Cosa ci dicono le banlieue…
Quello che sta succedendo in Francia rende più esplicito il ruolo dello Stato e del suo apparato militare all’interno degli agglomerati urbani. Utilizziamo questi giorni di fuoco francesi e le analisi di chi li osserva da un punto di vista critico per andare più in profondità su alcune questioni.
Gli omicidi a sangue freddo di giovani ragazzi delle banlieue, come Nahel, sono la punta di diamante di un sistema consolidato di dominio – seppure ad intensità diverse – che ci sembra avere le stesse radici e gli stessi dispositivi quotidiani dei sobborghi di Ferguson, delle banlieue parigine come Nanterre e le periferie delle metropoli italiane.
La polizia occidentale, così come il carcere, sembra stiano assumendo sempre di più un ruolo sostitutivo del welfare statale e in queste vesti si rivela sempre più violenta. Diversi sono gli esempi a sostegno di questa tesi.
Gruppi organizzati intorno all’abolizionismo del PIC (Prison Industrial Complex) come Critical Resistance1 ci hanno raccontato, in un’iniziativa tenutasi alla Sapienza pochi mesi fa, il ruolo del carcere negli Stati Uniti. Di fatto i reati diminuiscono ma le carcerazioni aumentano (questo avviene anche in Italia). Il carcere è un business ed è un luogo dove finiscono coloro che hanno bisogno di assistenza sociale e di sussidi per vivere. E’ diventato un luogo in cui rinchiudere le persone povere e su cui lucrare grazie anche a importanti finanziamenti statali. Non a caso, le carceri private statunitensi – anche se lentamente – sono un modello a cui molti dei paesi europei protendono.
Nelle nostre periferie la presenza della polizia e gli interventi quotidiani giustificano il ridimensionamento delle politiche sociali e abitative, l’assenza di interventi strutturali sulle case popolari, la mancanza di servizi di prossimità. La narrazione tossica secondo la quale la presenza della criminalità e delle mafie esige un intervento quotidiano di ripristino dell’ordine pubblico e della sicurezza se da un lato consolida la presenza costante della polizia, dall’altro costruisce una visione pubblica dei quartieri di periferia stigmatizzante. Complice non solo la stampa ma anche il cinema o serie tv . Si crea un immaginario collettivo che si autoalimenta. I ragazzi che abitano nelle periferie si vedono descritti come criminali e alle stesse serie si riferiscono per costruire la loro immagine e la loro identità. Questo tipo di immaginario però convince tutti, anche chi vi abita pensa spesso che i diritti basilari di cui vengono privati in fondo sono immeritati. Un abitante di serie b non può che essere destinatario di servizi, quando presenti, di serie b, di attese e file infinite, di scuole di bassa qualità, di lavori degradanti e poco remunerativi, di scarsissima possibilità di emancipazione e mobilità sociale.
La criminalità e la mafia in Italia viene usata come il fondamentalismo islamico viene usato in Francia. Questo vuol dire che non esiste criminalità? No, questo vuol dire che non possiamo osservarci dal punto di vista della polizia e di chi ci domina. La mafia in Italia è un prodotto di un’unità nazionale forzata e anche la sua capacità di insinuarsi negli spazi metropolitani2 è frutto dell’attuale ritiro dello Stato e del trionfo del mercato su di esso. L’aumento della criminalità corrisponde alla deindustrializzazione del nostro paese e allo smantellamento delle conquiste che il conflitto all’interno della fabbrica si era ottenuto. La perdita della centralità della fabbrica non vuol dire però che è scomparsa l’industria e l’operaietà – non siamo noi ad averlo argomentato – anzi è proprio all’interno di questi quartieri che si trovano sacche di forza lavoro impersfruttata con buona pace per chi insiste sul fatto che le periferie e i territori non hanno niente da dirci.
