Mosaici di guerra
Due leader sfiduciati in un paese diviso; un attacco suicida a Misurata da parte dell’Isis; bombardamenti a stelle e strisce sulla Libia con l’obiettivo di uccidere Mokhtar Belmokhtarhar, uomo di Al Qaida; migliaia di uomini e di donne imprigionati a Tripoli, in fuga dalle dittature e dalle guerre, accampati nelle stazioni italiane, bloccati ai confini europei: questi sono i tasselli di un mosaico in continua ridefinizione. Della complessità di questa situazione, men che mai sotto il controllo degli attori istituzionali, i media mainstream non parlano. Vendono, invece, notizie che, queste sì, sono funzionali a certi discorsi politici. Si pensi a come, in questi mesi, Salvini ha utilizzato le paure per costruire proseliti, agendo per lo più indisturbato su di un terreno in cui né la destra né la sinistra sono intervenuti. Non solo per una consistente incapacità dialettica, ma anche perché il filo rosso che corre lungo la storia della repubblica, e ci parla di immigrazione, porta in calce i nomi di entrambi gli schieramenti: dalla Turco-Napolitano alla Bossi-Fini. Le uniche resistenze attive sono arrivate da quelle piazze che hanno vietato al leader del Carroccio di parlare.
Come già precisato gli interessi in campo, per la sola Libia, sono numerosissimi e vanno ben al di là delle consistenti risorse energetiche. Certo, mettere le mani sul greggio e sul gas, o assicurarsi un futuro per le aziende che hanno la gestione dei giacimenti, è di primo interesse per dettare il prezzo delle singole risorse a livello internazionale. Vi è poi un effetto di ritorno, legato alle ricadute che questo processo provocherebbe dal punto di vista politico, economico, finanziario, alle economie di scala che potrebbe generare, all’indotto nel settore energetico, prima ancora che in quello della guerra. Come è stato precisato da numerosi intellettuali, le nazioni come insieme di istituzioni sono entità ormai svuotate di ogni valore, che agiscono in funzione del guadagno privato e del capitale nelle sue molteplici forme. Questo vuol dire che a creare la guerra sono gli interessi in gioco, mentre poi a combatterla sono gli eserciti. Non cadiamo, però, nel gioco del moralismo pacifista: chi uccide sotto qualsivoglia bandiera nazionale è e rimane un assassino, che faccia fuoco contro due pescatori indiani, che bombardi e massacri la popolazione inerme di Gaza, che ammazzi civili libici o migranti in fuga nel contesto di una “guerra giusta” nel Mediterraneo.
Vi è poi un terzo piano, che ribalta completamente quanto finora detto. Non nel senso che lo nega, ma che aggiunge un altro sguardo. Quello relativo al rapporto tra guerra e crisi. Osservare in modo contrappuntistico questa relazione permette di illuminare quelle fratture interne alla rappresentazione “liscia e continua” dell’Europa. In primis, le politiche del diritto dell’uomo, sancito con i valori illuministici che scalzarono l’Ancien Regime per imporre il dominio del progresso e della ragione sulla barbarie, finiscono là dove inizia la ridiscussione dell’uomo stesso. Quando, cioè, il termine ‘uomo’ non sta per bianco, europeo, italiano, maschile, ecc. Ossia, sul confine del diritto, quello esterno, tra le due sponde del Mediterraneo, ma anche quello interno, ad esempio tra Italia e Francia. In entrambi i casi l’atteggiamento degli attori istituzionali è indice di politiche schizofreniche, ma anche di una repentina trasformazione del contesto comunitario. Infatti, l’Unione Europea nel 2015 ha stanziato 312 milioni di euro, provenienti dal Fondo europeo di sviluppo, per aiuti al regime eritreo di Isaias Afewerki; lo stesso che ha annullato i diritti nel paese del Corno d’Africa, che è tra le cause prime delle presenti migrazioni. La stessa Unione Europea militarizza le frontiere esterne nei confronti degli eritrei in fuga e, contemporaneamente, si proclama essere l’istituzione maestra per il diritto d’asilo e per l’accoglienza ai rifugiati.
L’altra contraddizione viene dall’interno. I confini tra le nazioni sono stati considerati, fin all’atto fondante dell’Unione e poi negli anni successivi, come luogo di connessione tra nazioni, ma anche quali porte di passaggio all’interno di un medesimo spazio comunitario. Fino a una decina di anni fa le politiche sull’immigrazione – figlie delle leggi sulla cittadinanza di coloniale memoria – erano appannaggio dei singoli stati; ora, invece, è l’UE a parlare di percentuali di richiedenti asilo da distribuire negli stati membri (in base a Pil, popolazione, tasso disoccupazione, numero di richiedenti asilo già accolti, ecc.); ma anche a stabilire, per la prima volta, quali soggetti siano da considerarsi richiedenti asilo: i siriani e gli eritrei, mentre non lo possono essere i somali. A ciò si aggiunga che ogni stato membro che accoglierà un richiedente asilo riceverà 6 mila euro. Questo oblitera le voci del costo pubblico (nazionale) degli immigrati, e conferma, invece, che si tratta di un vero e proprio business che interessa soggetti diversi: quelli istituzionali, quelli privati, come emerso nel caso di “Mafia Capitale”.
E poi si sgomberano i mezzanini delle stazioni di Milano e Roma, si accendono i televisori su razzisti padani (e non) che parlano di persone come bestie, come portatori di malattie e di povertà, con fiaccolate per la legalità che si trasformano in occasioni per chiedere espulsioni e incarcerazioni. Siamo già in guerra, una guerra combattuta a suon di parole e di pratiche, prima che con le armi. “We need to pass!” è il cartello esibito da alcuni eritrei e siriani a Ventimiglia. Parole che leggono la frontiera non solo come passaggio, ma quale futuro collettivo, da determinare su un territorio, come quelle europeo, ad ogni costo.
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