Nessun Bolivar arabo: mentre la regione implode, il socialismo scompare
(di Romana Rubeo)
Tempo fa, un gruppo di studenti mi ha chiesto di parlare del socialismo nel mondo arabo, partendo dalla convinzione che esistesse un movimento in grado di superare i regimi incompetenti e corrotti attualmente al potere nella regione. La verità è che, al momento, i gruppi che si ispirano al socialismo esistono solamente in teoria, ma non di fatto. Ricordo una mia conferenza a Londra, subito dopo l’inizio del blocco imposto su Gaza, dopo la vittoria di Hamas nel 2007. “In Palestina, il movimento socialista più forte e incisivo è Hamas,” dissi, suscitando sorpresa in una parte del pubblico e espressioni di approvazione nell’altra. Non mi riferivo all’adesione di Hamas alla teoria marxista, quanto al fatto che si trattava dell’unico movimento politico attivo e radicato che era riuscito, in qualche modo, a colmare il divario tra le varie classi sociali ed economiche e a unirle nel segno di un programma politico radicale.
Inoltre, era costituito in massima parte da fellahin (contadini) e operai palestinesi, che vivevano per lo più nei campi profughi. Se paragonati alle forze “socialiste” palestinesi, distaccate, elitarie, con una forte connotazione urbana, questo movimento di massa, islamista, attivo nei territori occupati, è quanto di più vicino al socialismo possa esistere, date le circostanze. Ma cosa dovrei rispondere a questo gruppo di studenti, composto di giovani e entusiasti socialisti, in trepida attesa dell’ascesa del proletariato?
Prima di tutto, bisogna specificare che c’è una netta differenza tra il socialismo occidentale e il “Socialismo Arabo”, definizione coniata dai nazionalisti arabi nei primi anni ’50. Si avviò allora un processo di fusione tra i movimenti socialisti e quelli nazionalisti, che portò alla formazione del Partito Baath in Siria e in Iraq. L’idea fu concepita in origine da Salah al-Din al-Bitar e da Michel Aflaq, fondatori del Partito Baath.
Il socialismo, nella sua veste occidentale, non convinceva i nazionalisti. Non solamente perché era avulso dal contesto socioeconomico e culturale dei popoli arabi, ma anche perché appariva politicamente inconcludente e a tratti sciovinista. Molti socialisti occidentali, ad esempio, hanno idealizzato il significato della fondazione dello Stato di Israele, insediamento coloniale che da decenni riunisce le forze coloniali e neocoloniali contro le aspirazioni panarabe. Ma anche il nazionalismo arabo ha fallito, perché non è stato in grado di offrire una valida alternativa e non ha sostenuto attivamente una reale proposta di rovesciamento dei paradigmi esistenti. A parte le riforme agrarie in Egitto attuate nel 1952, dopo la rivolta che rovesciò la monarchia, il Socialismo Arabo non è riuscito a liberarsi dai limiti imposti da un idealismo fine a se stesso e da influenze esterne che hanno cercato di controllarlo, influenzarlo e distruggerlo.
Il fallimento è diventato ancora più evidente verso la fine degli anni ’80, con il declino dell’Unione Sovietica, e poi con il suo crollo definitivo agli inizi degli anni ’90. I socialisti arabi, sia i governi che si definivano tali, sia le organizzazioni che ruotavano intorno alla sfera di influenza sovietica, erano troppo dipendenti da quella relazione. L’uscita di scena dei Sovietici lasciava loro scarse possibilità di sopravvivenza di fronte al dominio crescente degli Stati Uniti.
Il fallimento, tuttavia, non è imputabile solo ai deludenti modelli geopolitici proposti per la regione, ma anche al fatto che i Paesi del Medio Oriente iniziavano a tirarsi indietro, per via dell’influenza, o piuttosto della pressione, esercitate delle potenze egemoniche occidentali. È in questa fase che inizia l’ascesa di un’alternativa di matrice islamica, che nasce dal tentativo di mettere a frutto le risorse intellettuali della regione, ma che è anche incoraggiata dai ricchi paesi del Golfo, che elargiscono grandi quantità di denaro, per avere il pieno controllo su questo fenomeno. Lo slogan “L’Islam è la soluzione” diventa predominante e si insinua nell’immaginario di molti intellettuali musulmani, in Medio Oriente e non solo: appare, infatti, come un tentativo di radicarsi nei riferimenti culturali e storici della regione.
