Stralci di inchiesta (11): le lotte nella logistica
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I: Per iniziare volevamo chiederti se ci racconti lo sciopero che ti è rimasto più impresso negli ultimi anni, quello che consideri più importante, o la cosa che più ti ha colpito di questi anni di lotte e che ti piacerebbe raccontare.
K: Io credo che sia il primo sciopero che ho fatto in Italia, quello di marzo 2013. La cosa che mi ha stupito di più è stato vedere il coordinatore nazionale del sindacato in prima fila a subire i manganelli, a scontrarsi con la polizia per difendere i lavoratori. Da lì ho capito che questo movimento operaio, questo sindacato di cui faccio parte (allora non ero ancora iscritto, anzi ero antisindacalista, non credevo nel sindacalismo – pensavo che tutti i segretari stanno nei loro uffici, seduti a far niente tranne che a dare ordini, e pensavo: “Sarà lo stesso anche per il SI Cobas, lavoratori che vengono organizzati da qualcuno che non si sa neanche chi è e fa mettere davanti i lavoratori”. Invece Aldo Milani in quello sciopero, dopo tutte le assemblee che avevamo fatto, abbiamo visto che non erano solo parole come per gli altri sindacati e partiti dove il capo non si mette in piazza ma solo parla, scrive e dà ordini. L’ho visto in prima fila a subire.
Quel giorno, durante le cariche ad Anzola Emilia, io non ho fatto altro che osservare. Perché era un mondo un po’ diverso e particolare, vedere in Italia (un paese dove si parla di democrazia, pace, legge…) un disordine enorme, vedere i lavoratori che prendono i sassi e li lanciano contro la polizia, vedere la polizia che arrestava la gente e la picchiava. E io sapevo il motivo, perché ero stato a un’assemblea. La prima assemblea a cui sono stato invitato era in un centro sociale, a Crash, e sono andato perché il delegato del mio magazzino era malato e mi aveva chiesto se potevo andare io. Da lì ho visto e partecipato a tutto il discorso, e poi ho partecipato a quella giornata e ho iniziato a creare rapporti con altre persone. Da quello sciopero, in cui ho visto che non c’era gente che chiacchierava, tutti dal capo fino all’ultimo operaio erano in prima fila per i diritti di dieci lavoratori licenziati all’epoca.
I: Dove lavoravi, cosa facevi in quel periodo?
K: In quel periodo lavoravo. Dal primo giorno che sono arrivato in Italia pensavo che le cose andavano bene, si lavora e basta rispettare le regole, e pensavo di poter lavorare, fare l’università e fare anche la mia vita privata. Quando sono arrivato qua […] pensavo fosse: 8 ore di lavoro, 8 di svago, 8 di riposo. Invece all’interno di queste aziende ho trovato un mondo molto diverso. Dicevano che c’era crisi e un calo del lavoro, ma la logistica ha avuto un aumento. Più chiudevano i magazzini, più ce n’era necessità. Perché non era una chiusura al 100%, ma solo uno spostamento all’estero. E quindi la logistica serve di più. Oggi tutti i magazzini infatti sono raddoppiati. Più si chiudono magazzini più la logistica cresce. E quindi di lavoro ce n’era tantissimo.
Si facevano tantissime ore, anche 16/17 ore, spesso di notte. A volte ero talmente stanco che cadevo sulle mie ginocchia, ma mi dovevo subito rialzare sennò se si vedeva la mia stanchezza sarei stato il prossimo licenziato – perché eravamo tutti giovani, tutti forti, e il primo che va dal medico a fare una visita, o si scopre che ha l’ernia al disco, viene subito isolato e mandato a casa o licenziato.
