Ricordare per giudicare: il caso Battisti, la disinformazione brasiliana e la menzogna italiana
Primo fatto. Battisti è stato condannato dai magistrati milanesi, oltre trenta anni fa, per gravissimi reati; in particolare la sentenza definitiva gli addebita quattro omicidi. Per due di questi crimini è ritenuto responsabile morale. Lui si proclama innocente. L’autorità politica del Brasile, paese retto da un regime considerato ”democratico” dalla diplomazia occidentale, gli ha accordato lo status di emigrato in considerazione della natura politica dei delitti di cui è accusato e delle vicende successive che lo hanno coinvolto; in altre parole, il governo brasiliano ha giudicato che lo svolgimento dei processi negli anni settanta, quando erano in vigore le ”leggi speciali contro il terrorismo”, abbia gravemente risentito delle procedure emergenziali adottate dallo stato italiano per far fronte ad una rivolta sociale, una “insorgenza di massa”, senza precedenti nella storia del paese.
Secondo fatto. Questo giudizio negativo non è certo una sorpresa, una inattesa ed irresponsabile offesa alla dignità del nostro paese dovuta alla cattiva conoscenza della storia italiana, in particolare di quella più recente. Infatti, in questi trenta anni, è accaduto più volte che delle richieste d’estradizione, avanzate dalla nostra magistratura per delitti riferiti agli “anni di piombo”, siano state formalmente respinte, dall’autorità straniera, con motivazioni del tutto analoghe a quelle formulate, qualche settimana fa, dal brasiliano presidente uscente Lula do Silva. E’ accaduto così per il Canada, la Svizzera, la Germania, la Gran Bretagna, la Svezia, il Nicaragua, l’Argentina,il Giappone per non parlare della solita Francia. La possibilità, che le autorità di tutti questi paesi difettino di giudizio e scarseggino d’informazioni sul nostro paese, è poco probabile. Più probabile appare, al contrario, che vi sia nel sistema politico italiano una coazione a ritrovare le sue origini, una sorda volontà di continuare a legittimarsi sulla repressione dei moti rivoluzionari degli anni settanta; o, per dirla con la vulgata mediatica, sul merito di aver salvato la repubblica democratica dal terrorismo rosso– omettendo, forse per modestia, quello di aver potentemente contribuito a generarlo. Sicché, qualsiasi episodio che getti dubbi sulle misure liberticide adottate in quegli anni, o anche solo sulle sentenze giudiziarie di quel periodo, viene vissuto dal ceto politico con emozione trasversale, non priva d’isteria, maggioranza ed opposizione insieme; quasi si fosse in presenza di un subdolo attentato alla credibilità del potere. Insomma, sarà il presidente Lula a sbagliare giudizio sulla tragedia italiana degli anni settanta o il presidente Napolitano a rimuovere inconsapevole le gesta del compagno Pecchioli ,ministro ombra di polizia e attore protagonista in quella tragedia?
Terzo fatto. Risulta paradossale che il presidente del consiglio ed il ministro di giustizia si lamentino della scarsa considerazione in cui è tenuta la nostra magistratura presso le autorità brasiliane, quando entrambi, all’unisono e quotidianamente, denunciano la”malattia italiana”, l’uso politico della giustizia da parte dei giudici. Dopotutto, può darsi che Lula legga, di tanto in tanto, il “Giornale” di famiglia o ascolti il notiziario del TG1… Forse Berlusconi e Alfano credono, in buona fede va da sé, che questo stravolgimento del ruolo dell’ordine giudiziario, questa malattia istituzionale sia stata contratta solo recentemente, quando lo stesso Berlusconi, Previti e dell’Utri sono rimasti impigliati nella rete. Forse, sembrano credere, negli anni settanta la situazione era diversa, allora sì che la magistratura era affidabile ed imparziale ed i giudici non si candidavano a deputati. Purtroppo possiamo testimoniare, alcuni tra noi per diretta esperienza, che non era cosi, il vizio è vecchio per non dire antico. Anzi, a vero dire, i metodi giudiziari erano certo più sommari e crudeli allora che oggi; e la stampa, tutta la stampa, al minimo, mentiva per omissione. Dobbiamo tuttavia, a questo proposito, per onestà intellettuale, notare che, allora, non si trattò solo di pulsioni forcaiole di un buon numero di giudici quanto della pochezza del potere politico che incapace di mediare, di svolgere il suo ruolo, finì col trattare quell’aspro scontro sociale come un problema d’ordine pubblico, affidandone la soluzione, attraverso la legislazione d’emergenza, a polizia e magistratura. Questa delega è ancora in vigore oggi, in questa seconda repubblica allo stato nascente, quando si rievocano, per un motivo od un altro, quegli anni; e questo con ragione proprio perché la seconda repubblica è una conseguenza non tanto della scomparsa della Unione sovietica e ancor meno della corruzione di tangentopoli, che continua più vigorosa di prima; ma piuttosto, l’insurrezione armata di studenti ed operai la ha generata nel senso di provocare, per così dire,la rottura del ramo e la scoperta del verme: l’emersione nella coscienza collettiva del paese della consapevolezza sulla vera natura delle istituzioni repubblicane nate dalla Resistenza, quel grondare di lacrime e sangue scatenato dalle leggi liberticide e dalla licenza d’uccidere conferita alla macchina repressiva dello stato.
