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Lefebvre e noi. Riflessioni sparse.

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Pubblichiamo la terza introduzione (qui la prima e la qui la seconda), scritta da Agostino Petrillo, all’ebook in uscita domani “Città, spazi abbandonati, autogestione”, esito del convegno tenutosi a Bologna il 3 ottobre 2017.

Conoscere Lefebvre al di là dell’immagine che ne viene oggi comunemente offerta è di qualche utilità: la fortuna di cui gode attualmente il pensatore francese pone infatti tutta una serie di problemi, legati non solo alla circolazione di alcune delle sue parole d’ordine, ma a una più generale valutazione della sua opera. Certo il “diritto alla città” ha conosciuto una diffusione postuma di portata planetaria, e il vecchio slogan parigino è risuonato dalle case occupate a Roma alle lotte degli Indignados spagnoli, fino alla disperata resistenza contro le evictions dei movimenti americani antisfratto, ed è stato certo sorprendente vedere come la sua eco sia giunta lontanissimo dal luogo in cui il “droit à la ville” era stato originariamente concepito, rimbalzando perfino nelle lotte contro il ciclico  e ricorrente intervento di slum clearance nelle favelas e nei quartieri autocostruiti delle metropoli terzomondiali. Ma nel farsi mondo dello slogan lefebvriano quanto sopravvive autenticamente del pensiero del filosofo? Le ambiguità al riguardo sono molte, e non investono certo solo la pur meritoria opera di divulgazione (ahimé anche in buona parte di semplificazione) svolta appunto da David Harvey, ma più in generale la valenza complessiva di un’eredità intellettuale.

Prendiamo le mosse da un bilancio prettamente politico: la diffusione della parola d’ordine lefebvriana ha indubbiamente svolto una funzione fondamentale di contravveleno rispetto al dilagare della cultura e più in generale della concezione neo-liberale della città. Il concetto è stato utilizzato da movimenti sociali e organizzazioni di base come una bandiera da usare nella battaglia contro le argomentazioni dei sostenitori della gestione della città orientata al mercato. Chi voleva mostrare che si poteva pensare la città in una maniera antipodica rispetto all’imperante ideologia del neo-liberalismo ha trovato in Lefebvre un riferimento utilissimo, che ha permesso di organizzare reti di resistenza raccolte spesso proprio sotto il titolo generale del droit à la ville. Ma va anche rilevata una ambiguità in questo ritorno: il fantasma di Lefebvre è stato tirato per la giacchetta dalle parti più diverse, e il celebre slogan non è rimasto confinato nei circuiti militanti, ma è stato invece disinvoltamente fatto proprio da ambienti istituzionali e ufficiali. Basti pensare come di “diritto alla città” abbiano parlato in Brasile tanto esponenti della socialdemocrazia al potere quanto le componenti rivoluzionarie che guidano le occupazioni e fanno gli scontri di piazza. In una conversazione che ho avuto recentemente con lui, il sociologo Jean-Pierre Garnier, che di Henri fu amico e stretto collaboratore, si chiedeva se l’attuale esplosione della fortuna di Lefebvre non rischiasse di comportare una sorta di sterilizzazione del suo pensiero, col risultato di trasformare il “diritto alla città” in un contenitore buono per tutte le occasioni.

Personalmente ritengo sia stato l’individualismo proprietario caratteristico della concezione postmoderna della città a risuscitare lo spettro di Lefebvre, a ingigantirne l’effetto fino a farlo aleggiare minacciosamente sulla città neo-liberale. L’idea contrastiva e antipodica della città come costruzione collettiva, come opus commune tratteggiata dal filosofo francese si è infatti stagliata potentemente contro i teorici della dissoluzione dell’urbano in una “sommatoria di edifici”. Di qui uno dei motivi della ritrovata fascinazione esercitata dall’autore. Lefebvre è infatti uno di quei rari pensatori cui si può ricorrere “nel momento del pericolo” per dirla con Walter Benjamin, ed è altresì il teorico che ha espresso più chiaramente di tutti l’idea che le libertà urbane si conquistano e non si ottengono per benevola concessione. Lefebvre ha fondato un discorso sull’urbano come luogo generatore di diritti come prima di lui solo forse Max Weber aveva saputo fare. E lo ha fatto ricostruendo un filo rosso nella storia urbana, andando a leggere nello sviluppo della città in Europa qualcosa che non aveva saputo vedere la tradizione marxista ortodossa degli studi sulla città,  su cui egli scrisse pagine piuttosto critiche, se non addirittura liquidatorie. Egli ha proposto un’idea della città come “opera”, come lenta costruzione collettiva, in cui si disegna un discorso sull’urbano che guarda alla dimensione pubblica, a quello che oggi si chiama comune, quale elemento decisivo della sedimentazione di culture, patrimoni architettonici, saperi. In questo senso Lefebvre è uno dei pochi teorici  in cui il discorso sulla “città bella” incrocia e si fonde con quello sulla “città giusta”, nelle cui pagine è possibile trovare riuniti i due filoni spesso storicamente contrapposti dell’etica e dell’estetica urbana. Ma l’attenzione politica che è stata riservata al diritto alla città rischia per molti versi di fuorviare rispetto alle riflessioni di Lefebvre nel loro complesso.

