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SPECIALE BANLIEUE “Una nuova classe operaia in formazione”. Intervista con Atanasio Bugliari Goggia

Per aprire questo speciale sulla rivolta che sta infiammando la Francia in queste settimane abbiamo chiesto ad Atanasio Bugliari Goggia, autore di “Rosso banlieue. Etnografia della nuova composizione di classe nelle periferie francesi” e di “La Santa Canaglia. Etnografia dei militanti politici di banlieue” da poco uscito per Ombre Corte, di introdurci alcune chiavi interpretative per comprendere il fenomeno.

Qui l’introduzione allo Speciale Banlieue

Ci sono diverse letture di quanto accaduto negli scorsi giorni in Francia, ma per comprendere fino in fondo quanto sta succedendo dobbiamo analizzarne le premesse. Come è cambiato negli ultimi anni il panorama sociale delle banlieues?

Sicuramente il panorama sociale ha visto grandi cambiamenti. Si tratta di cambiamenti che non costituiscono nuove tendenze, ma rappresentano un inasprimento di quelle che, a mio avviso, erano già delle condizioni proprie degli anni 2005-2010, il periodo che ho preso in esame per le mie ricerche. Ecco, io all’epoca avevo visto una banlieue i cui abitanti costituivano una vera e propria classe sociale, che era stata in parte protagonista del ciclo di rivolte, un proletariato e sottoproletariato dalle sfumature cromatiche assai più variegate di quel che si pensa, poiché la percentuale di proletariato bianco, soprattutto in alcune banlieues dell’area parigina, non era per nulla irrilevante: si vive in banlieue perché si è poveri e non perché si è neri. Questo era il contesto sociale che mi sono trovato di fronte all’epoca: una novella classe operaia che si ritrovava a vivere di lavori precari e malpagati, stretta nella morsa di processi di controllo sociale molto forti legati alla crisi economica galoppante. Nel dettaglio, mi ero fatto l’idea che nelle banlieues si stesse realizzando un test per nuovi modelli produttivi e nuovi modelli disciplinari. Per nuovi modelli produttivi perché in quella fase si manifestavano i primi segnali di una crisi economica che poi si è vista essere non congiunturale, aggravandosi nel tempo. Sul piano della trasformazione dei modelli disciplinari, emanazione diretta della crisi economica, il grande capitale, il potere, aveva bisogno di controllare masse che diventavano ogni giorno più indisciplinate a causa del peggioramento delle condizioni di vita e lavoro. Quello che ho visto nelle rivolte della settimana scorsa ha a che fare con l’acuirsi di queste tendenze: la crisi del lavoro, con i conseguenti problemi di sopravvivenza per ampie fasce della popolazione, si è aggravata, è un dato indiscutibile. Sempre più gente vive di espedienti, di lavori precari, una classe medio-bassa che all’epoca riusciva a sopravvivere e adesso non ci riesce più è concentrata innanzitutto in banlieue. Quindi, questa attitudine a vivere di stenti, in perenne difficoltà, si è sicuramente estremizzata. Di conseguenza si sono intensificate anche le pratiche di controllo sociale nei riguardi di questa classe che è necessario inserire in un mercato del lavoro ogni giorno più schiavizzante. A mio avviso, quindi, la scorsa settimana si è assistito a rivolte di stampo insurrezionale che sono la conseguenza diretta di condizioni di vita diventate ancora più miserabili e di forme di repressione che riconducono al concetto di stato d’assedio: in generale, quei pochi che hanno parlato di guerra civile non erano così lontani dalla realtà dei fatti.

Appena è scoppiata la rabbia è tornata alla mente praticamente a chiunque (chiunque abbia una certa età) la rivolta del 2005. È un confronto che regge? E quali sono le similitudini e differenze?

