La Tunisia è la nostra università – Appunti e riflessioni dal Liberation Without Borders Tour
La Tunisia è, oggi, uno straordinario laboratorio politico. Distruggendo definitivamente ogni inveterata reminiscenza del rispecchiamento coloniale, secondo cui le “periferie” dovrebbero osservare il “centro” per vedervi riflessa l’immagine del proprio futuro, sono invece le lotte a determinare il punto avanzato dentro il capitalismo globale. Fare inchiesta in questo laboratorio significa la possibilità di trovare risposte e nodi politici insoluti.
Innanzitutto, emergono qui indicazioni fondamentali sulla temporalità della crisi. Tra il 2007 e il 2008, quando abbiamo cominciato a sviluppare la nostra analisi sulla crisi economica globale, non potevamo registrare il deflagrare di nuovi cicli di lotta, o meglio questi assumevano un carattere frammentario e non generalizzato. Oggi possiamo constatare come sia lo stesso concetto di ciclo che deve essere completamente ripensato: nel momento in cui la crisi diventa non più fase specifica ma elemento permanente e orizzonte insuperabile del capitalismo cognitivo, le lotte assumono una differente temporalità. Aspettano e attaccano il nemico dove è più debole, ovvero dove è più forte la composizione del lavoro vivo.
Quelle in Tunisia e in Egitto, allora, sono state le prime insurrezioni dentro la crisi economica globale. Ancora di più, hanno rimesso all’ordine del giorno le parole d’ordine dell’insurrezione e della rivoluzione, di cui molti, troppi pensavano di essersi liberati insieme ai ferri vecchi del Novecento. Ma queste parole d’ordine vengono imposte all’agenda dei movimenti in modo nuovo. L’insurrezione non è più, dunque, legata alla presa dello Stato, i perimetri dello spazio nazionale sono definitivamente ecceduti. Si insorge per distruggere i confini, per affermare il diritto alla fuga e alla mobilità del lavoro vivo.
Allora, è per i militanti tunisini chiara la percezione delle coordinate della sfida, che si disegnano su un piano immediatamente transnazionale. Anche qui, possiamo vedere come un altro elemento peculiare della crisi contemporanea, quello del contagio (si veda il decisivo contributo di Christian Marazzi nei suoi diari), viaggi in realtà all’inseguimento dei movimenti del lavoro vivo e delle sue pratiche di organizzazione. L’insurrezione tunisina è stata l’innesco per il movimento in Egitto e in tutto il mondo arabo. E ora dal Wisconsin alla Spagna alla Grecia la parola d’ordine diventa: fare come a piazza Tahrir. Il contagio dei conflitti avviene attraverso la rete, dai social network agli sms. Non si tratta, semplicemente, di strumenti che facilitano la circolazione delle informazioni e della comunicazione. La rete qui viene interamente riappropriata dal sapere vivo, diviene forma dell’organizzazione moltitudinaria, espressione e pratica dell’intelligenza collettiva. Che straordinaria esperienza vedere come, concretamente, i dimostranti si muovono nello spazio metropolitano: in un sabato qualsiasi l’appuntamento è alle 10 del sabato mattina davanti a un teatro della centrale Avenue Bourghiba, passano 40 minuti e non c’è nessuno, i poliziotti dietro al filo spinato sono tesi e non capiscono; in una manciata di secondi cento, duecento, trecento persone si radunano, urlano al governo di transizione che se ne deve andare, rivendicano la continuazione del processo rivoluzionario. Quando la manifestazione viene attaccata con bastoni e coltelli da poliziotti in borghese, e/o loschi figuri al soldo dei commercianti preoccupati per i loro affari alla vigilia della stagione turistica, si disperde in modo apparentemente improvviso com’era comparsa. Ma pochi minuti dopo lo sciame si ricompone ancora più numeroso davanti al ministero degli affari sociali, e poi ancora sotto alla sede del sindacato per imporre la convocazione di uno sciopero generale.