Se è vero che, teorizzando il droit à la ville, Lefebvre ha posto una sorta di diritto che è al di là dei diritti, o meglio di un diritto che è una sommatoria di diritti, è anche rischioso pensare di leggerlo nei termini riduttivi di un teorico della crisi della rappresentanza politica. La tensione tra citadin e citoyen di cui egli parla è solo un momento di una visione più ampia, è una figura di transizione in attesa che una ulteriore svolta nella storia urbana sveli il suo reale contenuto, il vero citadin è di là da venire. Il partecipazionismo di Lefebvre infatti non è certo quello di Porto Alegre, ma è piuttosto  un mostro bicefalo, una sorta di Giano bifronte, che sotto il profilo teorico per un verso guarda indietro, dato che è intriso di municipalismo proudhoniano, dall’altro guarda avanti, alludendo ad un futuro in cui la stessa necessità della rappresentanza politica istituzionale si dissolve, in un contesto di progressivo autogoverno da parte degli abitanti. Perciò è difficile parlare di diritto in termini canonici, in una simile visione non c’è determinismo, né tecnicismo giuridico, tutt’al più una speranza, e al tempo stesso l’idea di un oltrepassamento della legge. Questo oltrepassamento delle strutture giuridiche formalizzate costituisce in fondo uno degli spartiacque fondamentali tra le letture in chiave riformista e quelle in chiave rivoluzionaria di Lefebvre, dato che il filosofo pone la questione della illegalità, del superamento della legge esistente e in prospettiva della proprietà privata. Penso che sotto questo profilo ci possano essere pochi equivoci: quello di Lefebvre è un programma radicale. L’importante è dunque potere decidere insieme quello che le città vogliono e possono fare. In questo senso il droit à la ville è un diritto per tutti,  in quanto capacità di autodeterminazione, e in particolare per tutti coloro che sono in grado di condurre una “iniziativa rivoluzionaria” sul terreno della città.

Lefebvre ha avuto l’indubbio merito di spingersi oltre il marxismo classico, in cui l’iniziativa rivoluzionaria era in ultima istanza esclusiva della classe operaia, qui nuove forme di movimenti si delineano sullo sfondo della città, associazioni, reti, coalizioni che hanno in comune l’idea della città per tutti, del fare da sé la città, che pongono la questione del politico in maniera radicalmente diversa dal passato, modificandola rispetto a un quadro precedente di relazioni sociali. Verrebbe da aggiungere che Lefebvre ha anche intravisto la generalizzazione del conflitto metropolitano, il suo tendenziale fuoriuscire dalla metropoli stessa come conseguenza dell’estensione della dimensione metropolitana ben al di là dei limiti della città.  Egli suggerisce che il rapporto centro-periferia va colto non solo in una prospettiva storica e spaziale, ma anche in una prospettiva logico-strategica, come distribuzione di capacità astratte di governare e strutturare i diversi fattori e di ordinare gerarchicamente i territori. Per molti aspetti lo spazio del conflitto è quindi in Lefebvre il risultato paradossale di una logica del potere che si basa su di un processo di omogeneizzazione e concentrazione. Le qualità che vengono accentrate nel centro si frammentano e si smarriscono quando si va verso la periferia, la quale rappresenta quindi a sua volta il risultato di una determinata maniera di produrre e di allocare le risorse. In un certo senso proprio questo accentramento a tutti i costi dei poteri e delle qualità,  è la premessa del rovesciamento della centralità dominante stessa. Gli squilibri indotti dai processi di centralizzazione che caratterizzano il modo di produzione industriale frammentano lo spazio di cui si cerca ancora di pilotare una qualche forma di governance, ma la cui sostanziale disorganizzazione è la premessa implicita del superamento del modello. Da un lato la produttività consiste dunque nella centralità, nella capacità di ricondurre i diversi elementi sia materiali che simbolici della società a unità, di sussumerli e tenerli insieme mettendo a valore la cooperazione sociale, come direbbe il pensiero postoperaista. Dall’altro l’accesso a queste risorse collettive viene controllato con la forza, e questo per certi versi le limita, ne circoscrive le possibilità di accesso e le potenzialità produttive implicite. Inevitabilmente si propone un conflitto che investe la centralità come luogo della decisione e del comando e la politica come ambito della mediazione.  Una riflessione quindi attualissima se si guarda alla struttura sociale delle periferie contemporanee e alle condizioni di vita in esse.  E allora anche nelle nostre città, in cui la centralità si vorrebbe vincente, dominante, “totalizzante” si allungano le ombre di altre, diverse centralità, e la stabilità della situazione è solo apparente.

Al di là quindi di tante critiche che hanno visto in lui un pensatore ancora “fordista”, legato ad un fase storica ormai superata, a movimenti tramontati, Lefebvre fornisce ancora quindi immagini potenti che contrastano violentemente con la sminuita dimensione pubblica del neo-liberalismo. Un pensiero che possiamo trovare  utile e vicino,  a volte sorprendentemente prossimo e parlante rispetto ai nostri problemi, quando analizza le criticità interne dei poteri consolidati e ne mette in luce le contraddizioni, e ci permette al tempo stesso di giocare tutto un ben diverso  immaginario della tradizione urbana europea contro la frammentazione e l’atomizzazione del discorso neo-liberale sulla città. 

 

Agostino Petrillo

 

(Sintetizzo in queste poche pagine un più ampio capitolo dedicato a Lefebvre nel mio nuovo libro Periferie della disuguaglianza, in uscita nei primi mesi del 2018.)

 

 

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