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Meridione e crisi

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Relazione dei compagni e delle compagne del C.P.O.A. Rialzo al seminario di Autonomia Contropotere, Val di Susa, 15-16 Luglio 2017

Relazionare sul Sud rappresenta per noi una novità, anche per noi che viviamo quotidianamente nelle pieghe delle contraddizioni meridionali. Abbiamo sempre avuto la quasi naturale propensione a evitare di cucirci addosso una forma di auto-subalternità, figlia non solo dei processi capitalistici, ma anche di una narrazione viziata che ci propina il Meridione come terra da cui ripartire. Il Meridione è una parte dell’Italia che vive una serie di specificità, ma le sue contraddizioni non sono diverse rispetto a quelle delle periferie delle città settentrionali.

Troppo spesso l’idea di Meridione è stata legata a un concetto di natura meramente geografica. Troppo spesso la depressione economica che atavicamente caratterizza i territori posti a Sud ha rappresentato un alibi che ha spalancato le porte alla rassegnazione, al senso di impotenza. Troppo spesso il Meridione è stato dipinto come quella pesante zavorra che trascina con sé, nei profondi abissi della crisi, i territori limitrofi o come quella sorta di dissuasore di velocità che frena lo sviluppo e il progresso delle zone tradizionalmente più avanzate, ricche e produttive. Troppo spesso, quasi per mero senso di appartenenza, facendo leva su presunte peculiarità psicologiche tipicamente meridionali, appellandosi a un’ipotetica e incorrotta aura originaria, in molti hanno puntato sulla costruzione, seppur comunitaria, di una specifica e pluri-connotata identità. Legare l’idea di Meridione a un archetipico e, quasi brigantesco, senso di rivalsa e rivolta, ci pare operazione, non solo azzardata, ma completamente decontestualizzata.

Per recuperare una visione dinamica, attuale e non miope di Meridione, occorre quindi, in prima istanza, sbarazzarsi di tutti quei fastidiosi pregiudizi che, per decenni, hanno infestato il campo dell’analisi, compiendo un lavoro di natura “archeologica”, perché si occupa di disseppellire e riportare alla luce significati sotterrati sotto montagne di false interpretazioni e menzogne strumentali. Il Sud, da sempre, è stato terreno privilegiato di dispositivi di disciplinamento e governamentali successivamente generalizzatisi, potremmo dire laboratorio privilegiato di sperimentazione. Che la meridionalità e la sua retorica sia stata un dispositivo di disciplinamento basato sulla presunta arretratezza è vero; che il Meridione come periferia produttiva (si veda la divisione centro/periferia dei teorici del Sistema Mondo) sia un territorio “colonizzato” e che le dinamiche di gestione della forza lavoro e della sua struttura produttiva siano peculiari è anch’esso vero. Oggi, la questione meridionale è una questione europea, con la costruzione di un’ Europa a due velocità. Tuttavia, il tema, ribadiamo, è non fare del meridionalismo un neo-comunitarismo da sostituire alla sfida della ricomposizione di classe. Si possono usare tatticamente strategie retoriche nel processo di soggettivazione tenendo conto dell’ambivalenza dei richiami comunitari, ma non bisogna rimanere intrappolati in un orizzonte politico che, spesso con una grande confusione storica, oppone all’ “Europa fortezza” nuove piccole patrie.
A Sud, lo stato di eccezione da occasionale è diventato abituale.

Pensiamo, ad esempio, alla figura dei commissari in fasce fondamentali dell’amministrazione. Per la sanità, l’ambiente, ecc., non ci sono state (o ancora non ci sono, come per la Sanità in Calabria e Campania), per anni, figure amministrative, ma commissariali, il che vuole dire azione amministrativa in deroga per l’esistenza di condizioni di emergenza.

