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Pandemia, economia e crimini della guerra sociale. Stagione 2, episodio 1: la schiuma

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Continuiamo a riprendere contributi al dibattito sulle piazze di questi giorni apparsi in rete. Buona lettura!

di Sandro Moiso, Maurice Chevalier e Jack Orlando da Carmilla

 “L’unico attore sociale che ancora mancava nella crisi più clamorosa della modernità è dunque arrivato in scena, presentandosi a Napoli: è il ribellismo che scende in piazza […] contro tutto, la Regione, il governo, le regole, la prudenza, la paura, in quanto è fuori dal sistema, alla deriva in un luogo sconosciuto della politica dove anche il contratto tra lo Stato e i cittadini pare non avere più valore […] Come Napoli ha anticipato, qualcuno fa i conti con il costo di questa emergenza infinita, questa precarietà permanente, questa instabilità costante, scopre che il costo è alto almeno quanto il rischi del contagio, e presenta il saldo al potere. Ognuno ha il suo conto privato da protestare sul tavolo del governo, non c’è al momento una cambiale nazionale da far scadere in piazza, dunque non c’è un disegno unitario capace di raccogliere i diversi reclami, trasformandoli in una ‘causa generale, quindi in un’occasione politica. […] Così i ragazzi che pedalano sulle biciclette delle consegne a domicilio si trovano accanto in piazza i pizzaioli che temono la chiusura, i disoccupati dei Bassi, le badanti, i venditori di souvenir a cui hanno chiuso i banchetti nei vicoli: ognuno con una rabbia distinta di categoria, con una rivendicazione peculiare di mestiere, con un credito di lavoro specifico, in una collezione di risentimenti separati uniti soltanto dal momento della ribellione. […]
Un elemento unificante in realtà esiste, ed è la delusione generale per i buchi che ognuno scopre ogni giorno nella copertura sanitaria di base […], oltre ai mezzi pubblici sovraffollati che trasportano infezione. La sensazione è quella dell’abbandono per il cittadino lasciato solo, […] mentre il potere pubblico – Stato e Regioni – ha sprecato l’estate in uno scaricabarile di responsabilità che è un’altra conferma della scomposizione del Paese, a partire dal potere pubblico”.

Chi è a scrivere queste parole? Un estremista esponente dei centri sociali o dell’ultradestra? Un camorrista interessato a diffondere l’ordine criminale sui territori? No, è l’ex-direttore del quotidiano la Repubblica, sulle pagine dello stesso, nell’editoriale di lunedì 26 ottobre: Il virus della ribellione. Un articolo che manifesta in maniera piuttosto esplicita il timore dell’establishment nei confronti di una rivolta generalizzata, come ha già ventilato la ministra degli interni Lamorgese e come il governo ha già cercato di anticipare non solo con l’uso delle forze dell’ordine distribuite sulle piazze, certo non soltanto per impedire la movida (vista la chiusura anticipata dei bar dei locali di ritrovo alle ore 18), ma anche con ciò che il Dpcm del 25 ottobre prevede in tema di manifestazioni pubbliche: ovvero il permesso per le manifestazioni statiche (sit-in) e il divieto per tutte quelle mobili (cortei).

L’ex-direttore del quotidiano nazionale non viene poi meno al suo ruolo insinuando, anche contraddittoriamente, che le proteste sono «sfruttate dalla camorra che nel declino dell’economia ufficiale vede crescere la sua economia parallela e il mercato dell’usura».
Rimuovendo così il fatto che è proprio nella povertà e nella miseria estrema, che i farlocchi provvedimenti anti-virus potrebbero provocare, che questa potrebbe prosperare molto meglio che contribuendo a rinvigorire le proteste. Ma sono ormai abituali le rimozioni del mondo reale dal discorso mediatico, mentre il solito Roberto Saviano, pur parlando di Napoli come esempio della «disperazione del Sud che sta scoppiando», non rinuncia comunque a sottolineare gli interessi criminali che potrebbero stare alle spalle delle proteste.

