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Se vi nascondete è perché una casa ce l’avete

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Torino: martedì 27 marzo in una trentina di persone uniti nella lotta per il diritto all’abitare, si è impedito lo sfratto di Aurora. L’ennesima vittima delle attuali leggi impietose del mercato del lavoro: una lunga serie di lavoretti in nero e un attuale tirocinio mal pagato, madre di un’adolescente, con un divorzio in corso.

La storia di questo sfratto incomincia ben prima: il primo picchetto sotto la sua porta risale al 13 febbraio, contò ore e ore di attesa prima dell’arrivo dell’ufficiale giudiziario, seguita dal proprietario di casa, digos e altre care cose.
Dopo svariati drammi del proprietario, ammansito dall’avvertimento che buttare in strada una madre a qualche giorno dalle elezioni non sarebbe stata una gran mossa mediatica per l’amministrazione, il verdetto fu il rinvio di un mese e da parte nostra lo accettammo come un arrivederci.

Così torniamo a martedì 27, alla pazienza di aspettare i tempi della legge e ai tentativi di non farsi abbattere dai tempi morti, mantenendo la presenza, consapevoli che la noia è l’intervallo inevitabile tra l’accadere degli eventi.
Dopo 8 ore, l’ufficiale giudiziario è arrivato, proclamando un ulteriore rinvio al 2 maggio. Lanciando il foglio con l’atto giudiziario addosso ad Aurora, la burocrate ha subito ripreso la sua strada, almeno fino alla macchina, con la scorta.
È soltanto un rinvio della condanna, che ricalca in maniera più clemente il paradigma dell’ormai abusato art. 610, provvedimento che garantisce uno sfratto a sorpresa e che, oltre ad accrescere l’ansia di non sapere quando finirai per strada, è diventato l’arma per eccellenza contro chi a impedire l’esecuzione di uno sfratto e a portarlo all’attenzione pubblica ci sta in prima linea col proprio corpo.

Questa logica del rinvio non fa che posticipare la possibilità di avere una vita decente ed è la stessa strategia che ha trovato conferma, qualche ora successiva, in sede degli assistenti sociali dai quali ci siamo precipitati, poiché quando si è in tanti ci si può permettere di non far finire la giornata con un foglio. Ci siamo trovati di nuovo davanti a ipocrite attese, a dover compiere piccole forzature per ottenere risposta e a dissimulare la stanchezza accumulata. Il report potrebbe essere una storia di folklore all’italiana: l’assistente sociale che si spaccia per fuori città mentre si trova in realtà nascosta in una stanza adiacente, insieme alla digos che gioca a far da intermediario e ad un noto staffista dell’assessorato al welfare della giunta cinque stelle che gioca a fare il benefattore. “Torni un’altra volta da sola, adesso stiamo parlando”, è stato detto ad Aurora, con l’intento di infliggerle un rinvio anche in quella sede. “Io non posso fare nulla che non sia seguire scrupolosamente la procedura legale, quindi aspetteremo la sentenza del TAR. Adesso non ci sono gli estremi per intervenire (trad: la signora non è ancora per strada) e ormai la figlia non è quasi più minorenne”. Questo miscuglio di rigorismo legale e fare approssimativo nella valutazione delle condizioni di trattamento è stato all’incirca ciò che è uscito dalla bocca dell’assistente sociale.

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E se il TAR giudicasse positivamente il ricorso dopo 6 mesi (con grande ottimismo sulle tempistiche), dal 2 maggio in poi che vita sarebbe per Aurora e sua figlia? Il suddetto rappresentante della giunta comunale, alla domanda: “ma lei è quello che è per difendere la vita delle persone o la proprietà privata?”, ha risposto: “Io faccio l’interesse di tutti”. Il che, oltre all’evidente tentativo di eludere la domanda al fine di non portare responsabilità sul piano della prassi, lascia spazio all’intuizione deduttiva: non a tutti – i proprietari – interessa la vita delle persone.

Le 12 ore di mobilitazione di martedì hanno restituito il ritratto di una politica che non riesce a fare di un caso concreto l’emblema dei propri intenti dichiarati, che lascia i servizi sociali in balia della burocratizzazione forzata di ogni dialogo e che accetta l’evidente discrasia tra tempi del legislativo e della vita delle persone di cui dovrebbe essere a tutela. Il rimando a futuri indeterminati e l’infinita catena di delegazione di responsabilità rende ogni singolo rinvio di un’emergenza sociale il sintomo di un’attesa generale, quella che la classe politica attuale infligge a tutto ciò che richiederebbe uno sforzo ben maggiore di un semplice compromesso fatto con coloro i quali della gente che non riesce a garantirsi una proprietà se ne fregano.

Questo atteggiamento è incarnato in maniera esemplare dall’amministrazione 5 stelle, che da quando è in carica non ha messo in campo alcuna politica concreta rispetto all’emergenza abitativa, disattendendo le promesse sbandierate in campagna elettorale e ignorando le questioni sottopostole durante un tavolo di confronto che si è tenuto il 15 febbraio in sede comunale con alcuni esponenti della lotta per il diritto all’abitare. La politica delle “belle parole” di cui i 5 stelle si fanno promotori e con cui hanno raccolto la maggioranza dell’elettorato viene tradotta nella prassi in un rimpallo burocratico nel quale i bisogni delle persone non trovano risposta. Un grande deficit di coerenza per cui, alla sospensione degli sfratti e allo sblocco delle liste per le case popolari, si privilegia la proposta di candidare Torino alle olimpiadi invernali del 2026.

In finale di giornata, bisogna riconoscere che gli unici attori a non dare delusioni sull’attesa sono state le forze dell’ordine che, tempo di trovare gli interlocutori per il caso, avevano già schierato due camionette all’uscita.

A completare il quadro e a preparare un nuovo muro popolare si aspetterà il 2 maggio, con impazienza.

di Prendocasa Torino

 

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