Il dubbio. Noi nutriamo più di un dubbio sulle sentenze imperniate attorno al nebuloso strumento giuridico della responsabilità morale – e questo vale per Battisti come per Sofri, per quanto grande possa essere la differenza di spessore intellettuale ed umano tra i due. Infatti, a sostegno della ragionevolezza delle nostre perplessità, potremmo sciorinare qui centinaia e centinaia di casi d’ordinaria iniquità accaduti in quegli anni, quando la responsabilità morale veniva irrorata con una certa generosità a destra e a manca; e di conseguenza, la “migliore parte” del paese, oltre cinquemila giovani e meno giovani, ha conosciuto l’esilio, il carcere, la tortura, in decine di casi la morte; giunta qualche volta perfino nella forma bizzarra del “malore attivo”, per defenestrazione dai piani alti della Questura durante un interrogatorio di polizia, come a Milano; o in modo vile, esecuzione sommaria mentre ancora il sonno del primo mattino rendeva inermi, come a Genova. A noi appare evidente che la responsabilità morale è una circostanza difficile da accertare; e averne sollecitato l’uso ha suonato come un ordine di servizio impartito all’apparato repressivo perché menasse fendenti nel mucchio, ne colpisse cento pur di educarne uno. Per inciso, l’analogo della “responsabilità morale” degli anni settanta è, ai nostri giorni, il reato di “associazione esterna” alla mafia, fattispecie di recente apparizione nella giurisprudenza ma sconosciuta ai codici – anche in questo caso, l’indeterminazione intrinseca del reato, congiunta all’uso del carcere speciale, consente alla repressione di esercitarsi non tanto sui criminali quanto di terrorizzare il tessuto sociale nel quale la criminalità trova il nutrimento delle sue radici, alimenta un consenso che proviene dalla appartenenza alla stessa cultura.
La certezza. Ma supponiamo pure che i processi ai quali è stato sottoposto Battisti si siano celebrati nella rigorosa osservanza delle garanzie che la legge ordinaria assicura all’imputato; e che le prove offerte dall’accusa siano risultate di una evidenza lampante – il che è, appunto, contro fattuale o almeno del tutto improbabile che sia avvenuto. Anche così resta un argomento forte a favore di Battisti; nel senso che, malgrado i crimini commessi, conviene che sia restituito alla vita civile o almeno lasciato in pace, coi suoi turbamenti e rimorsi, nel paese che ha deciso di accoglierlo. Questo argomento proviene a perpendicolo dalla Carta Costituzionale, tanto spesso retoricamente invocata e troppe volte tradita. Nella nostra legge fondamentale l’espiazione della pena non è concepita come primitiva afflizione del reo volta a lenire l’irreparabile dolore ed il comprensibile rancore delle vittime, dei familiari e dei loro amici. Piuttosto, la funzione civile della privazione della libertà, e delle altre sanzioni accessorie, è quella di redimere il colpevole; in modo che la fine della pena coincida con la realizzazione del suo fine e l’espiazione si concluda con il recupero di un essere umano alla comunità degli uomini. Sicché ci sembra di poter concludere che, secondo la carta fondante della repubblica nella quale ci è capitato di vivere, Battisti ha terminato il suo periodo d’espiazione; infatti, negli ultimi trenta anni, vivendo ora in un paese ora in un altro, non ne ha mai violato le consuetudini e le leggi; inoltre, i suoi libri, con il loro discreto successo, attestano che il processo di reinserimento nella vita civile si è già positivamente concluso. Per altro, come già notato, le sentenze contro Battisti comportano addirittura più ergastoli; e solo il clima giustizialista, che avvelena il dibattito italiano sul tema, può spiegare l’oblio in cui è caduta la voce, ragionevole ed appassionata, di quei giuristi democratici che da tempo avanzano pesanti dubbi sulla coerenza di tale pena con lo spirito e la lettera dell’ordinamento costituzionale. Sicché, quello che la