Mi permetto di partire da qualcuna delle ipotesi contenute nei miei libri, innanzitutto dall’idea che l’emergere di nuove condizioni di lavoro nelle banlieues abbia rappresentato un tentativo da parte del capitale di testare sul terreno un modello basato su forme di lavoro del tutto precarie e prive di tutela e su modalità estreme di controllo sociale. Un paradigma che si voleva in quel momento imporre a livello globale; tentativo che, in effetti è in parte riuscito. In altri termini, la partita che si giocava in banlieue in una fase di caduta di profitti, chiamava in causa, anticipandoli, tanto una riorganizzazione delle forme di lavoro – che assumevano tratti di vero e proprio schiavismo – quanto, e conseguentemente, nuove forme di disciplinamento di una novella classe operaia, allo scopo di indurla a sottomettersi docilmente a questi nuovi processi produttivi. Il potere in definitiva ha testato in banlieue sia le nuove forme di lavoro che gli effetti che queste, associate alla necessità di nuovi modelli disciplinari di messa al lavoro, avrebbero prodotto in termini di capacità di reazione della classe. Non è un caso che i cicli di rivolta di cui mi sono occupato abbiano di poco preceduto o seguito lo scoppio della crisi economica del 2007. Dall’altro lato della barricata, infatti, lo sterminato proletariato di banlieue non stava a guardare, provando a rivoltarsi contro questi processi in atto, sospinto da solidi legami di solidarietà che si inserivano nel solco di una chiara visione di classe dei rapporti economici e sociali propria della maggioranza degli abitanti. 

Nelle banlieues vive una sterminata classe sociale riconducibile senza esitazioni al proletariato e sottoproletariato metropolitano, impiegata in lavori precari e malpagati, che nella sua componente giovanile più attiva è dotata di una straordinaria coscienza di classe, consapevole di appartenere al gradino più basso della società e capace anche individuare i responsabili di questa condizione. Il tentativo che all’epoca portavano avanti i militanti e le militanti più coscienti di banlieue – i gruppi organizzati – consisteva nella volontà di fornire ai giovani gli strumenti necessari per prendere consapevolezza della possibilità di modificare la propria condizione non solo attraverso rivolte temporalmente circoscritte, ma anche attraverso un lavoro politico di lunga durata. In altri termini, occorreva compiere il passaggio dalla coscienza di classe alla coscienza politica.

Ciò che più mi colpiva era il ruolo cruciale che, nella spinta all’azione, assumevano quei legami di solidarietà stretti tra gli abitanti e saldamente fondati su una stessa appartenenza di classe. Legami di solidarietà generazionali e intergenerazionali che, secondo la mia ipotesi, prendono corpo, da un lato, dalle umiliazioni che si subiscono quotidianamente sul lavoro, a scuola, nelle relazioni con la polizia e con le istituzioni in generale, dall’altro lato, attraverso la trasmissione della memoria delle lotte. Le banlieues francesi hanno una lunga storia di lotta e resistenza agite dalla loro componente di origine immigrata e dal proletariato e sottoproletariato francese relegato in periferia. In tal senso, ho parlato di “racconti che girano in banlieue” nel tentativo di rendere conto della capacità degli abitanti di costruire un orizzonte comune attraverso il richiamo a un passato di lotte e a un presente di sfruttamento.

Questo è il quadro che io ho visto, ed è lo stesso quadro di riferimento che vedo nelle rivolte di questi giorni, a partire da un dato indiscutibile: i mali che affliggevano le banlieues all’epoca della conricerca si sono senza dubbio aggravati. Razzismo e abbandono istituzionale, odio per i poveri, violenze poliziesche e soprattutto tassi di disoccupazione giovanile nell’area della prima periferia parigina superiori, tanto per fare un esempio, a quelli che si riscontrano nel Sud Italia. È possibile rintracciare l’evoluzione della parabola delle banlieues francesi in termini di repressione e controllo sociale, capacità di rivolta e possibilità di organizzazione, soltanto a partire dal dato oggettivo che la crisi di profitto – ciclica o irreversibile – del capitalismo sia più che mai al centro delle contraddizioni della contemporaneità. Ogni altra spiegazione del fenomeno banlieue – criminalità, islamizzazione, comunitarismo, dissoluzione dei legami familiari – attiene al campo della retorica borghese o a quello del particolarismo, che interpreta le rivolte leggendole volta per volta attraverso le singole controtendenze messe storicamente in campo dal potere economico e statuale in queste fasi: giro di vite securitario, abbandono istituzionale, fascistizzazione del sentire comune.

