Sul non reddito di cittadinanza
‘Hearts starve as well as bodies; give us bread but give us roses’
Partiamo dal mettere nero su bianco, senza alcuna ambiguità, che quello proposto dal governo non è un reddito di cittadinanza. Si può avere approfondito maggiormente il tema – per motivi di legati alla ricerca, come nel mio caso, o ai motivi più svariati – oppure non aver mai affrontato l’argomento ma di certo è comprensibile per chiunque che il cosiddetto reddito di cittadinanza è, ovviamente, legato allo status di cittadino/a. Va da sé, dunque, che si potrebbe comunque criticare quel tipo di strumento e ragionare in termini di necessità e urgenza di un reddito di esistenza ma, quel che è certo, è che il dispositivo che sta creando ampio dibattito sui media e sui social network non è un reddito di cittadinanza. Questo è il punto di partenza imprescindibile. Le parole sono un campo di battaglia e la classe politica lo sa bene.
«Il reddito di cittadinanza è un trasferimento erogato a ciascun cittadino, a intervalli regolari, durante l’intero corso della vita, a prescindere dalle risorse detenute nonché dallo status lavorativo o da altre condizioni comportamentali. La finalità è dotare ciascuno di una base incondizionata di reddito cui tutti avrebbero diritto» (Granaglia e Bolzoni, 2016, p. 33).
Ci troviamo piuttosto di fronte a una forma di reddito minimo, un trasferimento erogato a chi non raggiunge la soglia di povertà stabilita dall’Istat in 780 euro per una persona singola. Al potenziale beneficiario/a viene richiesta – come condizione imprescindibile – la disponibilità a svolgere attività lavorativa; per questo motivo può essere anche definito reddito di inserimento. In nessun caso potrebbe essere un’alternativa al lavoro perché ogni beneficiario dovrebbe iscriversi ai Centri per l’impiego e accettare una delle prime tre proposte che gli verranno offerte. A questo si aggiunge una lunga serie di limitazioni e controlli al punto che il ministro del lavoro Di Maio arriva a dichiarare che «chi fa il furbo sarà punito con il carcere (!)» e ancora «Se imbrogliano si beccano 6 anni di galera per dichiarazioni non conformi alla legge». Non ritengo ci sia bisogno di dilungarsi particolarmente su affermazioni di questo tipo: penso abbiamo bene in mente quanto figure tutt’altro che marginali in questo Paese dichiarino continuamente il falso per ciò che riguarda titoli di studio, esperienze professionali, redditi ecc ecc e non abbiamo sentito invocare il carcere per loro, anzi. Che Di Maio non sia il paladino dell’onestà possiamo darlo per assodato così come è assodato che nella loro idea di misura di sostegno al reddito la priorità è assicurarsi che i poveri non potranno oziare. L’ozio è roba da ricchi sia chiaro.
In questa cornice il discorso sui “consumi immorali” ha giustamente creato un ampio dibattito e molti hanno scritto punti di vista interessanti al riguardo[1]; di nuovo è il povero che deve spendere le briciole a sua disposizione per cibo e beni di prima necessità – tutto da stabilire quali siano – e a cui è bene non lasciare a disposizione denaro in contanti perché chissà come lo spenderebbe…Anche in questo caso le parole del vice premier Di Maio non lasciano spazio a interpretazioni «Dovrà essere speso il 75% dell’importo per acquisti che assicurano la sopravvivenza minima dell’individuo».
Non sappiamo, inoltre, se e quali ulteriori aggiustamenti al ribasso verranno proposti dato che dei 16 miliardi a disposizione per reddito e pensioni bisognerà vedere quale importo alla fine delle consultazioni e negoziazioni sarà stanziato per questa misura di contrasto alla povertà.
Siamo di fronte a una misura criticabile sotto molti punti di vista: per il suo impianto workfaristico, per la sua ottica paternalista, per l’apparato di controllo… e che non assomiglia neanche lontanamente a un reddito di cittadinanza.