Tuttavia, si badi bene: l’insurrezione tunisina non è un evento impensato, privo di storia e di organizzazione. La sua genealogia è lunga, fatta di mobilitazioni e lotte, quanto meno – ci dicono – l’inizio del processo rivoluzionario va individuato negli scioperi nel distretto minerario del 2008. Ma già negli anni Settanta e Ottanta studenti e lavoratori avevano dato vita a straordinarie esperienze di conflitto: la stretta repressiva e autoritaria di Ben Ali è la risposta ad esse. Giovani e lavoratori tunisini hanno utilizzato, con intelligente pragmatismo, il sindacato unico del regime, l’Ugtt, e il sindacato studentesco, l’Uget: questi sono stati una palestra di formazione militante e spazi di organizzazione capillare, che alla fine è stata rovesciata contro i vertici. Ancora, è nel sud della Tunisia che il movimento ha accumulato forza: simbolicamente, non è un caso che il processo insurrezionale abbia avuto inizio il 17 dicembre a Sidi Bouzid, quando Mohamed Bouazizi – giovane laureato e costretto a fare il venditore ambulante – si è immolato in piazza. Quella forza è diventata potenza quando il movimento ha conquistato lo spazio metropolitano, il 14 gennaio, giorno della cacciata di Ben Ali. Da allora migliaia di giovani proletari sono accorsi dalle campagne e dalle città verso la capitale, per occupare la Casbah e continuare la rivoluzione.
Dunque, come ha già ben spiegato Miguel Mellino, le immagini dei media mainstream non hanno nulla a che vedere con quello che sta succedendo nel Nord Africa. O meglio, la “rivolta per il pane” o la “rivoluzione dei gelsomini” sono etichette che tentano di esorcizzare la realtà comune di cui l’insurrezione in Tunisia ci parla. Vari analisti americani osservano, terrorizzati, come la composizione dei movimenti nel Maghreb sia del tutto simile alla situazione negli Stati Uniti e in Europa: giovani altamente scolarizzati, disoccupati e precari, che non vedono più nessuna possibile corrispondenza tra titolo di studio e reddito. Così, mentre qualcuno incautamente si è sbarazzato della categoria di lavoro cognitivo per malintese esigenze tattiche, o magari perché deluso dall’assenza di lungimiranza dei capitalisti italiani nell’investire nell’”economia della conoscenza”, ecco che è proprio questo soggetto a guidare le lotte sull’altra sponda del Mediterraneo.
In Tunisia dovrebbe essere chiaro a tutti, anche ai testoni che si ostinano ad accusarla di un vizio progressista, che non vi è nessun essenzialismo identitario nella categoria di lavoro cognitivo. Da un lato, essa indica non solo gli studenti o i giovani ad alta scolarizzazione, ma quella moltitudine che produce saperi ed è impoverita dalla cattura capitalistica. Dunque, dire lavoro cognitivo significa dire al contempo potenza e sfruttamento. Nelle periferie di Tunisi giovanissimi e meno giovani usano quotidianamente la rete e parlano correntemente varie lingue, imparate spesso attraverso quelle antenne paraboliche tanto deprecate dai pruriti anti-consumisti della sinistra occidentale, che non coglie l’ambivalente processo di soggettivazione contenuto nell’utilizzo del peculiare “sapere morto” delle tecnologie della comunicazione. Dall’altro, il nodo politico che nitidamente il movimento rivoluzionario in Tunisia ci presenta è l’alleanza, o meglio la composizione comune tra i giovani del precariato cognitivo e del proletariato delle banlieue. Attenzione, però: non si tratta di figure necessariamente distinte, piuttosto di angoli diversi dello stesso processo. Scuola, università e saperi cessano, definitivamente, di essere per il ceto medio declassato un ascensore per la mobilità nel mercato del lavoro, e per il proletariato delle periferie una promessa di riscatto sociale. Attorno a questa composizione si sono aggregati vari altri soggetti colpiti dalla crisi, a partire da avvocati, magistrati e impiegati dei servizi (molto attivi quelli del settore delle telecomunicazioni), e con l’accumulo delle lotte operaie degli anni precedenti nel sud.
Quella in Tunisia non è stata nemmeno una “rivoluzione pacifica”. Chissà cosa direbbe l’icona del giovane celebrata da Repubblica nel vedere le ragazze e i ragazzi della banlieue di Tunisi mostrare, orgogliosi, i commissariati e le sedi dell’RCD che hanno bruciato. Chissà se quella figura disincarnata può capire cosa significa sentirsi dire che oggi non devono più abbassare lo sguardo di fronte a un poliziotto o a uno sgherro del regime, le più immediate rappresentazioni dell’oppressione di classe. Ma non è stata nemmeno, semplicemente, una rivoluzione per cacciare il rais e accedere finalmente allo stadio di sviluppo liberaldemocratico. Il regime di Ben Ali non era un’eccezione o un residuo feudale, ma un tassello pienamente integrato della governance globale e del capitalismo finanziario. Il suo atteggiamento, tutto sommato, non è stato diverso da quello dei manager della Enron o degli altri grandi “scandali finanziari”: quando hanno capito che la barca stava affondando, come gli ufficiali nazisti in rotta nella seconda guerra mondiale hanno tentato di arraffare candelabri e argenteria per scappare lontano. Ancora una volta, il punto politico non sono i corrotti, ma il sistema che produce corruzione. Non a caso, una delle partite decisive si gioca ora attorno alla questione del debito: il movimento rifiuta infatti di rispettare gli accordi presi da Ben Ali con gli organismi del capitalismo globale.