Io ho provato dal primo giorno a parlare con gli altri ragazzi. “Non si può vivere questa situazione, stiamo vivendo l’epoca degli ebrei quando erano schiavi degli egiziani. C’è una schiavitù, perché non facciamo qualcosa?”. La loro risposta è: “Siamo andati al sindacato, ma appena ci siamo andati quelli hanno chiamato l’azienda e ti minacciano di licenziamento. Quindi la legge non funziona, non c’è niente da fare, soprattutto con le cooperative che ti possono licenziare e tu non puoi fare niente, perché tanto dopo un anno cambia la cooperativa, la tua azienda non c’è più riparti con i permessi, riparti da zero con gli scatti di anzianità, sei come un lavoratore vergine”. Non puoi fare niente, anche se vai all’ispettorato del lavoro ti dicono che non c’è niente da fare. Io ho provato a fare una lotta da solo. Hanno provato a licenziarmi, ma perché avevo uno zio che aveva una conoscenza stretta con l’azienda mi hanno rimesso, ma ho dovuto stare zitto e non dire niente per mantenere il posto di lavoro. Ma quando è arrivato il SI Cobas e ha detto di fare sciopero e bloccare i magazzini ho partecipato.
Dopo quello sciopero di marzo 2013 ho capito che quella struttura è diversa e funzionante, si fanno le cose assieme, la lotta, ci si organizza sul campo. Quello ho visto in quello che è stato il primo sciopero generale del SI Cobas.
Poi c’è stata la lotta alla Granarolo, dove c’erano tantissimi lavoratori, ma magari ne parliamo dopo.
I: Avevi già avuto esperienze di lotta in Marocco?
K: Sì, mia madre faceva parte di un movimento femminile. Faceva le lotte e quand’ero piccolo ogni tanto mi portava ai cortei. Poi quando sono cresciuto ho avuto quell’anima di scioperare, di non avere paura di lottare per i propri diritti. A scuola e all’università ho sempre partecipato, senza una particolare logica o organizzazione. Quando vedo gli sbirri mi butto. Non avevo una coscienza politica, sentivo che c’era qualcosa che non andava. Se c’erano degli scioperi per la Palestina, io non facevo parte delle organizzazioni ma mi buttavo in prima fila. “Non dobbiamo avere paura, stiamo facendo una cosa giusta”. Poi al secondo anno di università in Marocco all’improvviso mio padre mi ha detto che era stata fatta una legge dal PD in Italia che consentiva di portare i lavoratori immigrati con un contratto in Italia. Mio padre mi ha detto: “Guarda, io pensavo che era una favola, ma mi ha chiamato mio fratello dell’Italia e mi ha detto che conosce bene il suo padrone e gli ho chiesto di fare questa domanda. Mi ha chiamato ieri e mi ha detto che devi andare subito, c’è il posto di lavoro, la busta paga, i documenti, c’è tutto. Quindi parti subito”. Io ho detto: “Come faccio ad andare in Italia se oggi in tutte le tv arabe dicono che il lavoro in Europa non c’è, c’è crisi, disoccupazione molto elevata…”. Lui mi ha detto: “Se c’è un contratto che devi solo firmare e hai già il posto di lavoro, vuol dire che è vero. Forse gli italiani non hanno voglia di lavorare… Vai a provare”. Allora ho accettato, in una settimana ho fatto tutti i documenti e sono venuto qui. Non sapevo parlare una parola, mi hanno subito assunto. Non c’era un lavoro particolare da fare: il camion arriva, bisogna prendere i pacchi e scaricarli, prendere i pacchi e scaricarli. Oppure al contrario: prendi i pacchi e carichi. All’inizio non avevo amici, non avevo niente, e quindi anche lavorare tanto non era un problema. E poi il fisico era giovane, non sentivo la stanchezze e la noia. Non avevo altro e non avevo posti dove incontrare della gente. Quindi lavori, dopo tante ore sei distrutto, stanco. Vai a casa, mangi, dormi. Ti svegli, vai al lavoro. Ho passato così quasi quattro anni, in cui lavoravo soprattutto di notte. Di giorno non recuperi la stanchezza. Non c’era un momento dove potevo imparare la lingua, incontrare degli amici, fare un’attività, andare al parco, giocare a calcio… Non c’era il margine per fare nient’altro nella vita: lavoro e dormire, riposi per andare a lavorare. Poi lo stipendio non era quello promesso. Io lavoravo quasi 16 ore al giorno e mi segnavano 4 ore, 6 ore… e ti pagano quelli. E non puoi parlare, non puoi fare niente. La lotta all’inizio è stata uno sfogo, e il sindacato è stato qualcuno che ci ha ascoltato perché non lo facevano gli altri sindacati, né la guardia di finanza o altri a cui ti rivolgevi. Solo questo sindacato ha detto: “Hai ragione e bisogna lottare”, mentre gli altri dicevano: “Se parli ti licenziano”. Per questo in questa lotta siamo andati con l’anima, e quando ci siamo iscritti al sindacato abbiamo visto per la prima volta la paura in faccia ai padroni. La prima volta che lo hanno saputo è arrivato il presidente della cooperativa, che non avevo mai visto, e ha detto: “Ti prego, ti do una lista di cento altri sindacati, iscriviti a loro!”. E vedevo la paura nella sua faccio, e ho capito che il SI Cobas fa paura. Sono stati anche i padroni in fondo a convincermi a iscrivermi.