La violenza istituzionale è corroborata dalla polizia ma il carattere punitivo e carcerario è intriso nelle politiche pubbliche. Mancate residenze, sgomberi, negazione di permessi di soggiorno, case famiglia, quasi come un carcere diffuso. Nella direttiva del sindaco di Roma Gualtieri che va in deroga all’art.5 della legge Renzi-Lupi del 20153, si specifica che chi ha una condanna al secondo appello, nemmeno in via definitiva, quindi, per reati che vanno dall’associazione a delinquere al semplice spaccio non ha diritto ad usufruire della deroga quindi ad avere una residenza nel luogo in cui si abita (!). Dunque molti di coloro che abitano nelle periferie verranno esclusi dal provvedimento. Il permesso di soggiorno è legato a meccanismi di merito per quanto riguarda il lavoro e la condotta personale. Le occupazioni abitative sono punite con ammende e – grazie a Salvini – è diventato un reato penale. I ragazzini vengono portati via alle famiglie come fossero dei criminali. Prelevati dalla polizia portati in altre città e costretti a non sentire i familiari per settimane. Durante questa esperienza traumatica bambini di 9/10 anni usano questo linguaggio: “mi liberano prima dell’estate”, “ho il permesso due giorni a settimana per tornare in quartiere”. Di fatto socializzano le persone al carcere fin dall’infanzia. Le politiche sociali assumono il linguaggio carcerario e dei tribunali e le amministrazioni si sostituiscono all’apparato giudiziario dietro il quale nascondono le loro inadempienze. Quando non vogliono intervenire – in difesa degli interessi della rendita – su un problema come l’emergenza abitativa o la dispersione scolastica si nascondo dietro a concetti inconsistenti come illegalità e trasparenza costruendo ad hoc canali premiali di accesso ai servizi e ai diritti.
Mathieu Rigouste4 ci parla di endocolonialismo e di segregazione socio-razziale. C’è una sorta di colonialismo interno in Francia5. Come viene applicato nelle colonie ed ex-colonie viene applicato dallo stato nelle sue periferie e ai danni delle soggettività in essa segregate. Rigouste e anche Bugliari Goggia6, inoltre, delineano il meccanismo di questo rapporto e le ragioni di classe della segregazione spaziale. All’interno delle banlieue la socializzazione all’odio nei confronti della polizia è un elemento di unione e solidarietà. I momenti in cui si arriva a saturazione sono politici e organizzati non hanno niente a che fare con la violenza indiscriminata raccontata dai media e di LeBoniana interpretazione. Più la violenza della polizia è esplicita e marcata più si instaurano legami di solidarietà e appartenenza.
Macron al terzo giorno di esplosione delle rivolte accusa i social network, per il presidente sono colpevoli di diffondere immagini sbagliate. Grazie a questi mezzi, invece, dalle primavere arabe fino al movimento dei Blacks Live Matter la popolazione ha potuto svelare la verità, riprendere i pestaggi e gli omicidi della polizia, divulgare la violenza di Stato; dichiara, inoltre, che la polizia non è il problema, anzi, ha inviato circa 45.000 uomini a sedare le rivolte; infantilizza le proteste dichiarando che la maggior parte dei fermi riguardano giovani dai 12 ai 19 anni e chiede ai genitori di tenere a casa i figli. Invece, il sindaco di Nanterre afferma che non ci sono canali di comunicazione attivi con i manifestanti per calmare le rivolte; non ci sono capi, non ci sono sindacati, se non i boss dei quartieri. Ancora una volta si rimanda alla criminalità e all’illegittimità politica delle proteste.
Ci sembra, in realtà, quella scoppiata nelle strade di tutte le principali città francesi una violenza politica più che legittima che non ha niente di estemporaneo o legata esclusivamente all’omicidio di Nahel. E’ una violenza accumulata nel quotidiano che ritorna al mittente.
Quando non è politica, la violenza capitalista e patriarcale che riceviamo in tutte le sue forme più o meno esplicite purtroppo spesso è sfogata internamente ed è quello che succede il più dellle volte alle nostre latitudini. Omicidi, femminicidi, pestaggi, dilagazione delle tossicodipendenze sono la conseguenza delle violenza istituzionale sempre più estrema che subiamo. E’ la reazione masochista all’oppressione esercitata sulle nostre vite. Quando la violenza è politica non è diretta sui nostri familiari e conoscenti, dentro le mura domestiche, attraverso l’autodistruzione e l’isolamento, è diretta verso chi ne è responsabile. E’ coscienza e consapevolezza di cos’è quella violenza, del perché arriva e da dove arriva. I banlieusard la nominano: è la polizia, è Macron, è lo stato. Nominare il nemico è politico.