L’acuirsi della crisi economica ha determinato dunque delle differenze nelle relazioni tra potere e classe canaglia rispetto a quanto visto all’opera nell’ultimo decennio. Una traiettoria che interpreto tuttavia nei termini di evoluzione ed esasperazione di processi già in atto e non in termini di vere e proprie rotture. Traiettorie, inoltre, già visibili durante le proteste “bianche” dei gilet gialli, così come nel movimento contro la riforma delle pensioni e nel recente Soulèvements de terre ma che nelle ore successive all’omicidio di Nahel sono emerse in modo prepotente

In definitiva, non direi che ci sono elementi di novità che portano in un’altra direzione, ma è lo stesso fenomeno che prende un’altra piega in questa fase della crisi economica in cui anche altri settori sociali devono affrontare gli stessi drammatici problemi che muovevano all’azione i protagonisti delle scorse rivolte: strati di classe media che vive in banlieue e frazioni di classe medio-bassa che vivono in città e che sicuramente nei periodi delle mie ricerche godevano di condizioni di vita migliori rispetto ai banlieusards. Questo ha determinato una trasformazione nelle caratteristiche della rivolta. Ad esempio, si è vista una maggiore capacità e volontà di rischiare da parte dei giovani rivoltosi e delle giovani rivoltose, una propensione al rischio davvero notevole rispetto al 2005. Dunque, c’è stata una radicalizzazione che nel 2005 e nel 2007, per quanto si trattasse di cicli di rivolta imponenti, era assente. Se l’utilizzo della violenza come tattica politica contraddistingue da sempre i banlieusards, in questo frangente mi pare che ci sia stato un deciso salto in avanti.

Ciò è senza dubbio emerso non solo dalle modalità d’azione ma anche dalle soggettività coinvolte. È evidente, tra le altre cose, che le reti informali di mediazione – quelle a sostegno del potere così come quelle solidali con i banlieusards – sono completamente saltate, non giocando alcun ruolo nel contenere la protesta. Due esempi su tutti. È saltata la capacità delle organizzazioni criminali che gestiscono i traffici nei quartieri di agire da pompieri delle rivolte, come messo in luce da Emilio Quadrelli in riferimento a Marsiglia. Città come Marsiglia, che nei precedenti cicli di rivolta non sono entrate in azione in virtù della quiete imposta dai circuiti criminali, a questo giro sono letteralmente esplose. In secondo luogo, è venuta meno anche la capacità delle organizzazioni politiche di banlieue di interpretare il doppio ruolo che hanno rivestito negli ultimi quarant’anni: da un lato riempendo la rivolta di parole e contenuti politici, dall’altro orientandola strategicamente. Una crisi delle organizzazioni strutturate di banlieue – che si riflette sia sul piano politico sia nelle relazioni con i petits – dovuta a molteplici ragioni che ho approfondito nel mio ultimo saggio: La santa canaglia. Etnografia di militanti politici di banlieue. Anche per questi motivi la rivolta del 2023 costituisce dunque un salto in avanti notevole rispetto al 2005 in termini di radicalità, tanto da farmi propendere per l’ipotesi che si sia arrivati vicino a una guerra civile. Uno spregio del rischio che è emerso in maniera evidente, per fare un ultimo esempio, nelle decine di assalti alle armerie con l’appropriazione di armi – obiettivo del tutto ignorato nei precedenti cicli di rivolta – in qualche caso direttamente utilizzate contro la polizia e almeno in un’occasione contro un sindaco di periferia.