Ribadito questo, mi preme fare un paio di considerazioni sulla situazione precedente in materia di sostegno al reddito in Italia. Il punto di partenza è dato dal fatto che non è mai esistita una misura strutturale di sostegno al reddito – Chiara Saraceno (2015) al riguardo afferma che nel contesto italiano la povertà è una questione che non è mai stata affrontata – e nel giugno 2015[2] Matteo Renzi ha dichiarato «Il reddito di cittadinanza? É la cosa meno di sinistra che esista, significa negare il principio che l’Italia non è il paese dei furbi ma che chi lavora duro ce la può fare. […] È incostituzionale». Parole forti e profondamente pericolose per i messaggi che veicolano: implementare una misura di contrasto alla povertà sarebbe fare un favore ai “furbi”. Si parte dall’assunto che le persone povere siano potenzialmente delle persone che attuano frode, si nega la capillarità, la gravità e le condizioni strutturali della povertà in questo paese e si sostiene che ci siano responsabilità individuali per chi versa in condizioni di indigenza. Il centro sinistra su questo tema si è espresso così, ignorando volutamente che oggi in Italia 5 milioni e 58 mila[3] persone vivono in povertà assoluta e che rispetto al 2016 la povertà è in crescita sia per quel che riguarda gli individui sia per le famiglie. Ancora dai dati Istat leggiamo che la povertà assoluta per i giovani under 35 ha valori raddoppiati rispetto agli over 65. Un quadro decisamente disastroso e qualche anno fa la situazione non era certo rosea. La necessità di un intervento di redistribuzione è più che mai reale e urgente.
Ovunque in Europa nel solco del dibattito sul social investment – divisivo quanto centrale – sono state attuate misure cosiddette di attivazione. I sistemi di welfare sono stati accusati di inefficienza e di produrre dipendenza perciò i trasferimenti di denaro in ottica riparativa, redistributiva – definiti misure passive – hanno iniziato a essere accompagnati da “progetti personalizzati”. Tali progetti mirano al reinserimento lavorativo del soggetto che beneficia del sostegno economico, tramite corsi di formazione volti a migliorarne “l’occupabilità” oppure forzandoli ad accettare qualsiasi tipo di offerta lavorativa a disposizione. In questo contributo non ho la possibilità di ricostruire in modo approfondito come meriterebbe, data la sua rilevanza, il dibattito sul social investment. In estrema sintesi, secondo i fautori dell’investimento sociale è possibile conciliare efficienza ed equità, crescita ed inclusione sociale (Palier, 2013). Il lavoro è inteso come mezzo per l’inclusione sociale; il contrasto alla povertà si fa coincidere con le politiche di contrasto alla disoccupazione. Un aspetto da sottolineare è la tendenza sempre più diffusa a sostituire il concetto di disoccupazione con quello di occupabilità, questo per indicare l’enfasi posta sul soggetto piuttosto che sulle variabili di sistema. Tra i detrattori si sottolinea il rischio di non aiutare chi non è in grado di lavorare e Cantillon (2011) sottolinea per esempio come da quando questo paradigma ha assunto centralità la povertà non sia affatto diminuita e come quest’enfasi sull’occupabilità rischi di portare verso la creazione di any job piuttosto che di quality job, a dispetto di quanto teorizzato dai promotori dell’approccio.
Spesso, inoltre, chi si trova in situazioni di marginalità non ha bisogno esclusivamente di un lavoro o non ha bisogno per niente di un lavoro perché le difficoltà che vive sono presenti a vari livelli; altre volte invece l’unico problema di nuclei cosiddetti deprivati è la mancanza di risorse economiche, che se perdurano nel tempo, purtroppo sfociano di frequente in altro tipo di deprivazioni.
Da almeno vent’anni ormai le politiche sociali hanno come fulcro l’urgenza di “attivare” i propri beneficiari poiché – al di là delle diverse posizioni, con tutte le sfumature che le accompagnano – l’Unione Europea ha assunto il social investment come modello di riferimento e tutti gli stati membri si sono già mossi, o si stanno muovendo in quella direzione. In tempi di austerity in cui l’imperativo è ridurre la spesa si può facilmente capire come viene declinato questo approccio. Di tutto questo il dibattito pubblico in Italia non mi sembra se ne occupi; per questo reputo come un segnale positivo il fatto che con il governo giallo-verde si sia finalmente creato un dibattito sulla centralità del sostegno al reddito. Non mi pare siano mai usciti così tanti articoli di giornale al riguardo e anche in televisione e sui social network la discussione è molto vivace. In rete si ironizza giustamente sui presunti “consumi immorali” e…menomale! La stessa vivacità di discorso però non l’ho trovata nei commenti, negli articoli rispetto alla sperimentazione della Nuova Carta Acquisti (che poi darà il via al SIA e successivamente al REI). Con questa misura, introdotta dal governo di tecnico Monti nel 2011, di fatto i beneficiari avevano ugualmente una carta elettronica che in teoria veniva ricaricata mensilmente. Anche in quell’occasione le persone potevano accedere solo a un determinato circuito di supermercati e farmacie convenzionati ed effettuare solo determinati acquisti e non altri ritenuti, da chi aveva ideato la misura, superflui o inadeguati per quei nuclei. Scrivo nuclei perché ai singoli non era concesso questo aiuto e alle donne da sole era consentito esclusivamente se con figli.