Poi ho iniziato la lotta e ho visto che c’era una marea di scioperi, mentre prima sembravamo tutti zitti, con la testa bassa. Conta che la condizione è che in molti magazzini si prendevano 4 euro, o anche 3 o 2, quando invece ne dovevamo prendere 11 all’ora. Quindi ci si accontentava con poco, se il magazzino vicino prendeva meno. A volte non si tornava nemmeno a casa, c’erano lavoratori che riposavano giusto due ore in cassoni di camion, stavano sempre lì, 24 ore su 24 tranne i week end. C’erano magazzini, come SDA delle Poste italiane, dove (ci sono anche i video) i padroni giravano con una specie di frusta. La gente subiva non solo gli insulti e le umiliazioni insomma… Era appunto l’epoca degli schiavi sotto gli egiziani.
Il sindacato Si Cobas è partito da Milano poi è arrivato a Piacenza, e noi abbiamo iniziato a sentire che lì c’era una specie di rivoluzione che stava conquistando tutti i diritti dei lavoratori, che tornano le 8 ore di lavoro, che torna la dignità, che i lavoratori si organizzano e buttano fuori la cooperativa, che se arriva la polizia la mandano via, e poi manifestazioni, boicottaggi, strade bloccate. Sembrava che stessimo parlando del passato. E non è stata una cosa facile. C’era un ricatto forte. La questura di ricatta sul permesso di soggiorno e dicono che te lo bloccano se fai sciopero. Abbiamo visto macchine dei delegati bruciate e pestaggi nei magazzini e sotto casa, e succede ancora oggi. C’è una guerra… E siamo riusciti solo grazie all’unità tra diversi magazzini. La legge non ci permette di fare uno sciopero di solidarietà, ma noi ne abbiamo fatti migliaia. La legge non ci permette di fare sciopero mettendoci davanti ai camion, ma noi l’abbiamo fatto e abbiamo bloccato i cancelli. Quindi anche andando contro la legge siamo riusciti a cambiare e a riconquistare un po’ di diritti e quella dignità che non c’era più. Siamo riusciti a ri-ottenere le otto ore, e a farci pagare di più, secondo i contratti e le mansioni. In alcuni casi i facchini assunti con le cooperative hanno superato il salario che percepisce il dipendente diretto dell’azienda. A una trattativa mi hanno detto: “Guarda che sto pagando più ai facchini che quello che sto pagando agli impiegati”. Noi siamo convinti che se andiamo avanti con la lotta riusciamo anche ad aumentare e questi livelli, e il punto non è che siamo noi a chiedere troppo, ma gli altri a prendere poco e anche loro devono fare gli scioperi. […]
I: Come hai vissuto il fatto di essere un migrante, e che rapporto si è instaurato da questo punto di vista col sindacato?