Inoltre, come anticipato, il peggioramento delle condizioni economiche ha provocato rabbia e malcontento in settori sociali che un tempo erano maggiormente garantiti: lo dimostra il fatto che a muoversi sono state anche zone precedentemente non toccate dalle rivolte, ad esempio Strasburgo o Nizza, due città che nel 2005 non erano state interessate da disordini perché la stragrande maggioranza della popolazione viveva in condizioni più dignitose, in una sopravvivenza non completamente miserevole. Si trattava in qualche modo di città privilegiate. Adesso si sono mosse perché una ampia fetta di popolazione di questi centri accusa una grande sofferenza economica. 

Lo stesso vale per l’estensione delle zone toccate dalle rivolte all’interno delle singole città: spesso i disordini si sono estesi ai quartieri alti di città medio-grandi, colpendo anche simboli del capitale un tempo risparmiati, dai grandi magazzini ai negozi del lusso.

Ravviso poi un’altra differenza, che si inserisce sempre nel solco di tendenze già in atto, nel fatto che quella che nelle mie ricerche definisco coscienza di classe in divenire dei banlieusards è emersa ancora più lucidamente, in tutta la sua forza, nel corso di questa rivolta. Nel 2005, al di là delle retoriche, gli obiettivi politici erano chiari e variegati: dalle agenzie interinali, alle fabbriche collocate in periferia per godere di consistenti sgravi fiscali ma in cui non si assumevano i giovani di banlieue, per arrivare ai commissariati e alle auto incendiate, che non sempre erano scelte a caso, ma in quanto di proprietà di fascisti, padroni eccetera. Tuttavia, in questi giorni di rivolta il salto dal punto di vista degli obiettivi presi di mira dalla protesta è stato enorme, anche in considerazione del fatto che la rivolta è durata cinque giorni contro i ventuno del 2005 e il numero di poliziotti sguinzagliati per le strade è stato infinitamente superiore.

I commissariati dati alle fiamme, una ventina nel 2005, stavolta sono stati attaccati sistematicamente, il numero di poliziotti feriti è stato tre volte superiore; inoltre – fatto inedito –, è stato appiccato il fuoco a municipi di banlieue e di città, colpendo con determinazione ancora maggiore il potere istituzionale. C’è stato un tentativo di incendio di quello che in Italia sarebbe il Ministero dell’Economia e della Finanza e sue diramazioni territoriali, e più in generale una escalation nella distruzione di “beni pubblici” che chiamano in causa direttamente lo Stato. In definitiva, gli obiettivi della protesta avevano questa volta una dimensione di classe più chiara. Tanto che è stato più difficile anche per il mainstream sostenere che gli obiettivi fossero scelti a caso, frutto di ras-le-bol. Se gli obiettivi della protesta rimandano a una cristallina coscienza di classe, la disponibilità al rischio e la capacità di fronteggiare le forze del “disordine” mostrano un’accresciuta capacità militare di stampo insurrezionale, a cui corrisponde un massiccio incremento nell’utilizzo degli strumenti della repressione. Basti pensare che i poliziotti impiegati nel 2005 erano circa 11.500 unità, mentre questa volta le unità sono state 45.000 più l’esercito. Infine, voglio citare un ultimo elemento: l’entrata in campo dell’estrema destra. Questa è solo in parte una novità, seppure le iniziative dell’estrema destra non avessero sortito alcun effetto nel 2005. Stavolta, grazie a una maggiore protezione offerta dalla polizia e a una maggiore legittimazione che queste frange fasciste incontrano nella società francese, che si sta spostando pesantemente a destra, questi cani da guardia del sistema sono potuti entrare in azione con relativa facilità in molte città come Angers, Lione e Nîmes. 

La destra, la polizia e i media francesi puntano a una “razzializzazione” della rivolta, ma a differenza di altre occasioni questo racconto sembra aver funzionato solo in parte. I movimenti sociali hanno tentato di comprendere le ragioni e in alcuni casi di portare il proprio contributo alla sollevazione. Alcune analisi che vengono da oltralpe affermano che ciò che spaventa fortemente le istituzioni è un’alleanza tra i settori razzializzati e i poveri bianchi. Che ne pensi?