Il Meridione ha i suoi specifici modi di produzione, i suoi tempi, una peculiare densità di forza-lavoro. Per comprendere il Meridione, quindi, sarà necessario, così come avviene per tutti gli altri contesti spaziali, seguire e analizzare il concreto operare del capitalismo a Sud. La bilancia è sempre quella del capitalismo. A cambiare sono i pesi “specifici” che ne causano il costante e altalenante movimento. L’operare del capitalismo, in una società frammentata e eterogenea come quella odierna, dove centro e periferia non sono più i poli opposti e perfettamente riconoscibili di una dialettica stabile, risente non tanto dei “gradi di sviluppo”, quanto delle specificità territoriali, specificità di ordine sociale, culturale, politico. Per tale ragione, parlare di capitalismo, oggi, non vuol dire tanto più parlare di visione globale, monolitica e univoca, quanto di differenze. Ed è proprio dalle differenze che occorre ripartire. E, soprattutto, da alcune domande. Chi sta “ai margini della storia”, come sosteneva Gramsci, come reagisce, oggi, all’operare frammentario del capitalismo? Chi sono, oggi, i subalterni? E, più nello specifico, come sono nati, a Sud, quegli attriti che hanno generato, poi, il conflitto? Probabilmente, occorre partire da un dato di fatto. La lettura “operaista” della dialettica sviluppo/sottosviluppo ha causato una rottura, una profonda ferita nel cuore della logica dello sviluppo lineare e omogeneo della storia. Lo sviluppo è la subdola arma in dotazione agli eserciti egemonici, ai gruppi di potere, arma di impoverimento, imbarbarimento, distruzione “di coscienza” di massa, arma di morte.

A Sud, lo sviluppo capitalistico, guidato dal modello fordista, non ha visto la significativa nascita di fabbriche così come è avvenuto nel Nord Italia. A Sud, ha prevalso il modello agricolo e le uniche fabbriche nate, sfruttando biecamente il bisogno-lavoro, hanno solo seminato morte e avvelenato la nostra terra: la Pertusola di Crotone, l’Ilva di Taranto, la Marlane di Praia a Mare. I morti causati da queste fabbriche pesano sulle spalle di chi ha ritenuto che tale modello di sviluppo, a Sud, potesse essere quello più adeguato. Così come un dispositivo assistenzialista, come quello della Cassa del Mezzogiorno, non ha fatto altro che innestare un meccanismo di subalternità e costruire un immobilismo preoccupante, un’incapacità di reazione spaventosa.

Nonostante questo, sin dai tempi del bracciantato e delle lotte contadine, a Sud, l’elemento della “lotta” ha tentato di mettere fortemente in discussione proprio la logica dello sviluppo, una logica che coltivava l’arrogante pretesa di abbattere le “differenze” di cui stiamo parlando, in nome di una visione olistica fondata su concetti di temporalità e spazialità disincarnati o legati a una precisa idea “di Stato” da difendere. In altri termini, come posso applicare a Sud l’idea di tempo e il modus agendi del fordismo più spinto, se questa idea di tempo viene desacralizzata, smentita da quelle “eccedenze” tipicamente meridionali non circoscrivibili in una modalità predefinita? E, quali sono quelle che abbiamo appena definito eccedenze? Eccedono i migranti che ridefiniscono le strutture sociali, le figure precarie che rimodulano il mondo del lavoro, i “nuovi poveri” che mettono in discussione parametri, criteri, stratificazioni sociali, tutte quelle soggettività antagoniste che si sono opposte e si oppongono, tutt’ora, alla visione del Meridionale come “individuo indebitato” che ha la necessità di pagare il fio, anche morale, della sua “arretratezza”. Laddove, infatti, si presentano episodi di mutualismo, solidarietà, scambi multietnici, relazioni meticce o di collettività determinate che resistono e mirano a disinnescare i dispositivi del debito e dell’austerità, la logica “sviluppista” decade.

