La tempesta perfetta
La tempesta perfetta più famosa, dal punto di vista meteorologico, fu quella che si abbatté sull’Oceano Atlantico in prossimità dei banchi di Terranova nel 1991, descritta nell’omonimo libro di Sebastian Junger del 1997 e nel film di Wolfang Petersen, dallo stesso titolo, del 2000. Ma la tempesta perfetta di cui occorre qui parlare è quella che sta per abbattersi sull’intero sistema politico-economico occidentale a partire dal quello che un tempo si sarebbe chiamato l’anello debole: l’Italia.
L’attuale crisi politica italiana, con tutte le conseguenze sociali ed economiche che ne deriveranno, va inquadrata infatti in un orizzonte molto più ampio,
in cui la sempre più evidente debolezza diplomatica e militare dell’impero americano incrocia il costante rischio di défaut economico dello stesso (rinviato sino ad ora soltanto dalla continua immissione sul mercato di nuovi dollari che valgono come carta straccia e sono garantiti unicamente dalle portaerei di Washington); la crisi del progetto europeo (misurabile nella distanza sempre più evidente tra la Germania e gli altri paesi del Sud e dell’Ovest, nei sempre più marcati dubbi Londra nei confronti del progetto e nell’inutile rigonfiamento di penne militari da parte del galletto francese); la presa di distanza che per la prima volta, dalla Seconda Guerra Mondiale, ha caratterizzato le scelte del parlamento inglese rispetto a quelle politico-militari americane e la gigantesca crisi economica (caratterizzata da una disoccupazione senza precedenti) che caratterizza l’assetto generale dell’economia occidentale.
Va detto subito: per quanto, ancora una volta, la minaccia più paventata di fronte all’elettorato sia quella del défaut italiano o del commissariamento europeo delle politiche economiche e sociali nazionali, la verità è che la crisi politica ed istituzionale di quella che rimane la seconda economia industriale d’Europa non ha assolutamente la valenza di quella greca né di altre nazioni. E’ roba da far tremare i polsi, anche a quella finanza che fino ad oggi ha giocato abilmente sull’interesse pagato sui titoli di stato e sul conseguente taglio di ogni spesa sociale e dei salari. Come ben dimostrano le preoccupazioni del Presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, quando dichiara alle agenzie di stampa che la crisi italiana “creerebbe enormi turbolenze politiche e sui mercati finanziari”.
Per ottenere interessi e vantaggi di carattere finanziario per gli investitori, in cambio di lacrime e sangue per i lavoratori, i giovani e tutte le fasce deboli (donne, pensionati, disoccupati), occorre infatti un governo forte o, almeno apparentemente, autorevole. E questo in Italia non esiste più, a meno che il colpo di stato politico continuato degli ultimi anni non si trasformi in un autentico colpo di stato militare. Non esiste più alcuna possibilità di giustificare politicamente i governi dei sacrifici: sia perché c’è ormai ben poco da sacrificare, ma anche, e soprattutto, perché nel giro di meno di 24 mesi sono state bruciate le due carte principali del progetto, Mario Monti ed Enrico Letta. E, con loro, il principale artefice istituzionale del tutto: Giorgio Napolitano.
Un governo, come si è già detto in passato, nato morto che per sei mesi non ha fatto nulla; blaterando di tutto e di niente, sempre pronto ad accondiscendere alle volontà del Popolo della Libertà, in effetti l’unica forza politica ad avere avuto due, per quanto inutili e mefitiche, proposte politiche da portare avanti in accordo col proprio elettorato: abolizione dell’Imu e blocco dell’aumento dell’IVA. Ci voleva poco a capire che il grande progetto napolitanico non aveva gambe e speranze per marciare e durare. E le tardive lacrime presidenziali in occasione della celebrazione di Luigi Spaventa (che fu, ai tempi del PCI, fermamente contrario alla moneta unica europea), sono diventate simboliche lacrime di rabbia per il proprio fallimento.
