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Sguardi sulle trasformazioni della formazione in Inghilterra

 

Le università di tutto il Regno Unito sono state quindi picchettate dallo staff e da molti studenti solidali fin dalle prime ore del mattino, mentre la sera prima sono state occupate le università di Sheffield e Sussex (quest’ultima, peraltro, è tornata ad occupare dopo lo sgombero di Aprile di una palazzina del campus riappropriata alcune settimane prima da parte degli studenti in solidarietà e continuità ad altre grandi mobilitazioni che hanno coinvolto l’Ateneo e l’intero mondo accademico britannico contro il susseguirsi di contro – riforme di questi anni). La giornata in molte città si è conclusa con manifestazioni partecipate da migliaia di persone che hanno intimato a gran voce al governo di David Cameron di recedere dai propri intenti.
Questo taglio, d’altra parte, appare ancora più odioso se si considera che, sempre a partire dal 2009 (ossia a ridosso dell’inizio della Grande Crisi e di ancor più stringenti politiche di austerity), i senior manager che gestiscono gli atenei hanno alzato i loro salari del 2,5 percento e, mediamente, rettori e vicerettori hanno aumentato i propri di circa 5mila sterline raggiungendo un salario annuo di 250mila sterline, mentre il 10 percento dello staff degli atenei non riceve nemmeno il cosiddetto Living Wage, ossia il salario minimo (per quanto questa dicitura possa avere un valore in un paese dove i diritti minimi dei lavoratori sono stati picconati dal Thatcherismo e dai suoi epigoni nel così chiamato dagli inglesi ConDem government, nientemeno che il modo british di apostrofare governi delle larghe intese più o meno dichiarati…). E a molti altri, se possibile, va anche peggio: si moltiplicano senza posa i casi di lavoratori nei settori più disparati dalle università (dal personale per le pulizie alla mensa, passando per i ricercatori) che denunciano contratti a zero ore, carichi di lavoro non salariato o sempre più sottopagato crescenti, ricatti salariali, pressioni psicologiche e discriminazione.

Pertanto, a seguito dello sciopero nazionale, la mobilitazione è stata rilanciata a partire nei territori, lasciando presagire nuove iniziative diffuse nel corso prossime settimane. Le Unions, ad esempio, hanno chiesto a tutti i propri iscritti di entrare fin da subito a data da destinarsi in sciopero bianco, ossia di attenersi rigidamente al monte ore di lavoro previsto dal proprio contatto e di rifiutare qualsiasi mansioni gratuita e/o che esuli da quanto previsto nero su bianco dagli obblighi contrattuali. Il tentativo, in qualche modo, sarebbe dunque di inceppare il meccanismo ampiamente basato su una lunga serie di prestazioni gratuite o incredibilmente sottopagate erogate dalle figure più eterogenee sotto ricatto, dal personale amministrativo fino a dottorandi e lecturers (l’equivalente dei nostrani ricercatori, ma con compiti di insegnamento).

La posta in gioco, tuttavia, è potenzialmente molto più alta di una vertenza incentrata sulle condizioni di lavoro sempre più deteriorate dello staff universitario. Da alcune settimane infatti, contestualmente ai tagli degli stipendi, sui media britannici si paventa sempre più insistentemente anche un nuovo rialzo delle tasse di iscrizione (annunciato per bocca del ministero e persino invocato da alcuni rettori), in quanto, a loro dire, il tetto finora previsto non sarebbe sufficiente a coprire il costo dell’educazione superiore a fronte della crescente inflazione e dell’aumento del 26 percento degli studenti stimato nei prossimi vent’anni, nonostante l’aumento di circa il 300 percento delle rette avvenuto solo pochi anni anche aveva dato luogo a rivolte diffuse in tutta l’Inghilterra e al movimento Uncut (per molti versi simile nelle rivendicazioni all’Onda italiana). Il movimento, tuttavia, non fu in grado di far arretrare il governo: pertanto, allo stato attuale, la retta media di uno studente BAMS (l’equivalente delle lauree triennali) si attesta su un massimo di 9mila pound, mentre per i corsi master (ossia magistrali) e di “eccellenza” la retta annuale può arrivare a sfondare il tetto dei 16mila pound (come nel caso della blasonatissima Oxford). Il che ovviamente non include il prezzo dell’alloggio che, all’interno dei campus, può arrivare a 540 pound al mese per una stanza.