Penso che le analisi degli ambienti militanti francesi siano in gran parte corrette. Il fatto che possa esserci una connessione tra i “razzializzati” della banlieue – che io definisco tout court nei termini di novella classe operaia all’interno della quale la componente di origine immigrata subisce un surplus di meccanismi di controllo e repressione – e i movimenti politici bianchi di città rappresenta il vero terrore per le istituzioni. Ed è un terrore fondato, per certi versi, perché a mio parere un riavvicinamento tra i movimenti di città e i movimenti di banlieue – ancora molto complesso sul piano politico in seguito a una storia di incomprensioni che va avanti da decenni che renderebbe necessario uno sforzo politico di ricucitura – è un fatto innegabile. Già da alcuni anni, ad esempio con il Comitato Adama Traoré e per certi versi anche con i Gilet Jaunes, si era visto un riavvicinamento, pur senza abbandonare una certa diffidenza reciproca. Tuttavia, il dato significativo è che c’è un riavvicinamento dal punto di vista del riconoscimento di classe, dunque un riallineamento oggettivo, ineluttabile, dovuto all’omologazione delle condizioni sociali, un processo che, riprendendo quanto dicevo all’inizio, ha causato povertà e sofferenza anche in quote considerevoli di abitanti di città. Dunque, ci si è confrontati con un nutrito proletariato “bianco” molto simile per condizione economica – e per il tenore della repressione che subisce – a quello di banlieue. Se pensiamo ai Gilet Jaunes, a Soullevements de Terre, al movimento contro la riforma delle pensioni, pur non essendoci una reale connessione con la banlieue sul piano politico, ci sono molte analogie nell’armamentario impiegato dalle istituzioni per reprimere i movimenti “bianchi” di città e le rivolte della periferia. Non si tratta di un passaggio da poco, perché nella misura in cui le condizioni di disagio economico si riallineano, conseguentemente si riavvicinano anche i termini del controllo sociale, e questo crea una saldatura, se non ancora politica, sicuramente sul piano dell’appartenenza di classe e sul terreno dello scontro politico. È chiaro che sopravvivono difficoltà di natura politica, che sono il portato di decenni di incomprensioni e si riflettono anche sul tipo di mobilitazioni in campo: nel momento in cui la mobilitazione riguarda un giovane ammazzato dalla polizia è più facile che questo crei una saldatura tra movimenti di città e movimenti di banlieue, perché ormai esiste un’esperienza comune nel grado di violenza esercitata dallo Stato e dall’apparato poliziesco. Quando invece si parla di Gilet Jaunes o del movimento contro la riforma delle pensioni, la ricomposizione è più complessa a causa della posta in gioco: il problema della “retraite” (il pensionamento) per fasce non indifferenti di abitanti della banlieue di origine immigrata esiste da trent’anni, è una questione che la riforma istituzionale non tocca minimamente perché già le condizioni sono peggiori di quelle che verrebbero applicate, e così è stato per molti cicli di mobilitazione che ci sono stati in Francia negli ultimi anni. Soprattutto quelli gestiti dalle centrali sindacali, che riguardavano in primo luogo l’aristocrazia operaia. In quei casi i giovani di banlieue non partecipavano perché non si sentivano toccati, dato che loro vivevano condizioni che da questo punto di vista erano già peggiori delle riforme legislative contro cui i movimenti di città si battevano. In definitiva, un riavvicinamento sul piano dell’appartenenza di classe è in corso, mentre il riavvicinamento politico rimane ancora problematico. 

Nel tuo libro uno degli spunti originali ed importanti è il tentativo di sfatare il mito della banlieue come luogo del lumpenproletariato contemporaneo. Ed in effetti se si va a vedere chi sono stati gli arrestati di questi giorni, l’identikit non è certo quello della marginalità sociale, ma di giovanissimi studenti e lavoratori spesso con la fedina penale pulita. Quali significati possiamo dare a questo tipo di attivazione? Siamo di fronte ad una “generalizzazione” del linguaggio della rivolta?

