La Spagna, un paese incantato che esiste solo in Italia. Da Viva Zapatero! al «bel gesto» sull’#Aquarius
Riprendiamo da Giap questo puntuale articolo che mostra con un breve excursus diacronico i miti “esotici” sul socialismo spagnolo dopo che la figura di Sanchez, ora attuale premier una volta sfiduciato Rajoy, è giunta alla ribalta per la sua ingerenza sul “caso Acquarius”. Nondimeno, all’interno di un contesto politico tutt’altro che lineare,si evidenziano le criticità di molti degli esponenti del nuovo Esecutivo, assumendo il punto di vista delle istanze dei movimenti sociali contro l’austerità di questi anni nonché la prospettiva per quanto riguarda il conflitto catalano.
Buona lettura
di Victor Serri *
Ancora una volta la Spagna riempie le prime pagine italiane. La mozione di sfiducia al conservatore Rajoy ha fatto diventare premier il socialista Pedro Sánchez e così per Left «la Spagna vede rosso», mentre per Il manifesto è semplicemente «Cambio».
Scompare la questione catalana, già passata di moda, e si torna alla visione idilliaca della Spagna pre-crisi del 2008. Dai mille feriti del referendum dell’1 ottobre ci separa meno di un anno, e sembra che tutto si sia già risolto con un nuovo governo. È chiaramente una narrazione distorta, che nega la complessità dei processi politici, istituzionali e di movimento.
Quest’idea della «Spagna felice» ha cominciato a formarsi una quindicina di anni fa.
Fino ai primissimi anni del nuovo secolo la Spagna era vista come un paese economico per andarci in vacanza, leggermente esotico. Se ne sapeva poco e, al di là di un interesse politico per il conflitto basco, solo pochi specialisti ne parlavano. Era la terra del flamenco, delle spiagge, delle belle vacanze.
Ma nel 2002 esce un film, intitolato L’appartamento spagnolo. Parla di studenti Erasmus, di una vita di amori e viaggi, della ricerca di una realtà aperta in una Barcellona aperta, soleggiata, gioiosa. In Italia sono gli anni dell’editto bulgaro di Berlusconi, della legge Biagi, del dibattito sul conflitto d’interessi. C’è appena stato il G8 du Genova e si respira repressione, mentre la sinistra istituzionale comincia ad annaspare.
Proprio l’editto di Sofia è uno dei presupposti del documentario Viva Zapatero! di Sabina Guzzanti, del 2004. Vi si parla ancora dell’Italia e della Spagna, comparandole, con una visione bianco vs. nero. José Luis Rodríguez Zapatero, il leader socialista spagnolo, diventa l’esempio a seguire. Lui, capace di trasformare un paese, affermando una reale libertà d’espressione nelle televisioni nazionali, è l’antitesi di Berlusconi. Si ritorna a guardare alla Spagna, ma la visione ora è cambiata: è una terra di democrazia e libertà.
Inseriamo questi nuovi elementi nel tradizionale immaginario collettivo italiano sulla Spagna: un paese dove si mangia la paella, c’è il sole, il mare, sesso facile, divertimento a prezzi modici.
Un immaginario in parte costruito durante il franchismo per dar vita a una industria turistica, ma che ha svolto anche una seconda funzione: imporre l’immagine di una nazione unica e omogenea. La Spagna non si è mai sentita così, neppure negli anni neri della dittatura.
In quel momento si forma in Italia un’idea: quella della fuga. Fuga «dei cervelli», o per cercare un posto migliore dove vivere. Anche dove vivere a sinistra, cosa che in Italia sembra sempre meno possibile. Detto fatto. Inizia la migrazione verso la Spagna.
Nel giro di pochi anni, quella italiana diventa la prima comunità di stranieri a Barcellona, e il flusso migratorio è costante, sostenuto anche dai media italiani: Il Fatto Quotidiano apre addirittura una sezione in cui si raccolgono le testimonianze dei «cervelli» che hanno deciso di emigrare, principalmente nella penisola iberica. La narrazione è abbastanza semplice e ripetitiva: un giovane italiano, formato e preparato, non riesce a vivere nel Belpaese, quindi decide di andare all’estero e la sua vita diventa un successo.
[Aggiungiamo che nel 2006 MTV Italia manda in onda Italo… Spagnolo, programma in ben 27 puntate presentato da Fabio Volo in un appartamento molto fico sulla Ramba di Barcellona, N.d.R.]