Il livello di indebitamento medio di uno studente triennale, pertanto, secondo le stime delle Unions si aggira sulle 50mila sterline per studente per un semplice corso di studi triennale, e può triplicarsi nel caso in cui lo studente decida di completare il proprio percorso di studi. Cifre da capogiro, eppure ancora troppo basse e “non sostenibili” dal sistema, a detta ad esempio del vice – rettore dell’università del Surrey, che invita gli studenti a rassegnarsi a pagare ancora di più se vogliono “l’eccellenza”!

Tuttavia, osservando il quadro generale, tutte queste tendenze sono tutt’altro che stupefacenti. Il fatto che proprio i manager siano i soggetti protagonisti del processo di riorganizzazione (che tuttavia odora più di smantellamento…) dell’università e pertanto, tra i pochi non toccati da una quantomai orizzontale socializzazione delle (presunte) perdite del sistema è il frutto, più maturo nello United Kingdom che altrove, dell’implementazione delle linee guida indicate dell’ormai urbi et orbi fallimentare Bologna Process, che ha puntato a riformare e “spacchettare” a livello europeo l’istruzione universitaria allo scopo di: migliorare la mobilità interuniversitaria; favorire un accesso “preferenziale” e rapido al mercato del lavoro; accrescere competitività, razionalizzazione ed efficienza tramite l’ingresso dei privati nella gestione degli atenei; ma soprattutto esaltare le tanto decantate meritocrazia ed eccellenza.

Gli esiti, come ben sappiamo, sono stati profondamente diversi rispetto a quelli preannunciati: l’accesso ai corsi di studio è sempre più ristretto e selettivo, riducendo le retoriche sulla meritocrazia ad un mero criterio di censo che penalizza in maniera sempre più crescente gli studenti senza possibilità di reddito e non intacca minimamente ma anzi rafforza gerarchie e conglomerati di potere incancreniti dentro gli atenei (le miserie nostrane di certi accrocchi baronali come la parentopoli bolognese, la corruzione dei “saggi” che controllavano i concorsi nelle facoltà di giurisprudenza di tutta Italia o Roma col rettore Frati fanno scuola in questo senso); molti servizi universitari (dalle mense fino alle borse di studio) sono stati di fatto esternalizzati; la perversa combinazione di tagli e crescente finanziarizzazione ha portato a saperi sempre più standardizzati e dequalificati, schiacciati sulle esigenze del mercato del lavoro e di industrie che peraltro, nella realtà, nelle università investono ben poco (come il caso italiano ben insegna!) ma in compenso hanno sempre più potere decisionale e usano piuttosto gli atenei come vero e proprio bacino di lavoro precario e sottopagato attraverso il meccanismo infernale di stage, apprendistati, placement post – laurea e chi più ne ha più ne metta.

In un sistema avanzato sul cammino del Bologna Process come quello inglese, inoltre, tutto ciò non ha solo comportato una lotta spietata tra atenei per salire nei meccanismi di rating (che, non a caso, sono in tutto e per tutti simili a quelli delle famigerate agenzie che valutano l’affidabilità di banche ed istituti finanziari) attraverso corsi e offerte di ricerca modellati per attrarre i favori di potenziali investitori esterni, vista la palese dismissione dell’università da parte del pubblico. Sempre più servizi, infatti, sono esternalizzati e subappaltati a banche ed imprese, col risultato che nei campus è del tutto consueto trovare filiali di banche che sponsorizzano i propri prodotti finanziari e “mense” gestite come ristoranti, se non appaltate a vere e proprie multinazionali come Starbuck e Delicious, sorvegliate da imprese di polizia private e gestite nientemeno che come imprese con la forbice sempre in mano, mentre il ricorso al lavoro precario è sostanzialmente fuori controllo (non sono per niente rari i casi di impiegati amministrativi con contratti a zero ore o della durata di 6/12 mesi).