nostra migliore tradizione giuridica non riesce ad accettare, difficilmente potrebbe essere condiviso dalle autorità di un paese, come il Brasile, dove l’ergastolo è sconosciuto – per inciso, occorrerà pur dirlo, questa pena è considerata in molte parti del mondo un’eccezione disumana, anche se, proprio da noi, sembra essersi dileguato il senso della sua intrinseca ed inutile crudeltà. Insomma, per concludere su questo punto, la richiesta italiana di estradare un condannato all’ergastolo da un paese dove il “fine pena mai” è ritenuto una “tortura giuridicamente legittimata” risulta con ogni evidenza irricevibile. Eppure, in Italia, i mezzi di comunicazione pressoché unanimemente non solo ritengono che l’estradizione sia dovuta, ma giudicano un’offesa alla dignità nazionale il fatto che il Brasile non si sia ancora risolto a concederla.
Rispetto e pietà. Va da sé che la nostra analisi del caso Battisti non può ignorare la tragica sofferenza alla quale sono state consegnate – qualche volta, occorre pur dirlo, per caso, per fuoco amico – le vittime ed i loro parenti. Ma poiché il male inferto non è reversibile, l’unica possibilità di riscattarlo è trarre partito da esso, insomma imparare dagli errori, per quanto tragici possano essere. Questo vuol dire che il solo rispetto che dobbiamo alle vittime è di ricostruire la comune verità racchiusa negli anni di piombo, quel formidabile periodo quando v’è stata un’insorgenza di massa contro gli aspetti tirannici del potere, le sue menzogne e ipocrisie. Non v’è verità comune se viene negata o peggio rimossa la qualità di quella esperienza, la inebriante passione civile che ha portato centinaia di migliaia di giovani e meno giovani a prendere la parola in pubblico, a togliersi le umilianti maschere di suddito per divenire cittadini attivi, protagonisti del loro destino, artefici della loro realizzazione. Anche se questo ha comportato, come è accaduto altre volte nella storia, che si arrecasse e si ricevesse distruzione e morte. Dire la verità vuol dire prima di tutto respingere la riduzione blasfema dell’insorgenza di massa a pratica terroristica, del ribelle a deviante criminale. Solo a partire dal riconoscimento del fatto che in Italia, negli anni settanta c’è stata una piccola guerra civile; e, come in tutte le guerre civili, tanto le vittime che i carnefici stavano da una parte e dall’altra; solo a questa condizione, è possibile intravedere un percorso di verità, di crescita interiore del nostro paese che lo porti a liberarsi dal senso di colpa che lo opprime. Infatti, che in Italia il potere politico sia posseduto da una coazione a ripetere la pubblica menzogna risulta evidente dall’uso cinico del sentimento di pietà verso le vittime, quelle addebitabili agli insorti – sentimento che viene deformato e rappresentato impudicamente nella forma di rivendicazione teatralizzata; e, ad un tempo, dal silenzio, rotto solo per propalare calunnie, dentro il quale viene sigillato il dolore per le altre vittime, cadute sotto il fuoco dei tutori dell’ordine quando non per mano dei mercenari della reazione – questi ultimi intenti , in quegli anni, più o meno segretamente, all’eversione della repubblica, mentre oggi siedono meritatamente sugli scanni del parlamento repubblicano.
Caveat. Il caso Battisti, proprio perché non si può dire che il suo protagonista meriti il titolo d’eroe, è l’occasione, il tempo giusto per fare i conti pubblicamente col passato , strappando la verità al futuro. Ed è per questo che noi, consapevoli delle responsabilità che ci assumiamo, concludiamo ricordando – agli smemorati eredi del ceto politico degli anni settanta, alti funzionari della repressione, ex-mercenari – un antico dictum magnogreco che risuona come un appello ed un avvertimento insieme: “solo se rispetteranno l’onore e gli Dei dei vinti i vincitori saranno salvi”.
Di Franco Piperno
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