K: Io ho conosciuto i comunisti in Marocco. Non parlavano di altro che insultare la religione e non facevano lotte. In università i comunisti sono quelli che bevono durante il Ramadan, e quindi ero contro. Poi sulla tv araba facevano vedere i black bloc, le macchine che bruciano, non si capisce quello che vogliono. Quando sono arrivato qui anche non capivo i centri sociali, e quando mi parlavano del sindacato mi aspettavo persone con la cravatta. Quando invece sono arrivato alla prima assemblea ho trovato un discorso politico, ho iniziato a conoscere le persone, ha sentire dei ragionamenti […]. Quindi mi è iniziata a crescere un’idea politica, ho capito che non bisogna credere a quello che dicono sui giornali o in tv, che bisogna capire come funzionano veramente le cose da vicino. Io nelle assemblee ho visto Aldo Milani, con una certa età, i pantaloni strappati, una giacca vecchia, e attorno tutti lavoratori immigrati. E non si parlava come davanti alle telecamere. E anche i ragazzi dei centri sociali ci spiegavano, e poi li vedevo in prima fila. E ho capito che questa gente è diversa da quella che ho visto in Marocco, che hanno un progetto e ci hanno aiutato a migliorare la nostra vita. Gli operai che stanno nel SI Cobas sono pakistani e marocchini, senegalesi o altro… e il 90% sono religiosi. Ma i comunisti che sono qua ok, magari sono anche contro la religione, ma non ti insultano, vengono lì sul posto di lavoro a sostenerti e non hanno un problema se sei cristiano, musulmano… Invece in Marocco se sei musulmano i comunisti ti insultano. Invece qui loro sono diventati miei amici e io sono diventato loro amico. […] Queste persone hanno cambiato la mia vita, prima ero uno schiavo.
I: Facendo un passo indietro, com’era la situazione quando sei arrivato a Bologna?
K: Allora, io sono arrivato nel 2009, e non conoscevo niente. Per tanto tempo non sapevo nemmeno dov’era il centro, non sapevo niente. Sapevo solo la strada per andare e tornare a lavoro. Il sabato e la domenica, visto che lavoravo di notte, volevo solo riposare, dormire, stare a casa, e godere il relax. Sabato fai la spesa, guardi la tv. Visto che paghi un affitto e paghi le bollette, almeno ho la tv e guardo la tv. Quando abbiamo conquistato più diritti abbiamo visto che possiamo guardare la tv tutti i giorni, giocare ai videogiochi, lottare quando bisogna lottare, posso fare le visite, prendere permessi […]. Dentro il mio magazzino c’era un capo che saliva sui bancali e gridava sempre, e aveva tutta una serie di suoi cugini e leccaculo che pagava in nero, quelli che gli offrivano sigarette e caffè… E a quelli lui dava le casse meno leggere. Anche per razzismo: a lui i pakistani e i marocchini stavano sul cazzo e gli faceva i lavori duri e difficili. Quando è partita la lotta siamo andati contro questo responsabile e l’abbiamo cacciato via. Dopo non hanno messo un nuovo responsabile. La casse, il lavoro… gli operai sanno già come si fa. Arrivate le casse, se sono libero vado a farla e ci si organizza. Quando ho bisogno del bagno o della sigaretta ci vado, basta che ci sia rispetto tra i lavoratori. Quindi hanno dovuto per forza assumere più gente e pagarci di più, e il lavoro è diventato più un luogo come casa tua. Non ci si va più con lo stress di prima, so che vado ma non mi spacco la schiena, se c’è un pacco che pesa 20 chili posso chiedere al mio vicino di aiutarmi, mentre prima dovevo fare tutto il lavoro da solo. Se anche un pacco pesa 50 chili devi farlo, sennò sei considerato un incapace e ti mettono in croce e ti mandano via. Oggi non c’è più quella concorrenza e la guerra tra i lavoratori. C’era la guerra tra etnie, il responsabile metteva i pachistani tutti al nastro, i marocchini solo a caricare, i bangladesh solo a scaricare, gli albanesi a sparare e fare le distinti, gli italiani solo in ufficio… e quindi ci si faceva gli insulti. Il marocchino diceva al pachistano che non era capace a fare il suo lavoro… ci si faceva guerra e concorrenza a chi lavora e si spacca la schiena. Se uno lavora di più fa perdere il lavoro agli altri, che lo odiano, e lui odia gli altri perché si pensa più bravo. Una guerra su cose fasulle, e il Si Cobas ci ha fatto capire che “Non c’è questa differenza tra bianco e nero, ma che il vero nemico è il padrone che vi paga poco, e siete voi che gli permettete di farvi licenziare, di non sostenervi a vicenda. Se state insieme il magazzino non va avanti, e li costringete a rispettarvi e a pagarvi bene e fare il lavoro come volete. Possiamo fare tutto a turni e dividerci tra di noi”. Questo ha creato armonia nei magazzini, un nuovo rapporto tra i lavoratori. […]
Nell’arco di tre anni questa cosa di è diffusa tantissimo, e ci sono migliaia di iscritti nei magazzini della città oggi.