Oggi è più che mai necessaria una presa di posizione netta, una mobilitazione sul diritto ad avere un reddito che permetta a chiunque di vivere una vita in condizioni dignitose, respingendo al mittente il paternalismo e queste pericolose retoriche sui “furbetti”. Serve aprire degli spazi di discorso che mettano in discussione l’obbligo per i beneficiari di fornire una contropartita: che si tratti di lavorare gratis, di frequentare corsi contro la propria volontà o di dover accettare di svolgere mansioni per cui non si è scelto di candidarsi.
Da una parte, quindi, questo governo ha dato un segnale rispetto alle politiche di austerity dei governi precedenti come scrive Salvatore Cominu nel suo commento[4] al Def mentre da sinistra continuano a blaterare esclusivamente di mercati, dell’Unione Europea che giudica questa manovra incosciente e della BCE che dichiara che non fornirà aiuti all’Italia in caso di crisi di liquidità, ignorando che per una parte considerevole di quanti/e vivono in situazioni di povertà la possibilità di avere accesso a un reddito, anche se minimo, è la priorità. Non è un dato che si può ignorare. Lo sa bene anche Berlusconi maestro della comunicazione – e di certo non uno che ha fatto dell’austerity la sua bandiera – che qualche tempo fa ha fatto una delle sue dichiarazioni ad effetto dicendo che il centrodestra avrebbe garantito 1000 euro al mese per tutti.
Nello scenario attuale vediamo il movimento femminista giocare un ruolo di primo piano. Seppure all’interno di Non Una di Meno non vi siano esclusivamente persone che si definirebbero donne, è innegabile che queste ultime – in quanto uno dei principali soggetti sotto attacco – si stanno contrapponendo frontalmente al governo. L’assemblea nazionale di Bologna ha decretato lo stato di agitazione permanente, la manifestazione di sabato 13 a Verona ha visto migliaia di persone scendere in piazza e altre due date riguardano solo il mese di novembre. In queste occasioni – il 10 novembre manifestazione per il ritiro del DL Pillon e il 25 corteo nazionale in occasione della Giornata Mondiale contro la violenza maschile sulle donne – Non una di Meno sceglierà di parlare anche di violenza economica e quindi di reclamare con forza un reddito che non sia solo strumento di aiuto per la fuoriuscita dalle situazioni di violenza bensì strumento di prevenzione contro la stessa? La sfida riguarda la scommessa rispetto alla ricomposizione seppur minima; è possibile che passi (anche) da queste politiche della miseria?
Non ci sarà un governo illuminato che deciderà di concedere qualcosa di più delle briciole e anche per quelle briciole il prezzo da pagare sarebbe senza dubbio molto alto. Sta a noi impedire che l’urgenza della redistribuzione del reddito sia ignorata o affrontata in questi termini, a noi ribadire chiaramente cos’abbiamo in mente quando parliamo di diritto al reddito e di lottare per conquistarlo!
Daniela Leonardi, ricercatrice
Riferimenti Bibliografici
Cantillon, B., (2011), The paradox of social investment state: growth, employment and poverty in the Lisbon era, «Journal of European Social Policy», 21.5, pp. 432-449.
Granaglia, E., Bolzoni, M., (2016), Il reddito di base, Ediesse.
Palier, B., (2013), Social policy paradigms, welfare state reforms and the crisis, in «Stato e mercato», No. 97, il Mulino, pp. 37-66.
Saraceno, C., (2015), Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi, Milano, Feltrinelli Editore.
[1] Cfr., https://ilmanifesto.it/il-paternalismo-digitale-di-stato-controllera-la-moralita-dei-consumatori-poveri/.
[2] Cfr., https://ilmanifesto.it/renzi-reddito-di-cittadinanza-roba-da-furbi/.
[3] Cfr., https://www.istat.it/it/archivio/217650.
[4] http://commonware.org/index.php/neetwork/856-appunti-sulla-manovra-giallo-verde.
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