Non stupisce che Saviano, l’informazione e i media istituzionalizzati, le forze politiche parlamentari tornino a rispolverare le tesi sugli infiltrati, la criminalità e l’estremismo senza volto, insieme a quella sinistra che, in quasi tutte le sue smorte gradazioni di opinione e colore (dal rosa pallido al rosso spento), assume lo stesso atteggiamento, sventolando il pericolo rappresentato dagli utili idioti di Casa Pound e Forza Nuova (utili tanto alla Destra che alla Sinistra per poter urlare al lupo) indicandone il presumibile coinvolgimento nelle manifestazioni, per allontanare da sé lo spettro della rivolta (che ancora una volta si aggira per l’Italia e per l’Europa) e poter continuare a dormire sugli allori delle sconfitte passate e non doversi assumere alcuna responsabilità politica.

Stupisce invece come anche all’interno dei movimenti, tra tante singole soggettività che pure proprio per le esperienze vissute non dovrebbero avere dubbi sul solito schema dei buoni e cattivi, si sia aperto un dibattito particolarmente presente in rete, come già avvenuto con i “gilet jaunes”, che fa propria la propaganda mediatica e delle anime belle della sinistra, che ripropone la solita minestra riscaldata sulla violenza o si scandalizza perché i giovani hanno attaccato e si sono impadroniti delle merci, come a Torino, di Gucci, dell’Apple Store e del negozio Geo e non dei beni di prima necessità, come ha dichiarato un noto intellettuale torinese in un intervista al quotidiano La Stampa : «Rappresenta una novità per una città che ha conosciuto grandi momenti di rivolta, ma mai con l’accaparramento di merce di lusso. Sarebbe una corruzione della storia».

Nelle rivolte, la composizione delle piazze e delle lotte non la si può certo definire a tavolino: non lo si poteva fare negli anni ’70, quando l’organizzazione di cui lo stesso intellettuale faceva parte fu invece tra le prime a cogliere la novità delle rivolte di Reggio Calabria, nelle carceri oppure per la casa e le occupazioni di massa che ne seguirono1, e non lo si può fare oggi quando i fermati e gli arrestai minorenni, di Milano soprattutto, ci parlano in maniera meno formale e forbita del livore delle periferie.

 Periferie che da Torino, città con uno dei tassi più alti di povertà in Italia, a Milano, fino a Parigi e a Filadelfia, ci raccontano oggi la medesima storia: l’impossibilità di rappresentarne il disagio reale per tutte le forze politiche tradizionali e l’inevitabile esplosione che ne consegue. L’emarginazione economica e sociale delle aree suburbane, nonostante le belle parole spese, è molto più fuori controllo del virus2 e questo fa davvero paura perché le manifestazioni di questi giorni sono probabilmente soltanto l’antefatto di quelle che verranno, quando la “vera classe operaia”, di cui molto si ostinano a parlare senza più conoscerla, sarà risvegliata dal suo torpore dalla fine dei fondi destinati alla cassa integrazione (il 31 gennaio 2021) e del blocco dei licenziamenti. Forse è per prevenire questo che il governo e tutti gli apparati dello Stato e dell’informazione stanno già cercando di giocare d’anticipo criminalizzando il dissenso, nelle teste e nelle piazze. Anche se è chiaro ormai per tutti che il problema sociale è ormai globalizzato. Specialmente in Europa, dove il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, in un’intervista, sempre a La Stampa, alla vigilia del vertice in videoconferenza fra i 27, ha potuto affermare che : “La Ue deve agire compatta per evitare disordini e rivolte sociali”.

