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Sudan, è resa dei conti tra generali e piazza rivoluzionaria

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Arriva al termine un lungo braccio di ferro tra manifestanti e istituzioni del paese africano.

Dopo tre mesi e mezzo di mobilitazione ininterrotta, la convergenza di un milione di persone nella capitale Khartoum lo scorso 6 aprile – culminata nell’accerchiamento del quartier generale dell’esercito e nella proclamazione dello sciopero generale a tempo indeterminato – ha aperto una fase destituente e pre-rivoluzionaria.

Allora il trono del dittatore Al Bashir, al potere da trent’anni, aveva tremato – per poi crollare cinque giorni dopo sotto la pressione esterna delle marce e dei picchetti capitanati dall’Associazione dei Professionisti Sudanesi e dall’Alleanza per la Libertà ed il Cambiamento e di quella interna del golpe militare capitanato dall’alto ufficiale Awad Ibn Auf. A propria volta costretto a dimettersi, dopo nemmeno 24 ore, davanti alla determinazione della piazza; i cui animatori avevano invitato alla mobilitazione ad oltranza fino al dissolvimento del Consiglio Militare di Transizione, emersione dello stato profondo sudanese dalle macerie del partito-feudo di governo NCP.

Dopo l’ingloriosa fine di Ibn Auf i manifestanti hanno messo a segno altri importanti successi: l’allontanamento del capo della polizia politica del NISS Salah Gosh, uomo gradito alla CIA ed ex-delfino del regime; la liberazione dei prigionieri reclusi a causa delle leggi dello stato di emergenza; la fine del coprifuoco notturno nel paese; la virtuale decapitazione dell’NCP e delle alte sfere della magistratura fedeli a Bashir; la definitiva traduzione di quest’ultimo dagli arresti domiciliari alla prigione di Kobar, ed il sequestro di parte del suo tesoro – stimata in 113 milioni di dollari secondo fonti militari.

La caduta della dittatura – la cui sopravvivenza nonostante le politiche draconiane del Fondo Monetario Internazionale era stata garantita da una tela di lealtà ed accordi trasversale alle potenze internazionali – ha creato problemi un po’ in tutti i principali centri di potere della regione.

In primis a Qatar e Turchia, che perdono un alleato ideologico (Bashir si ispirava al movimento della Fratellanza Musulmana, in auge nei due paesi), una meta di investimenti e fonte di approvvigionamento alimentare e un avamposto militare (Ankara disponeva di una base sull’isola di Suakin da cui proiettare la propria potenza nel corno d’Africa). Ma anche alla Russia (desiderosa di rafforzare la propria presenza militare nella regione), all’Egitto e ad altre dittature decennali limitrofe come Ciad, Uganda ed Eritrea, timorose di un effetto contagio davanti alla contemporanea effervescenza delle piazze algerine.

Mentre Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno lanciato un salvagente di aiuti per 3 miliardi di dollari – prontamente respinti dalla piazza – al Consiglio Militare di Transizione. Il cui nuovo capo, l’Ispettore Generale dell’Esercito Abdelfattah Burhan ha coordinato il contingente sudanese nella vicina guerra in Yemen, proprio a fianco delle due monarchie assolute: ed aveva intavolato negoziati con la piazza sperando di addolcire, con le purghe del vecchio regime, la prospettiva di due anni di giunta militare prima di nuove elezioni.

Ma nel Sudan del 2019 una tale ipotesi è inaccettabile: l’esercito ed il popolo non sono più una cosa sola. Con la presentazione oggi di un governo di transizione civile da parte dei rivoluzionari il tempo delle parole è finito, e dopo l’ordine impartito dai generali di disperdere i concentramenti in tutto il paese i nodi della nuova sollevazione nordafricana arriveranno definitivamente al pettine.

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