Con tutto questo background culturale, è quasi ovvio che si veda in modo distorto questo nuovo governo spagnolo, negandone tutte le criticità.
Sánchez diventa un nuovo condottiero delle sinistre abituate alla sconfitta: batte Rajoy e le destre, annulla la corruzione, è progressista, porta il sole dell’avvenire. Un insieme di elementi perfetto e impossibile.
Governo Sánchez: un reale cambiamento?
Per rendere epico il racconto bisogna parlare di una grande vittoria. Che in realtà non c’è stata. Infatti Sánchez è riuscito a vincere la mozione di sfiducia unendo partiti molto diversi tra loro: i socialisti e Podemos sono fortemente unionisti, ma a permettere loro di ottenere la maggioranza dei voti sono stati gli indipendentisti baschi e catalani. Non c’è una vittoria alle urne, né una maggioranza nelle due camere, ma una convergenza su un solo punto e molto fragile, che renderà difficile legiferare.
Inoltre, per poter ottenere il sostegno del Partito Nazionalista Basco (PNV), Sánchez ha dovuto accettare di non toccare la legge finanziaria appena approvata dal governo Rajoy, soprattutto nella parte inerente al finanziamento a Euskadi.
Si fanno paragoni tra il governo del Partido Popular, conservatore e corrotto, e il nuovo governo di Sanchez, che ne esce come progressista e “pulito”. Ma proviamo a vedere chi sono i ministri.
Teresa Ribera, ministra dell’energia e dell’ambiente, avallò il disastroso Progetto Castor, grande deposito di gas nel golfo di Valencia, a 1750 metri di profondità. Nel 2009 fu denunciata per «prevaricazione ambientale».
Josep Borrell, ministro degli esteri, venne indagato per il falso in bilancio dell’impresa Abegoa. Non venne processato, perché la magistratura imputò soltanto il presidente della compagnia, archiviando una querela all’intero consiglio d’amministrazione. Riferendosi alla situazione catalana Borrell ha utilizzato espressioni non molto tranquillizzanti. Una su tutte: «Ci sono ferite nella società catalana e, sì, bisogna cucire le ferite, ma prima bisogna disinfettare». Ha partecipato anche alla famosa manifestazione contro l’indipendenza del 29 ottobre, manifestazione in cui socialisti, popolari e il partito neoliberista Ciudadanos hanno marciato insieme senza grossi problemi. [Per la cronaca, quel giorno si è registrata un’aggressione a un giornalista e a un tassista Sikh da parte di alcuni partecipanti al corteo.]
Maria José Montero, ministra delle finanze, dal 2004 al 2013 è stata assessora alla sanità in Andalusia, regione amministrata dai socialisti fin dal 1980. Il suo mandato corrisponde agli anni in cui nel governo locale si sviluppò, secondo le indagini del Tribunale di Siviglia, una complessa trama di corruzione basata su prepensionamenti fraudolenti, sovvenzioni false e mazzette a consulenti esterni. Lo scandalo è noto come «caso ERE». Si parla di una truffa alle casse della regione per almeno 160 milioni di euro. Le indagini sono ancora in corso.
Isabel Celaá, ministra dell’istruzione e della formazione, impose un sistema «trilingue» nelle scuole basche per ridurre l’uso della lingua basca. Una lingua già perseguitata durante la dittatura, che si sta cercando di difendere come elemento culturale di chi vive in Euskal Herria.
Il ministro più emblematico è Fernando Grande-Marlaska. Viene descritto come un magistrato-simbolo nella lotta contro la corruzione, ma non si specifica in che tribunale operava: era giudice dell’Audiencia Nacional, il tribunale d’eccezione dello stato spagnolo, erede diretto del Tribunale dell’Ordine Pubblico franchista.
È il tribunale che di recente ha condannato diversi rapper per «apologia del terrorismo» e «ingiurie alla corona». [In loro solidarietà un vero e proprio battaglione di artisti ha inciso la canzone Los Borbones sonos unos ladrones, che proponiamo qui con sottotitoli in italiano, N.d.R.]
È il tribunale che ha condannato una studentessa colpevole di aver twittato una battuta su Luis Carrero Blanco, braccio destro del dittatore Franco ucciso da un commando di ETA nel 1973.
È il tribunale che ha avviato i processi contro gli indipendentisti catalani e si è occupato per anni di giudicare ETA e i suoi militanti. Grande-Marlaska entrò all’Audiencia Nacional mentre cambiava la dottrina giuridica e si imponeva la parola d’ordine «Todo es ETA». Con «todo» si intendono organizzazioni politiche, partiti, giornali di sinistra e indipendentisti baschi. Il nuovo giudice imparò in fretta la lezione e nascose molti casi di tortura: dei 9 casi per cui il Tribunale Europeo dei Diritti Umani ha condannato la Spagna, 6 erano di sua competenza.