Innanzitutto, analizzando l’andamento dei disordini emerge un elemento che dimostra l’esistenza di una tendenza ad adottare il linguaggio della rivolta anche da parte di settori che prima magari potevano essere solidali, ma non si mobilitavano in prima persona: mi riferisco alla pratica dei saccheggi. Si tratta a mio avviso dell’unico elemento che non va nella stessa direzione del 2005, tracciando una traiettoria diversa, che fa emergere come ad entrare in gioco siano state anche fasce di popolazione che prima avevano contribuito alla estesa solidarietà in banlieue, senza tuttavia partecipare in prima persona alle rivolte. Il discorso della violenza è complicato, perché in banlieue si vive in uno stato di assedio continuo e i conti con la violenza in qualche modo si è costretti a farli quotidianamente. Quindi questo passaggio dell’essere maggiormente disposto ad assumere i rischi di un’azione violenta in prima persona simboleggia probabilmente un livello di esasperazione che è percepito da fasce più ampie di popolazione. Da questo punto di vista è chiaro che la rivolta ha toccato settori sociali che prima al massimo potevano essere solidali. I saccheggi per il pane, visti in molte città, per me sono un esempio magistrale di questo fenomeno. Un altro aspetto che mi pare importante rispetto alla repressione è il fatto che per tutti gli arrestati al di sotto dei diciotto anni è previsto che anche la famiglia subisca la stessa imputazione giudiziaria. Quindi se io ho meno di diciotto anni e vengo accusato di devastazione e saccheggio, anche i miei genitori saranno inquisiti, accusati del reato. Questo è un altro elemento che fa cogliere l’altissimo livello di repressione messo in campo, oltre all’entrata in scena dell’estrema destra e al fatto che la polizia abbia sempre più libertà di sparare impunemente per “merito” della legge sul “réfus d’ottémperer” messa a punto nel 2017 dagli scagnozzi di Hollande. L’impressione, guardando sia ai rivoltosi che alle agenzie della repressione, è che sia saltata qualunque forma di mediazione che magari ancora nel 2005 e nelle mobilitazioni successive in qualche modo reggeva. La battaglia si è combattuta veramente in campo aperto: dal punto di vista delle agenzie della repressione e delle istituzioni è saltata totalmente e definitivamente la maschera della “democrazia”. Non abbiamo assistito neanche alla pantomima legata ai diritti, alla “minoranza che sbaglia, ai tentativi di riassorbire la rivolta attraverso un discorso paternalista. I falsi ideali liberal-borghesi sono completamente saltati nel linguaggio del potere nel momento in cui la polizia spara impunemente, nel momento in cui viene organizzata una raccolta fondi per il poliziotto che ha ucciso Nahel e questa raggiunge un milione e mezzo di euro. Un messaggio chiaro: ammazzare un arabo non solo non è reato, ma può addirittura equivalere a vincere al lotto. Questo gettare la maschera da parte delle istituzioni corrisponde anche al liberarsi dagli schemi del disciplinamento da parte di chi agisce la rivolta. Gli assalti alle armerie, il fatto che ci sia stato un certo uso delle armi sono elementi che vanno in questa direzione. 

Quanto dici si può applicare anche alla presunta “islamizzazione” delle banlieue, sia come spauracchio agito dalla narrazione istituzionale, quanto come istituto della mediazione?

