Il tempo delle rivolte
Anche qui come altrove nel mondo occidentale la democrazia sembra assumere le forme di un sistema ambiguo e vuoto di prospettive. Pare che la società contemporanea non abbia più bisogno delle garanzie della democrazia, anzi una democrazia autoritaria e armata pare lo strumento più efficace per dare forza all’accumulazione capitalista.
di Marco Sansoè da Volere la Luna
La precarizzazione del lavoro, la frammentazione della società, le piazze digitali dei social media, le piazze fittizie dei centri commerciali, la gentrificazione delle città, i sistemi di videosorveglianza, tracciamenti telematici e Big Data, il daspo e i divieti preventivi alle manifestazioni politiche sembrano le normali pratiche di gestione della vita quotidiana dei cittadini: strumenti per il controllo personale, politico e sociale. La politica appare lo strumento di gestione di piani economici globali internazionali oppure l’operatrice del controllo sociale ravvicinato. Esibizione autoreferenziale di un potere che risponde a interessi economici diversi e si riproduce attraverso un consenso elettorale sempre più ristretto ma garantito dalle alchimie istituzionali dei premi di maggioranza.
Da qualche tempo partecipa alle elezioni poco più della metà degli aventi diritto; governano coalizioni che non rappresentano la metà +1 degli elettori, perché le leggi elettorali attribuiscono ai vincitori più peso parlamentare di quello che gli è stato dato dai cittadini. La coalizione che governa oggi in Italia non ha ottenuto il 50%+1 dei consensi ma occupa 2/3 del Parlamento; il partito di maggioranza relativa ha ottenuto più o meno il 16% dei consensi degli aventi diritto al voto, ma occupa un terzo circa dei seggi parlamentari. Se questi sono “i trucchi” per tenere in vita la democrazia rappresentativa è evidente che c’è qualcosa che non va. Se poi al Parlamento vengono sistematicamente sottratte le proprie funzioni, impedendo che sia il luogo della discussione e del confronto sulle leggi, relegando la discussione alle Commissioni parlamentari e ricorrendo poi al voto di fiducia (come sta avvenendo da molto tempo), di quale democrazia rappresentativa stiamo parlando?
La politica si avvita su se stessa, si associa, si separa, si mescola, si traveste con il solo obbiettivo della governabilità. Ha perso l’orizzonte del progetto di trasformazione o anche solo di riforma, si addestra esclusivamente alla gestione del compito prestabilito, che passa uguale di governo in governo, dando vita a un’oligarchia, solo in superficie multiforme, presente a vari livelli nelle istituzioni politiche, economiche e giudiziarie. Così la tecnica sostituisce la politica perché il suo compito è solo quello di soddisfare le compatibilità del sistema: la libertà del mercato, la competizione, la meritocrazia, l’identità nazionale, la fedeltà atlantica; e di far rientrare nei ranghi ciò e chi sta fuori, per mantenere intatto il quadro generale. Non serve nemmeno più lo sforzo di produrre una ideologia che giustifichi tutto questo, ci pensa il mercato con la sua forza di persuasione e il potere pervasivo dei media digitali. La politica è morta, sostituita da un meccanismo di comando che discende direttamente da quelli che vengono considerati gli interessi del sistema. Il popolo non è più il fondamento della democrazia, è una variabile dipendente dalle scelte dominanti, espresse da una vasta oligarchia senza cultura, omologata e modulare.
La crisi dei partiti ha aperto la crisi della democrazia rappresentativa: un processo irreversibile che ha bisogno di risposte coraggiose. Ormai sono molti quelli che pensano che l’unico “voto utile” sia quello di non andare a votare. Una decisione sofferta, soprattutto per chi crede nella forza culturale e politica della nostra Carta costituzionale, ma necessaria. Un ultimo grido di dolore e di rivolta nei confronti della politica così come si manifesta nei palazzi diffusi nel paese, nei quali si esercita in vario modo il potere.
Si deve avere il coraggio di dichiarare che si è chiuso un ciclo storico, quello nato dalla Rivoluzione francese, che ha dato vita ai partiti, alle istituzioni democratiche, alla democrazia rappresentativa. La politica deve essere riscritta, non può più essere intesa come uno strumento o una pratica di gestione del potere. Bisogna ricercare, con rigore e fantasia nuove forme di democrazia e percorrere strade, anche inesplorate, che possano garantire la democrazia attraverso la partecipazione dei cittadini alla vita politica. Ma non ci sono tavoli intorno ai quali si possa ricomporre un nuovo disegno democratico o ricostruire coalizioni politiche. Solo la pratica dei conflitti, capace di tenere insieme persone, bisogni e territori, può aprire spazi alla costruzione di nuove pratiche democratiche partecipate e disarmate. Solo le rivolte possono mettere fine al declino della democrazia e dare spazio ad esperienze capaci di riscrivere i contorni della politica. Ma le rivolte non si programmano, non hanno luoghi in cui si decidono, non hanno “gruppi dirigenti” né “avanguardie” che le guidino. Le rivolte stanno dentro le classi, dentro i gruppi sociali che vivono una comune condizione, che hanno un desiderio e/o uno scopo. Si possono mettere insieme le persone, averne cura, comprendere le condizioni comuni, far crescere i desideri, condividere le esperienze, praticare la critica della società contemporanea, dare vita ai conflitti, aprire vertenze, lottare, dare corpo alle rivolte. Questo si può fare. I tempi della politica che cambia sono lunghi, non hanno scorciatoie, sono da inventare, saranno difficili.
In homepage Honoré Daumier, La rivolta, 1860, olio su tela, Phillips Collection, Washington
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