Il governo Meloni si inserisce bene su un solco già tracciato in questo senso dai passati governi. Si inserisce esasperando queste condizioni, eliminazione del Rdc, riaffermazione del ruolo della madre e dell’importanza della natalità, leggi securitarie e proibizioniste. Ma mentre Meloni è esplicitamente riferita ad una tradizione politica autoritaria, Macron la applica da anni e questo ci da la tara del viramento a destra dei paesi dell’Europa e dell’Unione Europea stessa. In questi giorni di protesta imperversa una frase nei post in giro per la rete, parafrasendo Brecht: “le fascisme n’est pas le contraire de la democratie, mais son evolution per temps de crise”.
Le proteste francesi di questi anni ci raccontano anche di un uso sempre più violento della polizia per fermare il dissenso anche nelle manifestazioni dei gilet gialli, contro la legge sul lavoro, la riforma delle pensioni e dei movimenti ambientalisti. Morti, feriti, mutilati uso di proiettili di gomma e granate stordenti, mezzi corazzati. La polizia spara. Ecco perché oggi interrogarsi sul ruolo della polizia, della repressione, dell’uso e abuso di leggi speciali o di dispositivi come il 41bis non è un modo per renderci edotti di ciò che già evidente è o per piangerci addosso, è una modalità di governare che riguarda i sindacati dei lavoratori tanto quanto chi abita nelle periferie. Un foglio di via per occupazione abusiva non è poi così differente da uno per aver difeso la propria terra. Sono entrambe due lotte di resistenza al capitalismo della crisi.
Ci pare, quindi, che il nostro rapporto con le proteste non sia solo una questione di postura ma di quanto approfondiamo il nostro sguardo sul particolare e quanto ne allarghiamo conseguentemente la prospettiva sul generale. Sembra, infatti, sempre più necessario orientarsi su dimensioni diverse da quelle a cui siamo abituati non delineate dai confini nazionali ma pensando a sacche di territori resistenti che siano a Roma come a Parigi o in Tunisia. Forse dovremmo pensarci arcipelaghi non come paesi. C’è una guerra esterna e una interna o c’è una sola grande guerra?
Ci sono geografie da reinventare per immaginarsi possibili scenari di emancipazione collettiva? La periferia romana può essere molto più simile a quella di San Paolo del Brasile e avere riferimenti diretti alle banlieue parigine, la Val Susa molto più simile a San Soline, via di Salone agli hub della logistica di Prato più che al resto della metropoli? Cutro avrà più tratti in comune con la città di Pylos nel sud del Peloponneso dove sbarcano e muoio centinaia di persone inghiottite dal mare ogni anno che al resto della nostra penisola? La Francia, forse, non può essere poi così tanto un altro paese.
Note:
1 – Gruppo che si è rafforzato con le rivolte attorno alla morte di George Floyd – anche lui ucciso dalla polizia come centinaia di neri americani – e alle proteste del movimento Balck Lives Matter. https://criticalresistance.org/
2 – Ci vorrebbe una trattazione a parte per poter spiegare meglio questo concetto
3 – Secondo l’art. 5 del decreto-legge 28 marzo 2014, n. 47 (c.d. Piano casa Renzi-Lupi) chi occupa abusivamente una casa non ha diritto all’allaccio delle utenze e ad avere una residenza https://actionaid-it.imgix.net/uploads/2021/07/Report_Actionaid_Quarticciolo_w.pdf https://actionaid-it.imgix.net/uploads/2023/01/AA_il_domani_della_residenza_2022.pdf
4 – Rigouste Mathieu, La domination policiere. Edition augmentèe, La fabrique, Paris, 2021
5 – https://ilmanifesto.it/da-macron-parole-di-facciata-per-provare-a-disinnescare-la-rivolta
6 – Bugliari Goggia Atanasio, Rosso Banlieue. Etnografia della nuova composizione di classe nelle periferie francesi, Ombre corte, Verona, 2022
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