I: Quali sono per te, dopo tanti anni di lotte, i risultati più importati e i problemi più grossi?
K: I lavoratori hanno riconquistato diritti e dignità, ma i padroni cercano sempre di riprendere il controllo del magazzino, perché vivono con l’ansia. Prima hanno provato con i leader del sindacato, di comprarseli […] anche a me han sempre fatto proposte di pagarmi […] ma nessuno ha fatto un passo indietro. Negli ultimi tempi, siccome il nome del SI Cobas è conosciuto, non serve più fare sciopero per ottenere dei risultati, basta fare le tessere che ti concedono un sacco di cose. Però era solo con lo sciopero che all’interno del magazzino si formavano delle condizioni diverse. In molti magazzini basta mandare una mail e l’azienda applica tutto senza far fare sciopero. Lì i lavoratori diventano più facili da comprare. I padroni riescono a dare premi di produzioni, magari tipo solo ai marocchini… Perché non si crea una coscienza. Poi sai, io non ho moglie e figli, quindi per me è più facile, ho potuto girare e capire come funzionano le cose. Molti lavoratori invece hanno anche 4 o 5 figli, quindi non riescono a partecipare alle assemblee, e non hanno capito come funziona, che se oggi ti danno un dito domani ti tolgono il braccio. Che bisogna stare sempre all’erta. […] Oggi i padroni cercano di andare braccio a braccio con i delegati e tanti ci cascano. E allora i lavoratori si dividono, c’è chi lo considera un venduto […]. Con le minacce e i manganelli alla fine si rafforzavano i lavoratori, che vedevano un nemico. Oggi i padroni dicono: “Lasciate il SI Cobas, io sono un vostro amico”. Fanno le cene aziendali… e in un po’ ci cascano. Soprattutto nei magazzini non hanno fatto grandi lotte.
[…]
I: Per te cos’è che ha portato all’esplosione iniziale delle lotte?
K: […] Noi tutti veniamo da situazioni più difficili di quelle che abbiamo trovato qua. Pensavamo che qui fosse meglio, ma comunque… La maggioranza di noi ha attraversato il mare per arrivare qui fino ha qui, si è rischiata la morte. Non si trovava il pezzo di fame, si ha fame, non ci si può permettere di comprare due vestiti o la tv, di mangiare frutta. La maggioranza in Marocco mangiava pane e tè, la carne la mangiano una volta al mese. In tanti erano in questa situazione, quindi anche se il livello di sfruttamento è alto, c’è un miglioramento. E quindi si dice: “Se possiamo ottenere qualcosa con una lotta, se possiamo ottenere meno ore, più premi… Cosa rischiamo? Di rimanere disoccupati un altro anno? Non ce ne frega niente. Per ottenere queste cose che ce ne frega di rimanere disoccupati, anche di andare qualche mese in carcere. Non c’era un grande rischio o preoccupazione. Mentre credo che un italiano, che ha già una casa, la televisione, che ha un padre che lo aiuta, quindi anche se guadagna un po’ meno ha la casa… Per l’italiano passare un anno senza poter comprare qualcosa in più sarà un crollo, mentre per noi si tratta di tornare a una situazione diciamo normale. Mangio pane e tè per un anno, tanto ho già vissuto tutta la vita così. È quello che ti dà la forza di non avere paura.