Per questo insieme di ragioni quella attuale è una fase estremamente delicata. Il governo di transizione – che dopo la destituzione di Gannouchi imposta dalla seconda occupazione della Casbah è ora guidato da Essebsi – sta tentando di imporre una normalizzazione repressiva, raccogliendo la richiesta di ordine che arriva dai settori imprenditoriali e commerciali tunisini prontamente disfattisi dell’ingombrante ombra della cricca di Ben Ali. Tutti costoro giurano ora fedeltà alla transizione democratica, che dovrebbe essere acclamata dall’assemblea costituente del prossimo 24 luglio. Nel frattempo, palazzi e ministeri sono circondati dal filo spinato, i carri armati occupano le strade, il coprifuoco e i sistematici black-out nelle periferie tentano di garantire l’ordinata transizione allo “stadio” della liberaldemocrazia, cioè la fine del processo rivoluzionario. Non è un caso che oggi la parola rivoluzione sia esaltata da coloro che stanno cercando di bloccarla, innanzitutto quelle forze dell’islamismo moderato che, non diversamente dal centro laico, già si candidano come i migliori alleati della stabilizzazione imperiale. Lo si vede anche rispetto alla guerra in Libia. Chi l’appoggia è perlopiù il blocco moderato, mentre per i militanti è chiaro come sia una guerra contro i movimenti rivoluzionari. Molti di questi ci raccontano anche di compagni e amici che sono andati a combattere contro il regime di Gheddafi, e ci spiegano le complesse geografie del fronte degli insorti: a Misurata si concentra una composizione molto simile a quella del movimento in Tunisia, mentre a Bengasi si sta tentando di istituzionalizzare una successione al colonnello ma nella sostanziale continuità politica, dunque in accordo con le potenze che stanno conducendo la guerra.
Di fronte al palazzo di giustizia un avvocato commenta efficacemente: “non possiamo parlare di controrivoluzione, semplicemente perché non c’è ancora stata rivoluzione”. Ecco il nodo. A pochi passi, centinaia e centinaia di giovani che sono arrivati da tutto il paese per occupare la Casbah non vogliono tornare a casa, e per i proletari tunisini una casa a cui tornare non c’è più se non si costruisce una trasformazione radicale: la scelta della migrazione o della continuazione del processo rivoluzionario sono, tutto sommato, due forme della stessa lotta. L’esplosione di libertà che percorre le strade della metropoli tunisina si scontra oggi, frontalmente con chi tenta di governarla nel segno della normalizzazione: alla libertà di commercio si oppone, faccia a faccia, la potenza della libertà del comune. Allora, come il potere destituente diviene potere costituente? Come lo sciame diventa dispositivo di attacco, l’orizzontalità determina verticalità collettiva, cioè costruzione di un nuovo rapporto sociale e di istituzioni del comune? In breve, come l’insurrezione diviene rivoluzione? Queste sono le questioni che, dentro la crisi globale, il laboratorio politico in Tunisia ha posto all’ordine del giorno.
Ai militanti di qui, dicevamo, sono chiare le coordinate spaziali della sfida, che si gioca su un piano immediatamente transnazionale: in particolare, il Nord Africa da una parte, l’Europa dall’altra. Ma non si tratta di generica solidarietà, che rischia di finire nella trappola dell’identità oppure puzza di carità coloniale. “Il migliore modo per aiutare la liberazione dei palestinesi è liberare noi stessi”, riassume perfettamente un compagno. Quanto potrebbe imparare da questa università quella sinistra della provincia italica che si crogiola nella sconfitta – oppure nel suo doppio speculare, l’autocelebrazione comunitaria e priva di programma – se solo avesse il desiderio di capire, di fare inchiesta, di organizzarsi nel comune e di respirarne l’aria di libertà.
* Sul Liberation Without Borders Tour si veda: liberationwithoutborderstour.blogspot.com
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