Precari, creativi e meritevoli?
Più volte abbiamo sottolineato il duplice e ambivalente percorso di soggettivazione del lavoro nel nuovo capitalismo, il suo essere insieme esito e motore del radicale mutamento delle forme di accumulazione. Nel rimarcare questa duplicità abbiamo inteso smarcarci dalla rappresentazione unilaterale e conservatrice, egemone nel campo della sinistra politica, sindacale e intellettuale, del “precariato come sfiga”. Al contrario la molteplice, flessibile e ricca composizione emersa dalle macerie fordiste ci è parsa, fin dai primi vagiti, una potenza in grado di ridislocare su un terreno inedito pratiche e linguaggi della trasformazione. Occorre tuttavia prendere atto che questa potenza, sempre latente, non ha trovato nelle due stagioni del postfordismo (quella inebriante della new economy e quella “hard” degli anni ’00) un innesco in grado di dispiegarla. Per contro, nel corso degli ultimi dieci anni si è realizzata una solo in apparenza innaturale convergenza tra l'”immagine esterna” del lavoro (promulgata da opinionisti, esperti, mass media) e l’immagine di sé offerta da ampi strati di lavoratori cognitivi: le parole-chiave di questa rappresentazione convergente sono state precarietà, creatività/talento e merito. Queste hanno costituito le coordinate di un formidabile processo di soggettivazione avversa, ovvero di formazione delle motivazioni e della disponibilità a fornire i “mezzi di produzione” del nuovo capitalismo: conoscenza, relazioni, linguaggio, creatività, affettività, ecc.
Oggi il postfordismo – qualunque cosa abbia significato – è alle spalle, spazzato da una crisi che anche nel venir meno del potere “soggettivante” di precarietà, creatività e merito, trova un marcatore di fase. Ciò non ha prodotto ancora una soggettivazione altra: possiamo tuttavia iniziare a declinare al passato questo racconto?
Il contesto: svolta cognitiva e segmentazione del lavoro
La letteratura sui cambiamenti del lavoro ha proposto un variegato repertorio di figure emergenti o emblematiche del regime di accumulazione flessibile: di volta in volta si è fatto riferimento ad analisti dei simboli, knowledge worker, professionisti nelle organizzazioni, classe creativa, ecc.. La svolta cognitiva, secondo il nostro punto di vista, si fonda principalmente sulla messa in produzione delle qualità biologiche incorporate nel lavoro vivo. Adottando questa prospettiva si può legittimamente affermare, come propone l’economista Enzo Rullani, che “quasi tutti oggi possono essere considerati lavoratori della conoscenza”. La categoria di lavoro cognitivo (come scritto da Gigi Roggero) è dunque efficace quando utilizzata come “filigrana per osservare l’intero spettro delle forme di produzione e di lavoro nella loro compresenza […] e non tanto per individuare uno specifico settore di forza-lavoro” o per demarcare i lavori creativi dai mcjob.
