismo e sessismo ed il suo omaggio ai caduti nelle guerre civili del paese.
“Rivolgiamo i nostri saluti a quanti sono stati uccisi nelle guerre lanciate dal regime negli stati del Sud, del Darfur, del Nilo Blu e del Kordofan settentrionale” – ha dichiarato. “Rivolgiamo i nostri saluti a tutti gli uomini e le donne imprigionate nelle carceri del regime, alle donne sudanesi che lottano spalla a spalla con gli uomini sudanesi (…) saluti a tutto il popolo sudanese che ad est, ovest, nord e sud si è unito per una causa – l’immediata caduta del regime.” Tre giorni dopo è finito in carcere.
La SPA è un sindacato-ombrello che taglia le linee occupazionali per accusare il regime. L’organizzazione-ombrello è stata formata nell’agosto del 2018 quando svariati sindacati indipendenti (insegnanti, dottori, lettori universitari, avvocati, giornalisti, ingegneri, ecc) hanno forgiato un’alleanza. I negoziati sono partiti nel gennaio 2018 dopo che il bilancio ufficiale annuale del governo implicava la continuazione dell’austerità nazionale. Da allora, la SPA si è organizzata sotto un fronte unito, per combattere a nome della classe lavoratrice del Sudan.
Cosa significa essere un professionista in Sudan? In Sudan sono spesso i “professionisti” che vivono nelle condizioni più precarie – non accedono né alla sicurezza né ai privilegi associati alla “classe media” nell’immaginario popolare. ROAR ha parlato con un insegnante e membro del sindacato degli insegnanti che ricade sotto l’ombrello della SPA. Si è iscritto allo SPA a causa di un’esistenza precaria. Rappresentando solo il 2% del PIL annuale del Sudan, il settore della formazione parte da un salario minimo per gli insegnanti che ammonta a circa $10.25 dollari al mese.
“L’insegnante è mal equipaggiato e non formato per adempiere ai propri compiti, l’insegnante lavora per un regime dilettante ed immorale, l’insegnante non è rappresentato da nessuno eccetto i sindacati militanti indipendenti che lottano per cambiare la propria condizione” ha spiegato. La SPA si è evoluta oltre la rappresentanza di diversi settori della classe lavoratrice – ed ha immediatamente vestito il mantello dell’organizzazione della rivolta, dato che molti sudanesi hanno difficoltà a fidarsi pienamente dell’opposizione.
C’è anche l’opposizione. Questi sono i partiti politici che si sono organizzati entro le Forze di Consenso Nazionale (National Consensus Forces). Al momento, la loro iniziativa più importante è Sudan Call — un’alleanza con l’opposizione armata nelle regioni periferiche del Kordofan e del Darfur (Fronte Rivoluzionario Sudanese – SRF). Attraverso la Sudan Call, il SRF è stato convinto – ed ha rilasciato dichiarazioni pubbliche in tal senso – di fare in modo che la rivoluzione rimanesse pacifica e senz’armi.
Né le Forze di Consenso Nazionale né il SRF hanno richiesto l’intervento esterno. Nonostante gli arresti, la Sudan Call ha fatto in modo che l’Associazione dei Professionisti Sudanesi potesse mantenere lo slancio di disobbedienza civile non violenta. ROAR ha anche parlato con Mahdi Muhammed Kheir Batran, che ha lasciato il Sudan senza mai farvi ritorno da quando Bashir ha preso il potere. Era un leader del Partito del Congresso Sudanese, formatosi per opporsi al governo di Bashir e ha operato in esilio da allora.
Il Dr.Batran era entusiasta degli sviluppi recenti, del coordinamento tra i partiti di opposizione e la lotta in corso nelle strade. “Non sono stato in Sudan in 29 anni, sembra che ne sarò presto in grado. Questa è una rivoluzione del popolo, lanciata dai giovani”, ha sottolineato in estasi. “E’ una sollevazione popolare, ed è solo con il consenso delle masse che qualunque programma di opposizione può essere istituito. Nessuno di noi ha iniziato questo movimento.”
Questa è a detta di tutti una lotta sofisticata ed organizzata, ma sbarazzarsi del regime di Omar Al-Bashir è solo un primo passo. Occorrerà immaginazione politica – che vada ben oltre gli orizzonti liberali tunisini ad esempio – per disfare i danni arrecati dal NCP. Tracciare la rotta verso un Sudan progressista che rispetti i diritti di tutti ed abbandoni le leggi della Sharia che hanno rotto l’unità del paese è un compito estremamente difficile. Occorre cambiare di segno alla violenza portata dal neoliberalismo e rifiutare di svendere il paese al più alto offerente.
Questa non è una rivolta in stile Primavera Araba, piuttosto è una rivolta africana di base capitanata dal popolo sudanese che pretende la caduta del regime dittatoriale di Omar Al-Bashir. Il carattere variegato dell’opposizione sociale si sta rivelando una grossa sfida per il governo che dopo tre decenni al potere sta affrontando ora una delle minacce più serie alla propria esistenza.
Tratto da Roarmag.org
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