Il colpo di testa o coup de théâtre berlusconiano è intervenuto a frantumare la destra prima che una parte di questa potesse ricostituirsi in quella tanto auspicata destramoderata (e democristiana) su cui tanti (PD in testa, seguito da CEI, Casini e Monti) facevano affidamento per un passaggio ad un’alleanza di ferro, blindata nei contenuti e nelle comuni modalità di governo. La mossa del cavaliere di Arcore ha reso più difficile, se non impossibile, tale passaggio di consegne, di cui il sacrificio del suo ruolo politico avrebbe costituito la garanzia formale. Le parole del pallido Bondi sono state, per una volta, chiare: “Non ci faranno fare la fine del PSI e della DC“.
La crisi è istituzionale, ma in senso più profondo rispetto a quello suggerito da tutte quelle forze (PD, Confindustria, CEI, banche) che vedevano nella grande coalizione all’italiana la soluzione ideale per calcificare all’infinito i rapporti di classe a proprio esclusivo vantaggio. Bruciata questa carta, e questo è sicuro, anche se Re Giorgio riuscirà a far ripartire con novelli senatori a vita e con un nuovo gruppo parlamentare di transfughi berlusconiani (Nuova Italia? Allegria!) un miserevole e cagionevole di salute governo Lettino-bis, non rimangono in mano a quelle stesse forze altre carte importanti o possibili.
Oggi, domani e dopodomani, nelle eventuali elezioni politiche a breve o brevissimo periodo non ci sarebbero vincitori, con o senza porcellum. Non il Pdl frantumato, non il PD azzoppato definitivamente dalle scelte operate anche nell’ultimo semestre e rimasto, nonostante le bufale di D’Alema, con il solo Renzi come possibile candidato premier, e neppure Grillo che, nello stesso semestre, ha dimostrato tutta l’insipienza della sua farraginosa e raccogliticcia armata Brancaleone.
La più grave crisi della Repubblica è aperta, l’Europa è preoccupata e la finanza internazionale pure. Ma le forze antagoniste e/o di opposizione cosa possono e devono fare? Perché questo è il problema che sta più a cuore di chi da sempre si oppone all’esistente, in generale, e a questi governi in particolare. Governi e non nomi di premier perché gli ultimi torneranno, fin che potranno, l’uno a pontificare dalla cattedra universitaria e l’altro a giocare a subbuteo con l’amico Angelino, impallinato come lui dal fuoco ex-amico del Sansone di Mediaset.
“Muoia Berluscones con tutti i Filistei!” sembrerebbe poter essere lo slogan alla base dell’attuale crisi politica, ma se l’antagonismo e le forze di opposizione dovessero cedere ancora una volta al richiamo mediatico delle sirene anti-berlusconiane e costituzionaliste l’errore sarebbe gravissimo perché già nelle precedenti elezioni l’anti-berlusconismo era stata l’unica e poco proficua, dal punto di vista del risultato elettorale, foglia di fico con cui il PD poteva cercare di nascondere ancora la propria subalternità al capitale e alla finanza internazionale. L’unica cosa, pretesa, di sinistra che potesse dire o sbandierare. E tradita comunque nell’alleanza realizzata a sostegno di quest’ultima e disastrosa legislatura.
Per chi non ha perso la bussola è invece chiaro che, almeno dalla Comune di Parigi in poi, qui, in Europa, qualsiasi alleanza con la borghesia, una sua parte o alcuni suoi partiti, non può più portare alcun vantaggio alla maggioranza della classe storicamente avversa: quella dei lavoratori. E la questione morale, su cui in questi anni si è tanto, inutilmente dibattuto, è stata ben riconosciuta come trappola per l’opposizione di classe fin dagli albori del ‘900.
