Riders: non vi basta il pane, qualcuno vuole anche le poltrone!
Le osservazioni e le valutazioni che prendono voce da Deliverance Project riflettono il punto di vista di alcuni rider o più generalmente lavoratori coinvolti nelle assemblee che di volta in volta lottano all’interno di quel segmento della logistica che è il “food delivery” nella città di Torino. Deliverance Project non è un collettivo, né un sindacato né tanto meno un’organizzazione politica, ma lo strumento per condividere esperienze e tentare di creare connessioni in un contesto caratterizzato da una capillare automatizzazione e precarizzazione finalizzate principalmente ad isolare e rendere inermi i soggetti coinvolti e sconvolti dai nuovi strumenti di organizzazione del lavoro.
Quanto segue ha come obiettivo quello di mettere in evidenza le criticità riscontrate nelle iniziative e dei metodi portati avanti da rider union Bologna, soprattutto nell’ultima settimana. Le riflessioni hanno carattere personale e sicuramente non esaustivo, seppur ampiamente condivise tra rider in lotta, e sono finalizzate a stimolare un dibattito necessario che tenga conto della portata dei problemi affrontati, mettendo da parte quegli interessi personalistici che rischiano di risultare deleteri per una mobilitazione realmente partecipata ed incisiva.
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La carta dei diritti del lavoro digitale, firmata da “riders union Bologna, sindacati [confederali], Comune e sgnam-mymenu” il 31 Maggio, sulla quale erano state manifestate non poche perplessità anche in occasione dell’assemblea bolognese dei rider (15 Aprile 2018), non è sembrata essere esattamente un passo avanti. Da un lato per il suo contenuto: la raccapricciante premessa e la pericolosità dei “Meccanismi reputazionali”, di cui diremo anche in seguito; dall’altro per la sua forma di accordo mediato dal Comune, che consacra il sindaco come supremo garante della sicurezza e del decoro cittadino – ma di quella sicurezza e di quel decoro che fanno comodo solamente a chi ha da investire – e che di questi tempi possono rivelarsi un ottimo trampolino per un upgrade nei vari livelli della pubblica amministrazione. (qui la carta dei diritti in questione: http://goo.gl/DpU3Rj)
Eppure, nella piena autonomia dell’autorganizzazione, sperimentare è la regola, anche se – ormai è doveroso riconoscerlo – il rischio di essere strumentalizzati è sempre dietro l’angolo. È vero, infatti, che la sovraesposizione mediatica e la strumentalizzazione che ne deriva ha colpito tutti – anche chi ha lottato a Torino, ahimè! – e che la buona fede tra chi porta avanti battaglie comuni non può che essere presunta.
A tutto però c’è un limite!
Se l’intermediazione del sindaco e sindacale insieme ad una carta dei diritti al ribasso potevano anche andar giù – nonostante questo modello poco efficace ed eccessivamente propagandistico rischi di diventare un esempio a cui ispirarsi anche in altre città – la passerella mediatica al primo giorno di scuola del neo-ministro Di Maio poteva tranquillamente essere evitata. Sarebbe stata da evitare innanzitutto l’organizzazione di un incontro non preceduto da un confronto con gli altri gruppi di lavoratori che già da tempo si organizzano all’interno di diverse aziende: ad esempio quelli che, solo due giorni prima, avevano organizzato e portato avanti con successo ed entusiasmo l’ennesimo sciopero contro foodora (sciopero che a rider union Bologna è probabilmente sfuggito); in secondo luogo, data la navigata esperienza politica di non pochi esponenti dell’organizzazione bolognese, si poteva serenamente evitare o almeno valutare con la giusta cautela, il confronto con un governo dai tratti particolarmente ambigui, il cui unico scopo sembrerebbe quello di vendersi come “governo della gente”, solo a patto che questa “gente” possa permettersi almeno uno smartphone ed una bici.
Non vi siete chiesti perché per stare al fianco delle “generazioni abbandonate” Di Maio non avesse scelto di convocare i braccianti della piana di Gioia Tauro, gli “invisibili” che il 16 Dicembre 2017 a Roma come uno sciame scendevano in piazza ricevendo promesse – naturalmente disattese – da politici e sindacati e che negli stessi giorni in cui il governo muoveva i primi passi tornavano ad essere “visibili” perché presi a fucilate nel tentativo di procurarsi un riparo decente, dignitoso? Chi le dirette Instagram o Facebook non le fa quel “po’ di dignità” invocata dal neo-ministro evidentemente non se la merita neanche!
La via intrapresa da rider union Bologna, quindi, tanto con la carta dei diritti quanto e soprattutto con l’incontro istituzionale al ministero del lavoro, non può essere considerata un punto d’arrivo, né un punto di partenza per mettere in campo una contrattazione reale. È una via vecchia, già battuta ed intrisa di contraddizioni. Le contraddizioni della politica, quella di Di Maio & Salvini in testa, pronta a promettere tutto e a fare l’esatto contrario; le contraddizioni del sindacato e della rappresentanza, vittime dell’autoreferenzialità e della brama di riconoscimento, in nome delle quali qualche lavoratore o qualche lavoratrice è sempre sacrificabile; ed infine le contraddizioni di un sistema di organizzazione del lavoro (la c.d. gig economy) che già da tempo ha stravolto le vite di chi per vivere deve lavorare e può farlo solo stando a testa bassa, imbrigliato dalla pervasività costante delle applicazioni.