L’ineffabile direttore di un Tg serale, martedì 27 ottobre, ha avuto almeno il merito di dire ciò che tutto questo mondo di benpensanti, così compassionevoli con i migranti quando non si ribellano oppure affogano in silenzio e con i poveri quando mendicano un lavoro qualsiasi o un tozzo di pane, pensa realmente di ciò che sta avvenendo e del protagonismo giovanile, spesso di immigrati di seconda generazione, nella ribellione delle periferie: si tratta della “schiuma”, ha detto rivolgendosi ai telespettatori per introdurre le notizie riguardanti le proteste. Separando, naturalmente, quelle pacifiche dei tassisti e dei proprietari dei bar e dei ristoranti da quelle dei disoccupati e dei lavoratori impiegati nelle stesse aziende che, a differenza dei loro datori di lavoro, non potranno certo godere dei ristori promessi dal governo.

Ma vediamo insieme cosa sta avvenendo. Come nella prima fase3, anche ora è proprio da Napoli che è iniziata la lotta, con la manifestazione serale di venerdì 23 ottobre in cui è esplosa la rabbia della città.
Il giorno dopo, nel pomeriggio, sempre a Napoli, c’erano cassaintegrati, disoccupati, operai degli stabilimenti di Pomigliano e della Whirlpool e molti altri, giovani o meno, pesantemente toccati e danneggiati dalla crisi e dai provvedimenti governativi. Che tutto ciò faccia paura al Governo, a Confindustria, ai media asserviti così come anche alle confederazioni sindacali della Triplice è nel normale gioco delle cose. Soprattutto la mancanza di una rappresentanza unica collettiva con cui sia possibile trattare e mediare, ma per caso non è che anche alla sinistra zombificata faccia altrettanto paura?

I giorni successivi hanno visto una mobilitazione dal sud al nord di tutto il paese e le manifestazioni di Torino e Milano, dove la rivolta è esplosa con una forte presenza di giovani, in particolare delle periferie urbane senza futuro, con pratiche di riappropriazione delle merci in Via Roma, la via del lusso torinese, e con la determinazione di attaccare i simboli della politica come a Milano il grattacielo della regione Lombardia.

 I manifestanti di Milano, definiti come “uno sciame di vespe che pungeva dove capitava” da un investigatore di lungo corso4 costituiscono forse il più chiaro esempio di ciò che sta avvenendo ai margini della narrazione del mondo ufficiale. Tra i 28 fermati ci sono infatti 18 italiani e 10 stranieri, di cui 13 minorenni. Tutti provenienti dalla periferia di via Padova, via Porpora o dall’hinterland fin da Cernusco sul Naviglio. Più che chiedersi chi ha organizzato o infiltrato quelle centinaia di ragazzi e ragazzini, lo Stato e i suoi apparati dovrebbero forse chiedersi cosa ribolle nella pentola sociale di cui si finge di ignorare, o forse proprio si ignorano, le necessità e i bisogni. Non risolvibili soltanto sul piano della cultura con cui, troppo spesso, politici ed intellettuali si sciacquano la bocca non sapendo cos’altro proporre oppure non riuscendo nemmeno ad immaginare altre soluzioni che non siano quelle legate alla repressione e all’emarginazione economica e sociale.

A rafforzare questa ipotesi c’è il fatto che su Tik Tok, Instagram e altri social tipicamente giovanili stanno rimbalzando le immagini degli scontri di Torino e Milano, con l’indicazione a replicarli ovunque. Indicazione che non arriva da qualche soggetto politicizzato, ma proprio da quei giovani che tanto i cosiddetti boomer quanto i compagni, attribuivano paternalisticamente ad una gioventù disinteressata, passiva e irrecuperabile, mentre invece questi hanno colto il dato assolutamente politico di quei riot e si sono identificati nei loro simili. Inizia così ad emergere un nuovo soggetto politico, i cui contorni sono ancora invisibili, anche se probabilmente saranno ben più radicali; non perché fanno gli scontri e i saccheggi, ma perché sono i veri figli della catastrofe neoliberista e non possono nemmeno rivendicare la delusione del futuro negato. Non lo hanno mai avuto il futuro e il loro presente è assai più crudo di quello che le generazioni precedenti dei trentenni e quarantenni hanno vissuto.