È il tribunale che colpì anche il movimento degli Indignados del 15M, processando gli attivisti che avevano accerchiato il parlamento per non permettere ai politici della destra catalana di votare i tagli sociali.
Infine, una nota di colore: il ministro della cultura, che è durato meno di una settimana. Era Maxim Huerta, scrittore e giornalista, divenuto celebre come opinionista in un talk show della tv spagnola. Ha definito «provinciale» la richiesta dello statuto catalano e mandato «affanculo» gli indipendentisti. Non solo: ha fatto tweet con tinte razziste sulla percentuale della popolazione nera in Francia. Ma non sono state queste le ragioni del suo brevissimo mandato. A costringerlo a dimettersi è stato un articolo del Confidencial in cui si ricordava che tra il 2006 e il 2008 Huerta aveva evaso il fisco spagnolo per più di duecentomila euro tramite una società a responsabilità limitata di cui era l’unico azionista e amministratore. Una evasione sanzionata nel maggio 2017 dal Tribunale di Madrid, che ha condannato Huerta per frode fiscale, costringendolo a pagare un’ammenda di 366.000 euro. Nella conferenza stampa in cui annunciava le dimissioni Huerta si è dichiarato vittima di una «caccia alle streghe» e ha detto di non aver fatto nulla di male, semplicemente è stato ingannato dai suoi consulenti fiscali.
Insomma, risulta difficile ritenere questo governo progressista e pulito. Ma basta poco per costruire la narrazione in cui la Spagna è un paese che sta cambiando: basta nascondere tutti gli elementi conservatori e legarsi stretti a un concetto: socialista è di sinistra, a prescindere.
La cosa risulta ancora più curiosa se si osserva il caso catalano. Fu il partito socialista ad accettare e appoggiare con zelo l’applicazione dell’articolo 155, ossia il commissariamento della regione Catalana, con sospensione della sua autonomia, scioglimento del parlamento e indizione di nuove elezioni.
In questi giorni, a Badalona (la quarta città più popolata della Catalogna), il partito socialista è alleato del PP e del partito di destra Ciudadanos per cacciare un governo di coalizione di sinistra. Parliamo di un governo che unisce aree politiche tanto di Podemos quanto della sinistra anticapitalista della CUP, con una forte direzione di cambiamento sociale nel comune.
Aquarius, i muri di Ceuta e Melilla e i CIE
L’idea del «cambiamento targato Sanchez» viene rafforzata dalla vicenda dell’Aquarius, la notizia con cui si è aperta la settimana informativa tanto in Italia come nello stato spagnolo.
Lunedì 11 giugno arriva la notizia: una nave che ha soccorso più di 600 migranti nel mediterraneo non trova un porto dove farli sbarcare e metterli al sicuro. Il ministro degli interni italiano Salvini si oppone, rimbalza le responsabilità a Malta, la quale se ne lava le mani. Aquarius resta in mezzo al mare, tra Italia e Malta, in attesa di ricevere ordini dai centri di salvataggio marittimo.
I giornali ne parlano, i social network si infiammano, fino a quando esce un comunicato del governo spagnolo che sblocca la situzione: Aquarius potrà attraccare al porto di Valencia.
La richiesta viene principalmente da Ximo Puig, socialista presidente della Generalitat Valenziana, sostenuta dai partiti di sinistra come Compromis (una formazione valenciana legata a Podemos). La notizia arriva poche ore dopo quella sul Partido Popolar Valenciano condannato per finanziamento illecito. L’immagine del cambio.
Sembra una situazione in cui tutti vincono: Salvini celebra la vittoria, il governo di Malta pure, e la vicepresidente della Generalitat Valenciana Monica Oltra, la sindaca di Barcellona Ada Colau e i socialisti si fanno forti del bel gesto. Tutti contenti insomma. Il governo Sanchez ha già mostrato un cambiamento di direzione importante: accoglie i rifugiati e istantaneamente si rafforza l’ideale della Spagna come paese fantastico che dà «lezioni di umanità», accoglie i migranti, è solidale. Ancora una volta si guarda alla Spagna con ammirazione.
È il segnale di un cambiamento nelle politiche dello stato spagnolo sull’immigrazione?