Non la decrescita, felice o infelice che sia, come miracolosa ricetta per sfuggire ai tentacoli della crisi, ma la “crescita responsabile”, ovvero una crescita capace di dare risposte concrete a bisogni reali, una crescita fondata su forme dinamiche e mobili di produttività. Di più, paradossalmente, la “crisi”, lungi dall’essere concepita come la fase acuta di una malattia potenzialmente mortale, rappresenta, nella sua attuale persistenza, la testimonianza vivente che qualcosa si muove, che qualcuno si ribella alla logica del capitale, è crisi sociale e non tanto crisi del capitale. Il Sud mette radicalmente in discussione la visione capitalista fondata sui dispositivi coercitivi dell’austerità, dello sviluppo e del debito. L’uscita della crisi, a questo punto, non si pone più come un problema. Come una sfida, semmai, una sfida quotidiana al presente che ostinatamente attraversiamo. C’è un ordine del discorso “istituzionale” cui questi “subalterni” vogliono opporsi e, opponendosi, creano le condizioni di possibilità per la nascita di una “politica dei governati” che si traduce rapidamente in una “politica degli ingovernabili”, di coloro i quali non sottostanno alle leggi dell’accumulazione, dell’estrazione indiscriminata di plusvalore, dello sviluppo.

Da questo punto di vista, per noi, di grande interesse, in riferimento ai nostri territori, è l’illegalità dilagante, da leggere alla stregua di una reale forma di riappropriazione sociale che permette a migliaia di persone di sopravvivere. Si tratta di un meccanismo autonomo che produce, soprattutto nelle zone più popolari, meccanismi di sabotaggio e riappropriazione che potrebbero fare scuola anche alle migliori strutture politiche.

La diffusione capillare di pratiche illegali, segnate sicuramente da una loro natura ambivalente, quindi, ci segnala però un terreno fondamentale di lavoro politico. I processi di riappropriazione e di indisciplina sociale segnati dall’uso sistematico di pratiche come gli allacci abusivi, piccola criminalità, occupazioni, mancato pagamento di servizi pubblici e privati a fronte di un’insostenibile “legalità” caratterizzata da tagli al welfare e chiusura di qualsiasi prospettiva professionale e lavorativa, ci parlano dell’inefficacia della retorica “legalitaria” e di una percezione, se pur subalterna e frammentata, di insostenibilità sistemica che normalizza pratiche di resistenza (se pur in forma spesso “impolitica” e individuale).

Le politiche d’austerità e l’attenuazione della potenza dei meccanismi clientelari per l’impoverimento delle risorse rafforzano le tendenze endemiche di resistenza dei subalterni meridionali, che nello stato di eccezione permanente del Meridione hanno sviluppato e praticato per anni elementi di riappropriazione diretta.
Ovviamente, non vediamo in questo l’esistenza di una soggettività già compiuta, ma il terreno di una possibile soggettivazione oppure, pericolosamente, della sussunzione di queste stesse pratiche nella loro forma “neoliberista”, di accumulazione e iper-individualista. Bisogna calarsi a pieno nel modus vivendi di quelli che vengono definiti “nuovi barbari”, nelle loro contraddizioni e ambiguità, perché sul terreno di riproducibilità delle pratiche diffuse e autonome di riappropriazione si possono costruire elementi di solidarietà diffusa, generatori di organizzazione di classe. L’efficacia della retorica “legalitaria”, che segna il confine tra una presunta società civile buona e progressista, democratica e riflessiva a fronte dei brutti, sporchi e cattivi “illegali”, va contrastata rilanciando sul terreno della legittimità della lotta alla povertà in tutte le sue forme, dell’insostenibilità sociale della “legalità” perché al di fuori di queste pratiche non ci sarebbe la possibilità di sopravvivenza per interi settori sociali. Sempre rifuggendo da qualsiasi meccanicismo economico, i “nuovi barbari” non sono il soggetto rivoluzionario, ma il segmento più promettente di un potenziale blocco storico della trasformazione.

La forza delle organizzazioni criminali al Meridione sta proprio nella capacità di costruire processi di accumulazione sussumendo il potenziale sovversivo di alcune pratiche, attraverso la narrazione falsamente emancipatoria di un modello di accumulazione perfetto per le periferie dell’impero. L’imprenditore di se stesso, figlio della trasformazione antropologica neoliberista, nella sua veste più povera (di precario dequalificato o sottoproletario) non può che scegliere tra un percorso gramo, fatto di lavoro in nero e precarietà esistenziale, oppure credere nella promessa di affermazione individualista tipica del percorso malavitoso. Potremmo dire, che nelle nostre periferie la missione antropologica neoliberista del self made man trova nel percorso malavitoso la sua ipotesi più ambiziosa e praticabile. La mafia non è forte solo perché eroga reddito, ma perché è lo spazio di affermazione del soggetto neoliberista nella sua forma sottoproletaria.