Quanto più tale qualità cognitiva è divenuta forma modale del lavoro nel nuovo capitalismo, tanto più la composizione del lavoro si è segmentata, al punto da apparire a taluni come un mosaico scomposto di posizioni socioprofessionali e gruppi di status (proiezione della mucillagine sociale che fa da quinta alle analisi del Censis). Altri autori[1] hanno accreditato al contrario una lettura che colloca metà della forza lavoro nel campo dei lavoratori della conoscenza, del quale si forniscono confini ampi (i primi tre grandi gruppi professionali Istat). Credo che entrambe queste rappresentazioni siano inadeguate: il cambiamento del regime di accumulazione non ha generato deterministicamente una “quasi classe” al centro della scala sociale. Al contrario, più fratture “verticali” e “orizzontali” hanno scomposto e gerarchizzato questa composizione, con l’esito di renderne poco intellegibili gli stessi elementi comuni. Quali sono queste fratture? Molto è stato detto sui confini generati, a livello di forza-lavoro globale, dalla messa “in produzione” delle differenze di “razza”, di lingua, di religione. Importanti fattori domestici di articolazione e segmentazione sono anche:
- la divisione del lavoro nel ciclo produzione-trasmissione-utilizzo di conoscenza; la posizione occupatavi è un predittore affidabile delle condizioni materiali (compensi ma anche prestigio, autonomia, ecc.) dei lavoratori: tra coloro i) che creano conoscenza ii) che trattano conoscenza rendendola disponibile per scopi industriali (quelli ricompensati in modo più vantaggioso) iii) che utilizzano conoscenza e aggiungerei iv) che “producono i produttori” creatori, manipolatori e utilizzatori (secondo me i più esposti al declassamento) le condizioni, più che convergere, sembrano distanziarsi;[2]
- il valore convenzionale attribuito alle conoscenze “certificabili”: i cambiamenti del sistema formativo e dell’università già promossi dal “processo di Bologna” e quelli in corso sono coerenti con la prospettiva di un’esasperata titolarizzazione del capitale umano individuale, ovvero della sua segmentazione attraverso la creazione artificiosa di grandezze convenzionali per la sua misurazione;
- la regolazione del lavoro e le caratteristiche dei regimi di welfare, che in Italia concorrono a rendere più marcata la distanza tra precari e insider di successo;
- i campi organizzativi che strutturano la produzione; valori e interessi immediati dei lavoratori a ridosso del settore pubblico, per esemplificare, sono molto distanti da quelli dei settori a più forte regolazione di mercato.
Il nuovo capitalismo, riepilogando, non ci consegna una “quasi classe” tecnicamente omogenea e convergente per cultura, stili di vita, interessi materiali. La formazione dell’identità sociale del lavoro cognitivo si è giocata viceversa sul terreno della produzione di soggettività. E’ in questo senso che mi sembra importante puntare l’obiettivo sul lavorìo delle tre dimensioni richiamate:
- la precarietà come condizione insieme lavorativa ed esistenziale;[3]
- la creatività o il talento come bacini d’identificazione sociale;
- il merito come claim al centro di un possibile “programma politico”.
La condizione di precarietà è stata abbondantemente analizzata nei suoi aspetti descrittivi e nelle sue valenze politiche. Vorrei soffermarmi brevemente su creatività/talento e merito. Intorno a questi pilastri si è costruita una rappresentazione generazionale di successo, ben restituita dall’immagine retorica del/della 30enne con tre master costretto/a a cercare fortuna all’estero. Questa rappresentazione (la famosa generazione 1.000 Euro) offre una base ideologica al programma di ristrutturazione del “modello sociale”, ma va rimarcato che è fatta propria da ampi strati di lavoratori cognitivi.
Talento e Creatività
Nel corso di una survey realizzata alcuni anni fa, su una popolazione di designer, pubblicitari, consulenti, ecc. oltre il 90% dei rispondenti aveva dichiarato di identificarsi con la definizione di classe creativa. D’altra parte i temi della creatività – come ha evidenziato Andrew Ross in un suo recente saggio – si sono affermati con impressionante rapidità nelle agende per lo sviluppo dei territori e delle città. Questo successo ha una spiegazione anzitutto normativa: il suo mito contribuisce infatti a soggettivare una figura di lavoratore – spesso riluttante a definirsi tale – con elevato commitment, ripagato con monete simboliche (prestigio, status, appartenenza ad ambienti interessanti, dimensione “autoriale”) dei quasi sempre negativi bilanci costi-benefici. Il lavoro dei “creativi” (ma altrettanto si potrebbe dire di artisti, ricercatori, consulenti, operatori culturali o no profit) offre modelli “positivi” che combinano autoimprenditoria, coinvolgimento personale, disponibilità a mettere a disposizione il capitale umano generico e biografico, nonché – va da sé – a scambiare moneta sonante con “salario motivazionale”. In secondo luogo i creativi sono sviluppatori di pratiche sociali e stili di vita che alimentano il circuito della rendita. Da una parte producono e alimentano la domanda di prodotti distintivi spesso appartenenti alla stessa famiglia di merci che contribuiscono a creare: si pensi alle forme dell’abitare (il cultural quartier) alla base dei processi di gentrification urbana.[4] Infine, la “doppia presenza” tra lavoro e attività, l’essere contestualmente dentro e fuori l’impresa (per quanto si tratti sempre più di dentro e fuori virtuali) abilita il continuo processo di conversione di pratiche, desideri, contenuti prodotti dal fare sociale in valore economico.