I: Hai altro da aggiungere?
K: Tra le altre cose abbiamo fatto un sacco di scioperi, ma non sono mai stati visti in tv o nel giornale; non che contasse qualcosa essere visti, ma adesso vedo magari la mia foto sul giornale e faccio “oh è uscito il SI Cobas, siamo usciti sul giornale”. Ora ogni giorno vedo un articolo sul giornale su questo sindacato. Vedi così che quello che fai è buono, che quello che stai facendo è importante, è la società, il mondo che ti sta riconoscendo e ti guarda.
E iniziando a leggere cambi anche certe idee, perché quando vai a vedere quello che è successo a Modena, con Aldo Milani arrestato, dacché conosci la situazione, i comportamenti e le persone, vedi sul giornale una cosa diversa, che Aldo Milani è stato arrestato per estorsione, e scrivono di due sindacalisti con una scena che è stata preconfezionata, che hanno preso soldi, sappiamo che ciò non ha niente a che vedere con il SI Cobas: è stato soltanto costruire l’immagine e cambiare il testo.
Quindi, da lì abbiamo fatto manifestazioni, scioperi, si è bloccata la strada, abbiamo bloccato la stazione ferroviaria e la città anche se era stato negato il centro, e abbiamo visto che i giornali dopo hanno scritto che il SI Cobas è potente: gli è stato negato il centro, per poterci fare la manifestazione, e allora hanno fatto il corteo, si sono scontrati con la polizia, han bloccato la stazione dei treni, e hanno conquistato anche il centro. I giornali hanno riconosciuto quello che è successo, perché l’opinione pubblica aveva visto e non si poteva dire altro, ma hanno aggiunto che tutto questo è stato fatto per liberare il sindacalista Aldo Milani colpevole di estorsione, quando noi sappiamo che lui non c’entrava niente con questa farsa. Quello che prendeva i soldi era della cooperativa dei Levoni, mentre loro continuavano a dire che era un sindacalista del SI Cobas, mentre noi continuiamo a dire sui nostri articoli che era un consulente dei Levoni. Da lì i giornali non hanno mai smentito, e abbiamo capito che contro di noi ci sono anche i giornalisti e anche la tv. Hanno cominciato a screditare non solo Milani, ma tutto il SI Cobas, perché non solo nel settore della logistica, ma in tanti altri settori, tantissimi lavoratori ci guardano, capendo che in questi momenti in cui c’è crisi stiamo conquistando tanti diritti, dignità, forza, libertà all’interno delle nostre vite, perché il posto di lavoro fa parte della nostra vita, e quindi stiamo conquistando questo qui e ora e in tanti lo stanno vedendo, e loro adesso stanno cercando con le immagini alla tv e sui giornali di dire che siamo uguali agli altri, che siamo dei venduti… Ma noi continuiamo, quelli che son vicini e vedono le cose di persona hanno capito, e tanti si stanno aggregando, così come alla Granarolo quando abbiamo fatto gli scioperi sono arrivati lavoratori anche da Pomigliano, da 800 chilometri, e dal Sud per capire cos’era quella lotta che stava andando avanti e poter ricostruire la stessa organizzazione lì al Sud. Lavoratori per giunta di diversi altri settori, dal metalmeccanico, ai dipendenti negli hotel, della sanità, delle scuole, che ci guardano, e altri ancora che non credono più ai loro sindacati e si stanno staccando e raggiungono il gruppo del SI Cobas.
La lotta di Granarolo è una, se non la più famosa lotta del SI Cobas, e ha segnato un salto di qualità, un caso in cui la repressione ha solamente rafforzato il fronte operaio, non lo ha diminuito. La lotta di Granarolo parte con una cooperativa forte, da un magazzino gestito dalla Lega delle Cooperative, che ha un grosso potere politico ed economico in città e nella regione, come in Italia.