L’argomentazione di fondo è questa: il modello occidentale a guida statunitense e quello sovietico hanno fallito, così come i loro paradigmi di governo, quindi c’è assoluto bisogno di un’alternativa. Il Socialismo Arabo avrebbe potuto sopravvivere, se avesse incentrato la sua azione su ampie piattaforme sociali e se avesse goduto del sostegno di una forte base popolare e di movimenti della società civile; ma le cose sono andate diversamente.
In linea generale, la sinistra nel mondo arabo aveva una forte componente intellettuale, che però è riuscita solo di rado a uscire dal dominio della teoria e delle idee, accessibile solo alle classi più istruite, per confrontarsi con il mondo del lavoro, con quello contadino, con le persone comuni. Senza un’autentica mobilitazione dei lavoratori, degli agricoltori, delle masse oppresse, la sinistra araba non aveva molto da offrire, tranne una retorica sterile e priva di esperienza pratica. Ovviamente, ogni Paese arabo presentava delle eccezioni. I primi movimenti socialisti palestinesi, ad esempio, erano molto radicati nei campi profughi e sono stati protagonisti di tutte le forme di resistenza popolare. Questa situazione, però, può essere spiegata con la singolarità del caso palestinese e non riflette una tendenza più generale nella regione.
Un altro fattore importante da considerare è che i gruppi oppressi tendono a unirsi tra loro, indipendentemente dalle differenze ideologiche che li dividono e che sulla carta possono risultare insormontabili. In effetti, è proprio questo comune sentimento di oppressione che ha avvicinato l’Islam politico e la sinistra radicale, creando una certa affinità tra gli attivisti dei due schieramenti, che condividevano la detenzione, la tortura, le umiliazioni. Ma è il crollo dell’Unione Sovietica, nei primi anni ’90, a rappresentare un punto di svolta. Si assiste allora alla liberazione di un ampio spazio politico, parallelamente a un incremento del flusso di denaro legato al petrolio. Vengono fondate molte università islamiche e decine di migliaia di studenti mediorientali iniziano a ricevere un’istruzione superiore in vari campi, dalla Sharia Islamica all’ingegneria.
Si prenda il caso di Hamas a Gaza. Molti dei suoi leader e membri hanno studiato ingegneria o medicina e questo è un tratto comune tra i militanti di tutti i gruppi di matrice islamica, in Palestina, Egitto, Marocco e altrove. L’egemonia sull’istruzione e l’articolazione del discorso politico non è più appannaggio delle élites politiche e intellettuali. Nel frattempo, si va formando un orizzonte politico fondato sugli ideali islamici.
Con il tempo, i socialisti si trovano ad affrontare una scelta drastica: vivere ai margini della scena politica, incarnando lo stereotipo dell’intellettuale comunista e anticonformista che siede in un caffè del Cairo elaborando speculazioni teoriche in ogni campo; oppure, collaborare con le ONG e con istituzioni ufficiali o semi-ufficiali, per mantenere una certa autonomia finanziaria. I gruppi che hanno intrapreso quest’ultima strada hanno dovuto accettare dei compromessi e, in molti casi, sono diventati portavoce degli stessi regimi che un tempo contrastavano.
Di conseguenza, la spinta propulsiva del potere politico dei socialisti come forza politica è diminuita notevolmente negli anni. Il maggior grado di istituzionalizzazione li ha allontanati da quelle masse di cui pretendevano di farsi portavoce. In Egitto, è difficile individuare, a sinistra, una forza realmente strutturata. Ci sono persone “di area”, che però non rivestono un ruolo attivo nello scenario politico attuale.
Per ridare vita al socialismo nel mondo arabo, non bastano le belle speranze. Non ci sono molti segnali che lascino pensare a un cambiamento di rotta, o che facciano sperare in una variante “locale” di socialismo (si pensi al successo del movimento “bolivariano” in Sud America), in grado di fondere gli ideali socialisti alle priorità nazionaliste. Ma il Medio Oriente sta attraversando il più grande cambiamento politico degli ultimi cento anni, e anche il socialismo potrà avere un suo ruolo. Sebbene il presente non sia roseo, il futuro sembra ricco di opportunità.
*Ramzy Baroud – www.ramzybaroud.net – è un giornalista di fama internazionale, media consultant, autore di diversi libri e fondatore del PalestineChronicle.com. Attualmente, sta ultimando il dottorato di ricerca presso la University of Exeter. L’ultimo libro si intitola “My Father Was a Freedom Fighter: Gaza’s Untold Story” (Pluto Press, London).
da Nena News
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