 Nelle piazze di Napoli, e in tutte le altre, c’è tutto e il contrario di tutto, le istanze sono reazionarie e comuniste allo stesso tempo, le distinzioni di destra e sinistra nello sguardo comune sono azzerate (certo, se uno si presenta esplicitamente facendo saluti romani e dicendo di essere di Forza nuova, la distinzione si fa un po’ troppo palese e il gioco non dura), così come le divisioni di classe: abbiamo fianco a fianco imprenditori (piccoli, medi o grandi non è qui importante) con lavoratori subordinati. E’ ovvio che le condizioni e le istanze siano differenti per ciascuno e siano in contraddizione, nonché pongano un serio problema: ovvero quello dell’egemonia piccolo borghese (come mentalità non come classe) che spinge in direzione di un orizzonte di immaginario e rivendicazione assolutamente lavorista e corporativista. Questo è per ora un pericolo da scongiurare, ma non per questo ci si può esimere dal comprendere come una delle novità del movimento attuale sia proprio costituita dalla convivenza tra soggetti e rivendicazioni del tutto incompatibili fino a ieri.

L’antagonismo, nella maggioranza dei casi, è arrivato in ritardo al suo appuntamento con la storia (o forse non ci è arrivato proprio), non perché non ha chiamato per primo alle piazze, né perché non ha saputo rispondere al lockdown di marzo, ma perché sono vent’anni almeno che ha smesso di accarezzare il sogno dell’assalto al cielo e della resa dei conti con il nemico storico.
Si tratta quindi, per chi vuole comprendere il presente andando oltre i limiti del Novecento, di essere attenti a queste lotte, a questa tendenziale rivolta generalizzata con cui i discorsi liberal progressisti, il neo-togliattismo, le camarille politiche non hanno più nulla a che spartire, per poter affrontare una questione urgente e profonda: quella della ricomposizione di un soggetto sociale e politico, nemico del presente, che non può più essere riassunto soltanto in facili formule sociologiche e politiche.

 Questo possibile movimento non uscirà vincitore conquistando un palazzo d’inverno ormai ridotto a rudere, ma soltanto quando sarà emersa una nuova generazione di ribelli e rivoluzionari, una nuova modalità della politica che abbia al suo centro non la vittimità, ma la volontà di potenza collettiva.
Forse è vero che a manifestare in maniera più radicale il proprio scontento e disagio sia oggi la schiuma, ma non quella immaginata dai benpensanti dell’informazione e della politica, ma piuttosto quella della Grande onda di Kanagawa dipinta da Katsushika Hokusai nel 1831.
Quella di uno tsunami che potrebbe travolgere il modo di produzione vigente, perché, proprio come per i veri tsunami, ha origini telluriche profonde nei movimenti della tettonica a zolle sociale, che nessun congiurato o infiltrato potrà mai davvero mettere da solo in movimento e che mai nessuna barriera di contenimento o repressiva potrà mai definitivamente impedire.

1) Era l’epoca dello slogan, lanciato da Lotta Continua nell’autunno del 1970, Prendiamoci la città! 

2) Come anche il magnifico film I miserabili di Ladj Ly (qui https://www.carmillaonline.com/2020/08/26/i-dont-live-today-2-la-guerra-nelle-periferie/ ) dovrebbe aver insegnato anche ai ciechi intellettuali che pur si riempiono la bocca delle parole cultura e cinema 

3) Fu proprio a Pomigliano che, il 10 marzo scorso, iniziarono quelle agitazioni operaie e quei blocchi della produzione che costrinsero, almeno formalmente, il Governo a dichiarare un fermo di tutte le attività produttive. E fu proprio da Pomigliano che iniziarono le ribellioni e gli scioperi spontanei che poi si diffusero al resto delle fabbriche d’Italia, soprattutto in Piemonte e Lombardia 

4) I. Carra, Milano scopre i suoi ragazzi della banlieue. “Uno sciame di vespe”, la Repubblica Milano, 28 ottobre 2020 

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