Quando i lavoratori hanno scioperato all’improvviso senza avvertire l’azienda, a marzo, una volta rientrati dopo una settimana l’azienda si era riorganizzata e ha chiamato nuovi lavoratori. I cinquanta iscritti al SI Cobas erano stati lasciati tutti a casa. “Voi non mettete più piede qua, il SI Cobas non lo vogliamo all’interno”, “se ti togli il tesserino del SI Cobas puoi entrare in magazzino”, “chi è ancora tesserato con il SI Cobas non può entrare dentro”. Così i lavoratori hanno capito che bisognava iniziare la lotta e han dato via allo sciopero bloccando i magazzini di Granarolo. I primi blocchi li facevano solo in 50 lavoratori; subito appena bloccato arrivano due camionette di celere e sgomberano i lavoratori, e quindi c’era bisogno di un numero maggiore. Allora sono iniziati ad arrivare tutti i delegati di altri magazzini: si fa il permesso sindacale, e al posto di fare assemblea si andava a fare i picchetti. Arrivavano in risposta quattro camionette di polizia, e abbiamo capito che avevamo bisogno di una solidarietà ancora maggiore. Dall’inizio sono giunti assieme ai delegati anche i centri sociali, in questo caso il Laboratorio Crash!, e anche molti singoli solidali, a sostenere questa lotta qua. Così abbiamo creato una massa ancora superiore, e due camionette della polizia non ce la facevano più. Hanno iniziato perciò a presidiare i cancelli con quattro camionette. I giornali han fatto la propaganda contro il SI Cobas, avvertendo gli altri lavoratori che scioperare con il SI Cobas equivaleva a essere licenziato. Da lì abbiamo capito che c’era in ballo uno scontro politico.
E’ diventata una lotta in cui tantissimi lavoratori del SI Cobas hanno iniziato ad autorganizzarsi, a sentirsi il dovere di fare scioperi partendo da loro se stessi, senza attendere un segretario. I lavoratori delegati di diversi magazzini si confrontano tra di loro, con un coordinatore provinciale che pone il problema, e ci si mette poi tutti a cercare di risolverlo, scegliendo un giorno e andando a praticare il blocco. Questa lotta di Granarolo è stata una delle lotte più lunghe del SI Cobas, e tutti i giorni ci siamo trovati davanti ai cancelli: han provato con i manganelli, han provato ad arrestare i compagni, con un livello di repressione altissimo per poter sconfiggere la lotta, e dopo quasi sei, sette mesi è arrivata la notizia che la Granarolo aveva firmato un accordo in Prefettura insieme ai sindacati confederali, ai rappresentati dell’azienda e delle cooperative, annunciando che avrebbero trovato una soluzione per i lavoratori, a patto di fermare gli scioperi.
Ci si è dati un mese di tempo per il rispetto dell’accordo, un mese in cui i lavoratori non son stati fermi, andando a sostenere altre lotte; dopo sei mesi di scioperi alcuni di loro avevano perso la casa e si sono organizzati assieme ad altri per cominciare a occupare, rivendicando che occupare è giusto, perché non è giusto venire licenziati e perdi tutto, e ti tocca difendere lo sfratto. Nelle occupazioni hanno incontrato altre persone licenziate o che non trovavano lavoro né sistemazione, e si sono messi in gioco con Social Log a Bologna. Non erano più in fondo quei cinquanta lavoratori, son diventati tantissimi con le occupazioni, portando la solidarietà a tutti i magazzini dove c’erano problemi, andando fino a Roma, durante la Sollevazione, e nelle grosse manifestazioni in giro per il Paese, come a Torino per il No Tav. […]
Lì hanno incontrato persone descritte come persone che fanno manifestazioni per bruciare le città e spaccare i vetri, quando in realtà queste e i centri sociali stanno sempre lottato per i diritti anche dei lavoratori ed era giusto partecipare alle loro piazze. E’ cresciuta quindi una coscienza politica, allargando il fronte della solidarietà.