Merito
Merito e meritocrazia alludono a universi simbolici e regimi di significato ben differenti se usati dagli hooligans della privatizzazione – o dai “liberali” che controllano gli editoriali dei quotidiani – piuttosto che dai precari. E’ scontato, come dovrebbe essere scontato che la critica della meritocrazia continui a trovare posto nella cassetta degli attrezzi della critica anticapitalista. Le retoriche del merito non hanno l’obiettivo di approntare procedure valutative per “selezionare i migliori”, ma quello di rimuovere i fattori socialmente strutturati alla base delle diseguaglianze. Il discorso, però, è scivoloso, poiché rischia di liquidare possibili istanze di contro-soggettivazione celate dietro la cortina del merito. E quindi, per conservatorismo, di consegnare ad altri il ruolo guida dei movimenti. A noi interessa la dimensione situazionale e dinamica dell’ideologia del merito. Mi limito a constatare che “premiare il merito” non è solo lo slogan che accompagna le sforbiciate alla spesa pubblica, ma anche l’aspettativa individuale di tantissimi lavoratori che si percepiscono meritevoli e penalizzati da un sistema che premia altre qualità (le relazioni personali, l’origine familiare, ecc.). Il merito, in apparenza, da ideologia di legittimazione delle diseguaglianze, sembra divenire uno strumento di critica dello status quo; dietro c’è la contraddizione, vissuta da ampi strati di lavoratori qualificati, tra l’importanza delle conoscenze possedute e la svalorizzazione (in primis salariale e reputazionale) che li colpisce. Non può tuttavia sfuggirci che la retorica del merito, in questo quadro, ha assolto la funzione di suscitare una mobilitazione emozionale promuovendo la convergenza tra declassatori e declassati, coalizzati contro lo “scroccone”, lo “sprecone” e l'”assistito” – figure tutt’altro che immaginarie, ma da sempre propedeutiche all’attacco delle componenti democratiche e universalistiche dei sistemi di welfare, come ci spiegava Stuart Hall nell’analisi del “grande spettacolo dello spostamento a destra” dell’Inghilterra degli anni ’70.
Perché sono importanti?
La combinazione tra condizione precaria, mito del talento/creatività e retoriche del merito, ha fornito il BIOS di un universo simbolico coerente, che non meriterebbe particolare attenzione se costituisse una rappresentazione esterna. A me sembra però che tale universo sia stato profondamente interiorizzato. Creatività e merito hanno funzionato in un certo senso come dispositivi per una “soggettivazione” del lavoro cognitivo, promuovendone da un lato il “riconoscimento per opposizione”, sia rispetto all’etica fordista sia nei confronti della gestione burocratica e clientelare del potere, e dall’altro fornendo le istruzioni per l’affermarsi di nuove culture del lavoro. Da questo punto di vista basti osservare che creatività, talento, retoriche del merito:
- hanno fornito materia prima per l’autodisciplinamento e l’assoggettamento personale alla base della rinnovata etica stakanovista che distingue tantissimi knowledge worker;
- hanno contribuito a riprodurre una visione individualizzata del lavoro e dei conflitti: paradossalmente, più la produzione si nutre di cooperazione e pratiche sociali, più i valori soggettivi si strutturano intorno a proprietà individuali;
- forniscono un benchmark (il talento e il merito assoluti) che ridefiniscono in modo permanente le performance richieste; da ciò anche la diffusione di nuove patologie usuranti che meriterebbero di essere indagate in modo sistematico (ecco un bel tema di ricerca interdisciplinare).