A Sud, e questa ci pare essere caratteristica di fondamentale importanza per leggere tra le strette maglie dell’attuale fase di crisi, proprio le pratiche di auto-organizzazione e riappropriazione hanno rappresentato e rappresentano il tentativo di dare vita a una narrazione comune antitetica a quella del Capitale ma, allo stesso tempo, più larga, trasversale, maggiormente inclusiva. A Sud, infatti, il corpo sociale che vive e opera attorno al corpo militante rappresenta un valore aggiunto, un’enorme ricchezza.

La geografia dei conflitti, quindi, si è notevolmente allargata e, allo stesso tempo, strutturalmente modificata. In molti, oltre che di crisi globale o europea, parlano anche di crisi del Movimento. Allora, sarà più opportuno parlare di movimenti, di realtà territoriali in lotta, abbandonando, una volta per tutte, un’idea superata di Movimento che mal si adatta alla composizione umana e alla cartografia dei territori attuale. Se il contesto, in altri termini, è profondamente frammentato, allora l’idea di un intervento unico non potrà mai funzionare. Il de profundis dell’idea di Movimento lo recitano le realtà territoriali in lotta stesse. Il protagonismo di queste realtà, che a Sud trovano particolare linfa vitale alla luce delle condizioni socio-economiche precarie, del dissesto ambientale, della speculazione e della cementificazione selvaggia (giusto per citare solo alcuni degli aspetti contemplabili), non deve, però, trasformarsi in grido identitario, in rivendicazione “romantica” di un’irriducibile alterità.

I discorsi che costruiamo quotidianamente con le nostre lotte sono e saranno sempre parziali, in quanto avanzare pretese totalizzanti ci pare quanto mai azzardato e controproducente. Le forme istituzionali di governance, sempre più asfittiche e miopi, la crescente cifra multiculturale, l’aumento dei bisogni primari e del disagio periferico, l’incremento di cementificazione e speculazione, il prevalere della logica della rendita e del profitto su quella del soddisfacimento del bisogno reale, l’alternarsi di classi politiche sempre più corrotte, la latitanza di un pezzo di cittadinanza attiva: queste alcune delle cause che hanno portato, nel corso degli anni, all’allargamento del corpo sociale e al rafforzamento delle lotte. Come per tutti i processi storici, retti dall’idea di “lunga durata” e non da quella della linearità temporale, anche le trasformazioni del corpo sociale affondano le proprie radici nelle modificazioni del contesto storico, geografico e sociale stesso di riferimento. La lotta per la casa, ad esempio, che a Cosenza ha prodotto risultati impensabili all’inizio del percorso, nasce proprio dall’idea, in piena continuità e comunanza con quanto avvenuto in molte altre città italiane, di mettere in atto pratiche di riappropriazione in grado di scardinare il sistema della governance istituzionale, contestare la logica dell’austerità, offrire un’alternativa alla visione predatrice di palazzinari e speculatori privi di scrupoli. Il movimento di lotta per la casa ci mostra una soggettività meticcia in cammino che non rivendica solamente il diritto all’abitare, ma intende costruire collettivamente una visione differente, una lettura alternativa della realtà che ci circonda.

Consci che tale lotta non rappresenta l’unico strumento di trasformazione del reale e consapevoli della nostra “insufficienza” attuale, riteniamo che la lotta per la casa, però, possa incarnare quel solido perno attorno al quale costruire l’unità dei “nuovi poveri”, dei disoccupati, dei precari, dei migranti, una lotta che parte dai territori, ma che necessita di una chiara e netta forza propulsiva a più ampio raggio, di un rafforzamento della linea politica nazionale. La lotta per la casa rappresenta, quindi, quel meccanismo di unione capace di mettere insieme, potenzialmente, oltre alle questioni relative al diritto all’abitare, quelle relative al lavoro, alla lotta nelle campagne o a quelle dei facchini. Solo attraverso l’unione di queste lotte potremmo uscire dalla logica difensivista ed evitare, così, di rimanere schiacciati, da un lato, dai dispositivi securitari e, dall’altro, dall’ondata di razzismo in salsa PD e destre.