Questo è un po’ un discorso generale: il potere si mostra con il suo vero volto, saltano le mediazioni, persino la criminalità organizzata perde in alcuni casi il controllo, vi è inoltre come detto una crisi della militanza all’interno dei movimenti delle periferie. Dunque, è saltato il riconoscimento del controllo informale e formale dei quartieri, è saltato il riconoscimento delle forme di militanza in banlieue e nello stesso senso va anche il discorso sulla islamizzazione. Il discorso islamista già non ebbe presa nel 2005, ma poteva essere utilizzato dai media come spauracchio, oggi questo è un appiglio ancora meno solido. Anche se il tentativo di rifugiarsi in una religione consolatrice tende ad aumentare con la crisi sociale che si approfondisce e con le forme di militanza classica che sono entrate in crisi, ciò rimanda più che altro ad una dimensione privata, non giocando alcun ruolo nel favorire o inibire la rivolta. Tutte queste cinghie di trasmissione, positive o negative che siano, hanno ceduto e paradossalmente hanno posto una difficoltà a tutti gli strumenti ancillari del potere nel portare avanti una narrazione criminalizzante delle banlieues. A mio parere questa volta è stato molto più difficile perché il discorso razziale non ha retto di fronte all’evidenza che a muoversi erano fasce di popolazione molto più ampie, anche di città, il discorso dell’islamizzazione era complicato da mettere sul piatto, non era possibile neanche giustificare l’operato del poliziotto, dato che vi era una testimonianza video che mostrava in maniera plastica l’esecuzione. 

Quali saranno secondo te gli effetti di queste rivolte sul panorama politico e sociale francese?

Penso che questi cicli di rivolte dimostrino la presenza di una forte coscienza di classe all’interno delle periferie. Ho sempre sostenuto che in Francia esiste una nuova classe operaia che possiede una coscienza di classe che non ha eguali in Europa, per diversi motivi come detto prima, legati all’attualità e al retaggio delle lotte del passato. Ciò può portare a nuove rivolte, a nuovi momenti di pratiche politiche di questo tipo, ma vedo difficile la costruzione in questo momento di un movimento politico con parole d’ordine chiare e riconoscibili e ciò per la sostanziale debolezza di quello che nel mio ultimo libro definisco il primo livello della protesta: quello delle compagini organizzate di periferia. La debolezza deriva anche dal fatto che questo primo livello difficilmente è riuscito a portare a casa dei risultati politici concreti e questo ha un peso nell’immaginario dei ragazzini che scendono in piazza. Voglio precisare che la mia non è una critica al tessuto militante della banlieue: a creare questa situazione concorrono condizioni oggettive, tra cui l’isolamento in cui finora si sono mossi questi soggetti politici rispetto al resto dei movimenti in Francia e naturalmente l’incredibile livello repressivo che hanno dovuto subire. Questo modo di agire che si è presentato durante le rivolte e che io definisco affinità senza egemonia –  che si riferisce all’agire sulla base di un’appartenenza di classe ma senza una strategia politica chiara – è uno dei limiti di questi cicli, seppure per altri versi ne alimenti la forza. E non prevedo svolte nel breve periodo, sia per la crisi delle forme classiche di militanza, sia perché l’incontro con i movimenti dell’estrema sinistra di città, concreto sul piano dell’appartenenza di classe, ad oggi non lo è sul piano politico, come detto. Credo che assisteremo ancora a cicli di rivolte di breve-media durata in questo senso. Invece, per quanto riguarda l’agire delle istituzioni, il discorso è abbastanza chiaro, essendo facilmente osservabile la progressiva fascistizzazione delle istituzioni e della società che quindi una volta puntano sul razzismo, un’altra sulla classe canaglia e un’altra sul lumpenproletariato. Queste forme di repressione sempre più eclatanti sono destinate ad aumentare nel tempo. A noi in Italia le rivolte delle banlieues possono insegnare che è necessario insistere con un lavoro politico sulle periferie, perché se è vero che qui non abbiamo ancora un proletariato di periferia cosciente come quello francese, è altrettanto vero che quel poco che rimane delle strutture politiche di movimento mostra una capacità molto maggiore che in Francia di rapportarsi con queste componenti sociali, innanzitutto per l’analoga appartenenza di classe.

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Conflitti Globali

Kenya: le proteste della generazione Z contro il presidente Ruto si allargano alle classi popolari

Nuove manifestazioni ieri in Kenya, organizzate dalle associazioni per i diritti civili e dai giovani della Generazione Z. Lo slogan delle piazze è: “Ruto se ne deve andare”.