“Ad esempio la moralizzazione politica e amministrativa del Meridione è certamente un postulato rispettabile. La caccia al ladro è un’ottima cosa, purché, però, non ci faccia perdere di vista che la nostra critica investe tutto il sistema politico attuale, e che nemici dei proletari sono tutti i borghesi, ladri e onesti. Se questo non si vuol dimenticare si vedrà subito come sia un errore unirsi al borghese sedicente onesto per sloggiare il ladro: poiché si confondono quei concetti nella mente dei lavoratori. Infatti, la mancata differenziazione politica dei partiti ridiviene causa della immoralità degli amministratori, che approfittano dell’incoscenza delle masse per cambiare appena giunti al potere il loro programma moralista con la pratica del più sfacciato affarismo”. (Amadeo Bordiga, Il socialismo a Napoli e nel Mezzogiorno, in Utopia, Rivista quindicinale del Socialismo Rivoluzionario Italiano, Milano 15 – 28 Febbraio 1914)
Altro terreno scivoloso e infido è quello della difesa della carta costituzionale, intesa come intoccabile e sacro strumento di garanzia democratica, vero altare della patria, dimenticando che le costituzioni sono sempre frutto di un compromesso tra le forze e, quindi, sostanzialmente frutto dei rapporti di forza in campo. Quella italiana non è, come qualcuno afferma, la Costituzione più bella del mondo, ma il frutto di un compromesso tra democratici cristiani, stalinisti e liberali alla fine del secondo conflitto mondiale, con un articolo 1 preso di peso da quella, mai entrata in vigore, della Repubblica di Salò e con l’esclusione di qualsiasi accenno al diritto dei cittadini ad insorgere contro il cattivo governo (così come aveva almeno richiesto una parte della Sinistra Cattolica).
“In generale, una storia del costituzionalismo borghese non può che essere la storia dei tentativi di cogliere, di volta in volta, le caratteristiche fondamentali della composizione politica di classe e di assoggettarne l’esistenza alle necessità dello sviluppo capitalistico. Assoggettarne l’esistenza significa da un lato identificare ed organizzare gli elementi di riproduzione della classe, mistificandoli e possedendoli dal punto di vista capitalistico, dall’altro identificare ed escludere (coattivamente) tutti quei momenti della composizione di classe sui quali può organizzarsi il partito rivoluzionario.
La vecchia Costituzione del 1948 è stata capace di piegarsi, talora concedendo notevoli spazi, alla composizione politica della classe uscita dalla seconda grande guerra imperialista. Un grado di conflittualità medio, da comprendere nella trionfante ideologia del lavoro; una possibilità di mediazione fondata sulle caratteristiche arretrate del rapporto tra classe operaia e contadini; una condizione di miseria delle classi inferiori (ivi compresa la piccola borghesia) da giocare nel progetto di sviluppo: la Costituzione del ’48 è in realtà un «piano di lavoro». E’stata la base sulla quale il capitale è riuscito a porre il progetto di un passaggio ad una fase più avanzata di sviluppo, in tutte le sue dimensioni” (Antonio Negri, La forma Stato, pp. 466 – 467, Baldini Castoldi Dalai Editore, Milano 2012, prima edizione Milano 1977)
“Oggi non è solo morta la Costituzione del ’48. E’ morta la costituzione materiale che la costituiva in progetto. I rapporti di forza che presiedevano ad ogni eventuale modello di sviluppo si sono fracassati” (Antonio Negri, op. cit., pag 468) Parole profetiche (1977) che, se all’epoca erano scritte durante l’ultima grande esplosione di lotte e rivolte operaie e giovanili, e prime in nome della specie, oggi valgono ancora, dopo decenni di sconfitte e trionfi della Destra sostenuta fedelmente dalle politiche economiche del PD e dei governi di centro-sinistra. Con buona pace di Landini, Rodotà e Zagrebelsky.
Archiviati questi due punti (anti-berlusconismo e costituzionalismo d’accatto), restano però ad una opposizione reale parecchie e significative frecce nella propria faretra, tali da permetterle di rappresentare una efficace cassa di risonanza delle lotte e delle esigenze sociali, di cui in ultima analisi i movimenti reali sul territorio e sui luoghi di lavoro sono l’espressione materiale, qualora cogliessero l’occasione per dare forma e sostanza a un nuovo potere costituente, totalmente avverso a quello che ha dominato gli ultimi trent’anni di storia.