Tornando alla Granarolo, a un mese dall’accordo con il Prefetto, l’azienda aveva cambiato le carte in tavola, con la produzione e la distribuzione del latte che da prodotto era divenuto servizio pubblico essenziale e quindi scioperare significava una sanzione di ottomila euro per ogni scioperante. Sono sopraggiunte in quel periodo un sacco di denunce, solo a me dodici o tredici nel mese di marzo. Abbiamo visto che colui che gestiva il magazzino della Granarolo era diventato il capo della Lega Coop, Calzolari; e l’ ex-capo delle cooperative è diventato il Ministro del lavoro [Poletti]. Allo stesso tempo, siamo andati a chiedere conto dell’accordo in Prefettura e ci siamo sentiti dire che era stato annullato tutto, che non si riassumeva nessuno, e che andare a scioperare era utile solo per prendere altre denunce, perdere il permesso di soggiorno, e non ci sarebbe stato niente da fare, dicendo che con il cambio del Prefetto era saltato anche l’accordo. Un Prefetto famoso, peraltro, per aver costruito a Padova un muro divisorio fa stranieri e italiani, un razzista di primo livello.
Avevamo dunque tutto il mondo contro di noi e non avevamo altro se non decidere di andare avanti, o fare un passo indietro e trovare da soli una sistemazione ai lavoratori. Lì abbiamo fatto una assemblea, dentro il Laboratorio Crash, perché la sede del SI Cobas era piccola, e si è deciso con tutti i lavoratori presenti di tornare a bloccare. E’ stata una decisione di tutti i magazzini, perché se passava il ricatto alla Granarolo colpiva tutti gli altri.
[…]
Al ritorno al blocco, è sopraggiunta una marea di polizia che ha cercato di sgomberare, arrestando due lavoratori: qui è stata essenziale la contro-comunicazione, dato che i giornali hanno scritto solo quello che volevano, mentre noi abbiamo ribadito che c’era voluta una giornata intera per sgomberarci, tramite facebook, Infoaut, il sito del SI Cobas, e tanti altri mezzi, come Youtube, di cui un video è stato proiettato in tantissime città, chiamato “Granarolo – Settimana di passione”. Anche gli studenti dell’Università di Bologna hanno proiettato in Ateneo quel video, così come poi siamo stati chiamati dalla Germania, dal Brasile, Polonia, Francia, nonché in tutta Italia. In quel momento la lotta della logistica in Italia è diventata la lotta operaia più avanzata a livello europeo, e sono giunti attestati di solidarietà da tanti Paesi. Lì abbiamo capito di non essere soli, e di potercela fare. Anche agli scioperi non si era più in 70/80, ma il numero era in aumento e c’era chi ha proposto di fare una acampada giorno dopo giorno. Nonostante gli arresti, i ricatti, i gas lacrimogeni, le minacce date dalla Bossi-Fini, Poletti ministro, non ci siamo impauriti, anzi ci siamo rafforzati, e abbiamo continuato quella lotta lì ancora tanti altri mesi. La lotta ha preso anche altre forme, non solo quella del blocco dei magazzini, ma andando a interrompere convegni come quello di Granarolo a Milano, andando sul sito dell’azienda e sulla loro pagina Facebook, entrando nei supermercati per riempire i carrelli delle loro buste di latte e dire con il megafono “questo latte e queste mozzarelle sono basate sullo sfruttamento, e quindi non compratele”, e la gente lì ha iniziato a sentire e boicottare quei prodotti. Perciò, dopo quasi altri sette mesi, la Granarolo ci ha richiamato ad un altro tavolo per dirci subito che si faceva un altro incontro in Prefettura e si risolvevano i problemi. La maggioranza dei lavoratori non volevano nemmeno tornare a quel posto di lavoro, e hanno preferito accettare delle soluzioni economiche, e si è finito per optare per una metà degli operai che sono tornati a lavorare e gli altri che si sono presi i risarcimenti. Alla fine sui giornali si leggeva “la vittoria del cappuccino”, e tutta la propaganda minatoria dei mesi precedenti è saltata, riconoscendo che era stata ottenuta una soluzione giusta e di dignità per tutti i lavoratori, e sono stati costretti a doverlo sancire.
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