In conclusione
Il lavoro cognitivo, soprattutto nelle sue varianti autonome o creativo-culturali, è tra i gruppi più colpiti dalla crisi. Non assistiamo ancora a processi generalizzati di esclusione conclamata, quanto ad una radicalizzazione della pressione (in sé già poco sostenibile) su compensi e performance: appaiono condivisibili, in questo senso, le analisi di chi (tra gli altri Sergio Bologna) sostiene che sia in corso una generale svalutazione del lavoro cognitivo. Il dato importante però, ai fini del nostro discorso, è che nella crisi la forza soggettivante delle retoriche della creatività e del talento si è incrinata, sebbene da essa non necessariamente emerga una contro-narrazione che dia forza a forme generalizzate di resistenza intraprendente dentro e contro il biocapitalismo. Il movimento universitario sceso in campo in queste settimane[5] ha in questo senso una grande “responsabilità”, che si gioca nella capacità di produrre le pratiche ed il lessico di una contro-soggettivazione. Da questo punto di vista, il programma politico basato sul riconoscimento della matrice sociale e cooperativa della produzione contemporanea (basic income) e sull’implementazione di forme di proprietà comune e democratica di beni materiali e intangibili (in altre parole, il welfare dei beni comuni), potrebbe fornire l’orizzonte su cui fare convergere mobilitazioni e intelligenze progettuali. Lo sviluppo della creatività e del talento, lungi dall’essere promosso dalla deregolazione dei mercati, richiedono in realtà un surplus di beni collettivi e risorse comuni. Credo che questo programma, se capace da una parte di conquistare e dall’altra di eccedere la pure esaltante dimensione del movimento, possa interessare ampi strati di lavoratori cognitivi.
Da UniNomade 2.0 – uninomade.org
Intervento al convegno “Lavoro in frantumi”, Università di Bologna, 25 November 2010.
Note:
[2] Per brevità non ci soffermiamo sul complesso rapporto tra creazione di conoscenza e pratiche sociali esterne alle imprese: questa relazione appare innegabile e riconosciuta dagli stessi economisti della conoscenza mainstream (David, Foray, ecc.). D’altra parte occorrerebbe evitare una sua rappresentazione eccessivamente schematica – presente ad esempio nella rigida distinzione, formulata da Arvidsson, tra creativi salariati e creatività spontanea non remunerata. Non siamo infatti di fronte alla fine dell’organizzazione-impresa, quanto ad una profonda riconfigurazione delle funzioni strategiche all’interno delle aziende. Nella distinzione prima richiamata tra creazione-trattamento-utilizzo della conoscenza, la funzione cruciale (per le imprese) è proprio la seconda: è a questo livello che operano i commutatori biologici tra sapere sociale e valore economico, che organizzano la “cattura” e l’integrazione delle conoscenze nell’impresa rendendole appropriabili a scopi industriali. Quest’attività di conversione richiede organizzazione del lavoro, sistemi motivazionali espliciti e informali basati su premi e sanzioni, archivi informativi, modelli di coordinamento e principi di comando. In breve, di organizzazioni d’impresa.
[3] Una recente e documentata pubblicazione (Sacchi-Richiardi-Berton, Flex-insecurity) definiva la precarietà come combinazione tra bassi costi di terminazione dei rapporti di lavoro, bassi redditi, bassi livelli di protezione sociale in caso di fallimento. A me sembra che per sentirsi precari sia sufficiente vivere una di queste tre condizioni; a percepirsi tali non sono più, come negli anni ’90, solo atipici e parasubordinati, ma strati ben più consistenti di lavoratori (spesso subordinati, impiegati e operai).
[4] Non appare del tutto casuale, in questo senso, che il primo committente italiano del gruppo di lavoro sulla creative economy ispirato da Richard Florida e coordinato da Irene Tinagli, sia stata l’Associazione dei Costruttori Edili.
[5] Il testo dell’intervento è antecedente alle mobilitazioni della prima metà di dicembre, che hanno certamente fornito argomenti a favore della rottura dei dispositivi …
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