Per raggiungere questo obiettivo, però, i movimenti dovranno smettere di delegare ad altri la politica (ad esempio ai 5 Stelle). Per essere più chiari: dovranno evitare, ad ogni costo, di farsi rinchiudere in una sorta di ghetto limitando la propria azione alle manifestazioni pubbliche, al sabotaggio o alle mailing list e riuscire a far valere direttamente le proprie istanze politiche anche di fronte all’istituzione stessa. Così come tutti i gruppi e gruppuscoli dovrebbero una volta per tutte abbandonare il settarismo ideologico che li contraddistingue e le speranze nella rappresentatività dei propri minuscoli ed insignificanti leader. Le lotte e i programmi contano, gli individui molto meno. Solo così sarebbe possibile superare le divisioni tra i vari settori di movimento che si distinguono per le differenti pratiche messe in atto (pacifisti integrali, ambientalisti, comunisti duri e puri, etc.), come i giorni di Seattle, nel 1999, avevano già saputo vittoriosamente dimostrare.
Proseguendo sulla strada della delega politica ed istituzionale si rischierebbe soltanto di non vedere che tutto ciò che così arrogantemente vorrebbe ergersi al di sopra dei propri avversari è già superato. Come il progetto per il TAV, che non è affatto forte come si vorrebbe dimostrare con qualche centinaio di metri di galleria scavati dalla talpa o mandando ancora più soldati a cercare di controllare e soffocare la Val di Susa, ma che è già morto nel semplice annuncio che sul lato francese gli espropri dei terreni coinvolti nel progetto avverranno nell’arco dei prossimi quindici anni o più. Oppure, ancora, le continue, arroganti, insopportabili dichiarazioni di Napolitano a proposito dell’anomalia rappresentata da eventuali elezioni anticipate (alla faccia della democrazia…appunto) e quelle di Letta a proposito della durata del suo governo fino al 2015. Hanno soltanto paura! E’ il capitale a non credere più in se stesso e tanto meno dovranno credere ancora nelle sue risorse i suoi antagonisti. Non occorre uccidere un drago già morto, come alcuni irresponsabili inviti alla lotta armata ancora vorrebbero far credere, ma occorre già pensare al futuro, al dopo. In teoria i movimenti hanno già vinto, ma così non sarà se non sapranno o non vorranno ragionare in questa prospettiva.
Le settimane e i mesi a venire saranno segnati da forti tensioni politiche, economiche e sociali. Istituzioni europee ed internazionali (BCE e FMI in testa), governi stranieri, servizi ed apparati repressivi insieme ad una risorgente estrema destra intorbidiranno le acque e mireranno a diffondere paura e scoramento tra i cittadini e i lavoratori con minacce, provocazioni ed aggressioni e la probabile coincidenza della crisi italiana con il défaut pubblico statunitense sarà motivo di autentici terremoti borsistici. La partita che si è aperta è troppo grossa. Per tutti.
La prova per il movimento reale sarà durissima, ma soltanto la capacità di porsi propositivamente davanti al mondo e al futuro, guardando già oltre lo squallido e fallimentare presente, potrà rafforzarlo, più di qualsiasi scaramuccia notturna e più di qualsiasi astratta discussione. Giovani e lavoratori hanno già dimostrato di saper reggere lo scontro fisico: oggi e domani dovranno sostenere quello politico. Il più duro. Con tutte le difficoltà organizzative e di informazione che tutto ciò comporterà. A meno che non si voglia lasciare per sempre al capitale ogni spazio di iniziativa, nella convinzione di dover solo e sempre giocare di rimando e in contropiede. Ovvero dopo e mai, come oggi occorre, in anticipo sui tempi.
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