La lotta per il diritto all’abitare, oggi, è l’esempio più lampante, a nostro modesto giudizio, di come l’esercizio di un contropotere, per essere incisivo e duraturo, debba costituirsi nei termini di un percorso perennemente in fieri, di un discorso seminale, senza la chimera di un obiettivo finale. Il fine mal si sposa con la lotta. I risultati raggiunti sono sempre parziali e vanno intesi sempre alla stregua di trampolini di ri-lancio della lotta stessa. Il Capitale ci sfida ogni giorno delle nostre vite e noi, ogni giorno, abbiamo il dovere militante di cogliere il guanto della sfida lanciata. Occorre puntare su percorsi di lotta multi-fattoriali, in grado di tenere assieme più istanze, più rivendicazioni, più campi di interesse. Una lotta non è mai solo il tentativo di ottenere un singolo risultato, ma l’apertura di una differente visione del mondo, laddove il mondo in questione, nella maggior parte dei casi, è un quartiere, con tutte le sue peculiarità, limiti, idiosincrasie congenite. La lotta può avere senso, allora, solo se si pone l’obiettivo di incidere nel tessuto sociale, solo se fuoriesce dai confini dell’isolamento, solo se aumenta quotidianamente il suo grado di legittimità all’interno dei quartieri o dei piccoli contesti urbani. Come è avvenuto e avviene nel caso emblematico, ad esempio, dei comitati di lotta ambientali.

La particolare composizione territoriale presente a Sud, caratterizzata dalla presenza di centri urbani medio-piccoli (escluse alcune metropoli come Bari, Napoli e Palermo) vede un accelerato spopolamento e processi di deterritorializzazione economica e sociale. Assieme alla forme di conflitto urbano di riappropriazione, in questi territori, si determinano una pluralità di micro-conflitti ambientali. La centralità della spesa pubblica e la destrutturazione del tessuto produttivo, già molto debole, ha moltiplicato le forme di aggressione del capitale al territorio, forme che si affermano grazie al duplice dispositivo discorsivo della “necessità del lavoro” e della “necessità dello sviluppo”.

Il primo dispositivo disciplinare si struttura intorno al ricatto del lavoro che permette l’affermazione di forme di produzione distruttive (produttive, vedi Ilva a Taranto, o improduttive) come illusione sviluppista continuatrice dei grandi progetti fallimentari di industrializzazione pubblica degli anni ‘60 e come messa a valore delle esternalità negative del capitalismo. Un capitalismo che fa profitto dai suoi scarti, da tutto ciò che altri territori non accetterebbero mai.

Questa sfida al territorio si rafforza attraverso la duplice narrazione del “territorio sottosviluppato” e attraverso il presunto incremento lavorativo. Le forme di aggressione, laddove si presentano però come minaccia immediata alla salute e al territorio, attivano meccanismi neocomunitari di resistenza. Anch’essi ambivalenti (il neocomunitarismo, infatti, è anche il terreno ideologico su cui si può radicare e rafforzare il complessivo senso comune di destra), questi processi conflittuali rappresentano, però, anche la possibilità di rivelazione delle contraddizioni e delle sostenibilità sistemiche in un territorio in cui il conflitto capitale/lavoro assume manifestazioni sempre più spurie e poco sindacali.