Finora non c’è stata nessuna dichiarazione ufficiale al riguardo. Le barriere di Ceuta e Melilla restano li, a difendere le énclaves spagnole nel territorio marocchino, per impedire l’arrivo dei migranti. Parliamo di barriere di 8 e 12 km rispettivamente, composte da tre reti parallele, con filo spinato tagliente, costruite durante il governo di Aznar. Inizialmente il progetto prevedeva una rete di tre metri di altezza, ma con il tempo si è trasformata in una sorta di «muro tecnologico». Sensori sotterrati nella vicinanza della rete captano il movimento di chi si avvicina, camere di sorveglianza controllano il perimetro 24 ore su 24. Nel 2005, in pieno governo Zapatero, la rete passò da 3 a 12 metri di altezza.
Il fatto più oscuro è la tragedia del Tarajal. Il 4 febbraio 2014 quindici migranti annegarono mentre cercavano di aggirare la barriera via mare, nuotando verso la spiaggia di Ceuta. Facevano parte di un gruppo di duecento-trecento persone che cercava di raggiungere a nuoto la costa spagnola. Mentre nuotavano, 56 agenti della Guardia civil cercarono di impedirne l’arrivo, scaricando sul gruppo 145 proiettili di gomma. Solo 23 arrivarono sulla spiaggia, ma per poco tempo. Vennero catturati e riportati istantaneamente in territorio marocchino.
Di quel caso hanno parlato i movimenti sociali, tramite il documentario Tarajal. Desmuntando la impunidad en la frontera sud, che ha portato anche a un processo giudiziario per trovare tra i membri della Guardia Civil i responsabili di quelle morti.
Non solo. Anche i CIE – Centri di Internamento per Stranieri – continuano a funzionare perfettamente. Curiosamente, quello della Zona Franca di Barcellona venne inaugurato un anno dopo l’uscita nelle sale del documentario di Sabina Guzzanti, da quel governo che tanto ammirava.
Proprio in questo CIE, nel 2012, morì Idrissa Diallo, un giovane guineano che aveva saltato la barriera di Melilla pochi mesi prima. Arrestato e portato a Barcellona, morì per negligenza medica sotto custodia dello stato. Furono sempre i movimenti sociali a scoprirlo e a raccontarlo, fino ad organizzarsi per poter reimpatriare il corpo del giovane, che era stato sepolto in una tomba anonima nel cimitero del Monjtuic.
Al giorno d’oggi continuano le pratiche di detenzione e deportazione dei migranti non regolari: recentemente è stato deportato in Marocco un giovane che richiedeva asilo per la sua condizione di omosessuale.
Se non rappresenta un reale cambiamento nelle politiche sull’immigrazione, quali sono le ragioni del “bel gesto”?
Mentre si parlava di Aquarius, nello stato spagnolo si svolgeva la prima seduta del dibattito sulla legge finanziaria al Senato. Una finanziaria fatta dal PP, che il PSOE di Sanchez ha deciso di approvare senza modificarla. Sembra paradossale: i socialisti del cambiamento che vogliono approvare una finanziaria fatta da un governo conservatore.
È una questione strategica. Considerando i complessi e fragili equilibri su cui si appoggia, il governo Sanchez non avrà la forza per fare una finanziaria nuova, e difatti ha promesso al PNV di mantenere quella attuale. Si, perché in questa legge il PP “regalava” un aumento del 30% del finanziamento statale al governo basco, che è l’ago della bilancia, in cambio del suo appoggio. Appoggio ora passato a Sanchez, che non può assolutamente farne a meno, se non vuole cadere.
La finanziaria potrebbe essere il primo grosso scoglio contro cui andrà a cozzare il giovane governo di Sanchez. Per questo, per alcuni analisti politici spagnoli – come Arturo Puente – la decisione sull’Aquarius è un modo per capitalizzare consenso elettorale ed evitare i probabili attacchi che arriveranno per l’incoerenza sulla finanziaria. Più che una decisione politica, una mossa pubblicitaria.
Ecco perché risulta difficile provare entusiasmo per un governo che probabilmente non è così reazionario come quello del PP (ad esempio sulle tematiche legate all’aborto), ma che su molti punti ne condivide la linea: su come risolvere la questione nazionale aperta dagli indipendentismi, sulla libertà d’espressione, sulle lotte sociali e forse sull’immigrazione.
* Victor Serri è fotoreporter per Directa ed è membro di Barnaut, collettivo di informazione in italiano da Barcellona. Su Twitter è @_ittos
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