Per quanto riguarda gli studenti, invece, il crescente ed annoso indebitamento con le banche sta sortendo risultati differenti e contraddittori: da un lato, come emerso già alcuni mesi fa, la bolla dell’indebitamento studentesco pare oramai sul punto di esplodere in quanto molti e molte laureati/e (specialmente stranieri/e) lasciano il Regno Unito senza mai saldare il debito contratto e/o non sono disponibili né tanto meno in grado di ripagare questa specie di mutuo a vita, visto e considerato che alcuni atenei, ad esempio, prevedono che gli studenti inizino a ripagare il proprio debito in comode rate con interessi stellari quando guadagneranno una media di 25mila sterline annue (una prospettiva peraltro a dir poco lunare per un paese considerato un “modello d’avanguardia”nella sperimentazione di tecniche di precarizzazione, liberalizzazione e deregulation del mercato del lavoro!). Per la cosiddetta classe media, in molti casi, l’iscrizione all’università spesso è invece già un’utopia: di fronte all’impossibilità di accollarsi un debito così cospicuo, molte famiglie rinunciano semplicemente ad iscrivere i propri figli negli atenei, mentre il tasso di disoccupazione giovanile aumenta in modo vertiginoso e il welfare è ristretto in maniera sempre più drammatica, ponendo l’Inghilterra in posizioni finora impensabili nelle classifiche sui tassi di povertà, mentre l’aspettativa di vita è persino più bassa di quella dei tanto vituperati paesi PIIGS. Tutti aspetti che il governo Cameron, nonostante il suo dichiarato euroscetticismo, addebita in modo molto conforme alle destre europee ai migranti che ruberebbero il lavoro e drenerebbero le poche risorse legittimamente destinate ai nativi inglesi, includendo nei suoi strali gli stessi cittadini dell’Unione Europea e offrendo il fianco a strumentalizzazioni a sfondo razziale delle estreme destre di British National Party ed English Defence League (le stesse usate per giustificare l’omicidio del migrante 19enne di Lecco Joele Leotta, lavapiatti ucciso nel Kent da alcuni coetanei lituani ma naturalizzati nello UK al grido di “Ci rubi il lavoro”). E che, peraltro, negli atenei si ripercuotono in legislazioni draconiane che impongono ai dipartimenti di comunicare alla UK Border Agency i risultati degli studenti provenienti da paesi esterni all’Unione Europea, pena la revoca dei visti e la deportazione nei paesi di origine.

Sarà pertanto interessante osservare nelle prossime settimane se, alle iniziative messe in campo dai sindacati tradizionali ed universitari si affiancheranno mobilitazioni più autonome e istituzionalmente incompatibili, che non puntino solo a vincere la questione vertenziale dei salari (per quanto rilevanti in termini reali), ma a rimettere radicalmente in discussione il modello di università neoliberale nel suo complesso, portando ad emergere quei segmenti di composizione sociale non normalizzati che ancora sussistono in uno dei sistemi universitari più classisti del pianeta. Segmenti sociali che sappiano, in altre parole, reinterpretare la radicalità emersa nei cicli di riot negli anni passati per ricomporre tutte le componenti marginalizzate, sfruttate ed escluse dal sistema dell’istruzione per praticare una rottura verso nuove direzioni possibili, resuscitando il motto “Università per tutti” dalla lettera morta verso declinazioni più ambiziose della mera salvaguardia dell’esistente, mentre la bolla della higher education sembra sempre più sul punto di esplodere…

per Univ-Aut, dall’Inghilterra, @PoliceOnMyBack

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