Pacchi roventi
A essere sinceri, riesce difficile parlare del libro di Fulvio Massarelli, Scarichiamo i padroni, Lo sciopero dei facchini a Bologna. E soprattutto riesce difficile inquadrarlo in una sola dimensione narrativa. Difficoltà del recensore, sia chiaro; perché il lavoro di Massarelli, ricercatore indipendente e redattore del network antagonista InfoAut, punta proprio a tenere dentro le analogie che hanno contraddistinto le lotte e le vertenze della Tnt e dell’Ikea di Piacenza, con le battaglie bolognesi contro Legacoop e Granarolo. Un esperimento narrativo che mette sul tavolo numerosi spunti di riflessione, costruiti dopo aver stretto legami di solidarietà e reciproco rispetto ai picchetti notturni, alle manifestazioni, tra manganellate, denunce e anche tante soddisfazioni. Sì, perché le vertenze che si sono aperte nelle diverse aziende del comparto logistico italiano, sono oggi non solo i nodi di lotta più avanzati presenti sul territorio nazionale, ma anche quelle che hanno riscosso maggiore consensi e vittorie di merito. Situazioni di schiavismo legalizzato (turni anche di 12 ore, retribuzione sotto le soglie minime sindacali, nessun diritto di concertazione e assunzione appaltata a cooperative che agiscono da caporale) che hanno rafforzato legami di solidarietà tra lavoratori, per lo più migranti del Maghreb e dell’Africa subsahriana che hanno poi incontrato non solo la determinazione del sindacato S.I. Cobas ma anche l’appoggio politico e militante delle stretture antagoniste bolognesi.
“Le vicende piacentine sono state una sorta di enzima che ha innescato un processo di lotte anche nel bolognese” spiega Marco, attivista del Laboratorio Crash di Bologna a cui l’autore ha lasciato uno spazio di commento nell’appendice finale. “A Bologna la vertenza Granarolo è stata il detonatore che ha permesso a studenti, disoccupati, migranti e precari a vario titolo di incontrarsi, organizzarsi e sperimentarsi su un terreno di lotta tutt’altro che scontato. La forza di quest’esperienza è stata quella di non coagularsi intorno ad un’unica soggettività, a un unico protagonismo, ma fondere le differenze per stabilizzare la lotta, anche se il segmento migrante di classe che abbiamo conosciuto è senz’altro tra i più disponibili a battagliare per i propri diritti”.
Le pagine del libro offrono infatti numerose testimonianze dirette dei lavoratori che hanno partecipato alla lotta. “Sei straniero e tutti pensano che vieni a rubare lavoro agli italiani. Anche nel magazzino il contratto era di otto ore al giorno, ma ne lavoravo minimo tredici, perché ti obbligavano 48 a fare gli straordinari. In busta prendevo 7 euro l’ora e in un mese ne facevo più di duecento ore, per guadagnare, quando andava bene la miseria di 800 euro. “Per il lavoro che fai questi soldi bastano e avanzano. Se non ti va bene licenziati” dicevano a chi si lamentava”, racconta Rachid, marocchino, in Italia da 17 anni. “Ero convinto che qui si vivesse bene, ma in Italia le condizioni di lavoro sono peggio del Bangladesh. Fare il facchino è un lavoro duro: caricare e scaricare camion e container senza sosta” racconta Monzoor Alam, bangladese 29enne. “In magazzino il mio tempo lo passo nelle celle frigorifere, senza nemmeno i vestiti adatti, perché la cooperativa non ci dà scarpe, giacche e pantaloni è […] Per un facchino ammalarsi è normale, in magazzino c’è sempre qualcuno che ogni giorno si fa male: scendi dal muletto, inciampi; perdi il ritmo e ti cade un pacco addosso. Se rimani a casa, l’infortunio non è pagato”.
Testimonianze che hanno anche il merito di riportare alla luce le angosce e i drammi del lavoro materiale, ancora vittima di parametri di sfruttamento fordisti e di una diffusa pregiudiziale politica che ne aveva diffuso con frettoloso anticipo l’annuncio di scomparsa. Il settore logistica è invece un impero strategico per il capitale mondiale: la mobilità delle merci, la filiera produttiva di trasporto di bene primari. Anche per questo, forse, la lotta dei facchini è stata repressa con durezza non solo dai manganelli ma anche dalla magistratura.
Centinaia di denunce che però, a fine luglio, hanno dato i frutti attesi. “Oltre ad aver ottenuto miglioramenti salariali e delle condizioni materiali di lavoro, Legacoop e Cogefrin (consorzio di cooperative di facchinaggio) hanno firmato un protocollo in Prefettura, dove, tra le altre cose, si impone il ritiro delle denunce e la richiesta di risarcimento che sfiorava i due milioni di euro. Tuttavia non cantiamo vittoria, queste firme non bastano. Continueremo a vigilare” insiste l’autore, che sulla centralità di queste lotte aggiunge: “per troppo tempo siamo stati abituati a vedere contrapposte le realtà del lavoro materiale e immateriale. Io dico di ripartire con umiltà dai cantieri di inchiesta, di evitare sterili e infruttuose contrapposizioni. Riprendiamo gli esempi di Montaldi e Alquati, carichiamoci di sete di conoscenza e facciamo inchiesta. Questo può essere il modo giusto per ripartire”.
Di sicuro, dopo altri esperimenti editoriali fatti alle latitudini di movimento, anche il lavoro di Massarelli sembra andare nella giusta direzione di rimettere al centro del discorso politico la contraddizione capitale/lavoro, con la consapevolezza di non essere più solo avanguardie autosufficienti ma al contrario frammenti di un senso comune, di classe, da ricostruire e riportare alla ribalta.
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