Ecco, proprio su questo dobbiamo continuare a lavorare: accrescere la legittimità, non solo politica, ma anche sociale, dei percorsi di lotta che abbiamo messo in campo. Solo così, nel corso degli anni, potremo sperare che i nostri interventi si trasformino in corpi sempre più familiari al punto tale da essere in grado di ribaltare le ataviche gerarchie che caratterizzano la nostra società. Formulare piani strategici d’azione, individuare priorità, progettare interventi, ci serve per uscire da quella logica emergenziale che è figlia della dialettica sviluppo/sottosviluppo e della visione del Sud come territorio tradizionalmente depresso. Per questo, il lavoro continuativo nei quartieri, soprattutto al Sud, dove le città altro non sono che agglomerati di quartieri, appunto, diventa decisivo. Si veda, ad esempio, il ruolo giocato dalle curve calcistiche in diverse città del Sud, veri e propri sistemi di emancipazione dal sistema malavitoso e dalla logica della divisione di classe. All’interno delle curve, anche per effetto della mannaia delle politiche securitarie, si sono aperti, infatti, interessanti spazi di interazione e comunicazione politica, prevalentemente in quei contesti territoriali dove l’area antagonista ha mantenuto, negli anni, un approccio eretico alla sottocultura del tifo organizzato. Si pensi a Palermo, Lecce, Taranto, Cosenza.

Un lavoro delicato, certamente, in quanto sostanziali sono, spesso, le differenze culturali, sociali ed economiche tra i quartieri di una stessa città. Occorre, simultaneamente, formarsi un’idea chiara e netta di chi sono, allo stato attuale, i nostri nemici, la nostra controparte. Nessuna battaglia risulterà sensata in mancanza di una controparte chiara, di un interlocutore ben definito. Compresa la battaglia, da cui non vogliamo e dobbiamo desistere, relativa al reddito. Perché parlare di reddito, oggi, non vuol dire coltivare un sogno o immaginare una società comunistico-platonica, bensì opporsi al modello di sviluppo capitalistico. La situazione economica che vive il Meridione, infatti, caratterizzata da disoccupazione, precarietà, clientelismo, rendita parassitaria, attività criminale, per certi versi, ben si sposa con la vocazione all’accumulazione flessibile propria, ai giorni nostri, del Capitale stesso. Così, solo attraverso una ricostruzione coerente del fronte dei subalterni e di tutto il carico dei loro interessi popolari, riusciremo a mettere in campo una battaglia non utopistica sul reddito. Una campagna sul reddito vuol dire investire su delle pratiche di riappropriazione, ma assieme a questo si pone come necessaria la costruzione di una proposta egemonica capace di ricostruire connessioni e relazioni.

Al Meridione, avere un proposta forte sul lavoro vuol dire introdurre il tema del reddito in una forma intellegibile a livello popolare e capace di intercettare quei meccanismi di subalternità introiettati costruiti sul ricatto del lavoro.

In questa composizione che lotta, naturalmente, occorrerà tenere fortemente in conto la sempre crescente presenza di soggetti provenienti da altri territori del mondo. La figura del migrante, infatti, risulta chiave all’interno di quel processo che intende dare vita a un bacino mediterraneo delle lotte. La libera circolazione, l’abbattimento di confini e frontiere, infatti, ridefinisce non solo la densità della forza-lavoro, ma le caratteristiche socio-culturali delle diverse comunità. Il Sud, da questo punto di vista, in quanto terra privilegiata d’approdo, rappresenta una sorta di catalizzatore naturale di questo processo di commistione che mette in discussione il concetto stesso di cittadinanza e quello di sovranità. Per questo, si tenta disperatamente e coattamente di innalzare confini e barriere. Occorre, d’altro canto, ripensare il sistema stesso dell’accoglienza, che non può assolutamente fare leva sui Centri di Accoglienza Straordinaria, in cui la concentrazione conflittuale presente, in realtà, incarna solo una polveriera in gabbia. Si tratta solo di nuovi strumenti di confinamento e contenimento che hanno semplicemente sostituito i vecchi, senza assolutamente mutarne la sostanza oppressiva e razzista.

Molto altro si potrebbe dire, a partire dal Meridione come idea problematica, per lavorare su una strategia di intervento comune a partire dai territori, ma anche, e soprattutto, per ripensare le forme del linguaggio, dell’espressione e della comunicazione. Sfidare razzismo e divisioni, ricomporre la nostra parte nel meticciato e nel conflitto. Per riprenderci ciò che ci è stato tolto, vogliamo sperimentare, contro i processi di impoverimento, esclusione ed espropriazione dei territori, nuovi terreni di lotta, nuove frontiere di protagonismo, sempre nuove forme di auto-organizzazione sociale.

 

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