Le esigenze e le dinamiche portate avanti dall’aspirante sindacato bolognese non sono di certo esemplari e rappresentative di una mobilitazione ancora tutta in divenire. Una mobilitazione che può crescere ed ottenere risultati solo passando prima dalle piazze, dai ristoranti ed in tutti quei luoghi in cui il senso di sfruttamento e di insoddisfazione si fa crescente. Una mobilitazione che assume forme e sfumature differenti in base al differente contesto e che non può permettersi di anteporre le esigenze del sindacato, inteso come istituzione, alla reale mobilitazione. Le priorità non possono essere quella del riconoscimento e dell’apertura di un tavolo di trattativa, che rischia di avere sorti piuttosto incerte senza un reale coinvolgimento ed un obiettivo condiviso, soprattutto se tali priorità sono sponsorizzate da un governo che con fare istrionico e gattopardiano mira a cambiar tutto senza cambiare niente.
La priorità dovrebbe essere piuttosto quella di spingersi a sfidare le logiche di un sistema – quello politico e sindacale – che offre soluzioni al ribasso e strumentalizza gli sforzi e le disgrazie altrui al solo fine di auto legittimarsi e magari conquistare la poltrona.
“Le piattaforme di collaborazione possono rappresentare un modello di impresa che coniuga opportunità di occupazione, flessibilità e reddito per i collaboratori ed i lavoratori, garantendo ai consumatori nuovi servizi a prezzi maggiormente sostenibili” (carta dei diritti del lavoro digitale, Premessa)
Tralasciando quella strana sensazione di aver letto la prefazione di un libro di Oscar Farinetti (fondatore della catena Eataly), viene da chiedere: siamo sicuri che questa allettante economia delle piattaforme non sia il modo per legittimare sistemi automatizzati, digitali, capaci di indurre all’autosfruttamento in cambio di vane promesse, prospettive nebulose e magari di un salario minimo che tralascia un ampio spettro di garanzie – dal riposo alla malattia, dalle tutele contro i licenziamenti e/o i mancati rinnovi al monitoraggio della prestazione e la valutazione del lavoratore (c.d. ranking) – tutte sacrificate sull’altare della crescita, dell’occupazione e della flessibilità.
Focalizzare l’attenzione sul salario minimo, senza tenere conto degli effetti che i sistemi di ranking producono sullo svolgimento del lavoro e sulla stessa possibilità di accedere al lavoro, effetti che continuerebbero a prodursi senza alcuna alterazione anche in un contesto in cui venisse garantita una paga oraria, risulta essere miope oppure altamente opportunistico. Senza considerare che la legittimazione esplicitata anche all’art. 3 della carta dei diritti, riguardo al controllo e alla classificazione del lavoratore camuffata da “meccanismo reputazionale”, rischia di sdoganare l’applicazione del ranking anche a numerosi settori produttivi attualmente liberi da questo fardello.
La carta dei diritti bolognese in questo senso sembra porsi nel solco di quegli accordi market friendly che strizzano l’occhio al capitale e sotto l’insegna del cambiamento, dell’innovazione e magari anche della sostenibilità compiono passi avanti verso un futuro distopico – la parabola di Merola, amico dei rider ed anche di Farinetti, ma di certo non dei senzatetto colpiti dal Daspo, in questo caso è abbastanza emblematica. Questo approccio dimostra come la priorità all’interno di un’organizzazione sindacale o para sindacale, come quella bolognese ed altre più o meno simili, sia prevalentemente quella di accomodarsi nei tavoli di contrattazione insieme alle controparti prima ancora di aver costruito una solida rete di esperienze e valutazioni o una mobilitazione che possa dirsi tale.
Se si vuole realmente “costruire un presidio democratico nelle frontiere dello sfruttamento capitalista” (cit. comunicato riders union bologna) non si può concepire il conflitto come un diritto – lo stesso dell’art. 10 della carta bolognese – limitandosi magari a lasciarlo solo sulla carta, come lettera morta, preferendo il tavolo o la poltrona a quelle strade ed a quelle piazze nelle quali una dignità che non può essere concessa può essere sicuramente costruita e conquistata incontrandosi, riconoscendosi e lottando insieme.
Cari colleghi e care colleghe di rider union Bologna sulla strada che avete scelto non vi riconosciamo, perché non sta ai sindacati scioperare convocando i lavoratori, né ai sindaci lanciare i boicottaggi; piuttosto sta ai lavoratori e alle lavoratrici, agli sfruttati e alle sfruttate ritrovare la forza e la voglia di conquistare ciò che gli spetta, senza l’intermediazione di chi ha come unico interesse quello di preservare le stesse posizioni di potere che ci hanno portati e portate fino a qui.
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