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Tavecchio e l’allergia alle banane

Ora non si tratta di trasformare Tavecchio in Mengele, gioco cretino che serve solo a svalutare gli atti veramente gravi, ma nemmeno far finta di niente. Specie in un paese che ha, troppe volte, declassato a folklore pericolose paccottiglie ideologiche. Finendo per favorire luoghi comuni come “ai negri bisogna prendere le impronte dei piedi”, “non vorrei che i miei figli avessero insegnanti omosessuali”, “i giovani sono bamboccioni”, “basta con il mito del posto fisso”. Tutta roba finita non solo a destra ma anche a sinistra (che si è presa tutti i luoghi comuni sul lavoro e sulla flessibilità) ma anche in disegni di legge. Non a caso questo è un paese dove non sono ancora riconosciute le unioni civili, gli extracomunitari vengono ingoiati nei Cie, quando non direttamente dal mare di Lampedusa, il lavoro somiglia sempre più alla sottomissione. Questo per dire che quando parlano i Tavecchio, parla l’Italia dell’arretramento dei diritti e delle garanzie.

Dal punto di vista della politica sportiva, Tavecchio rappresenta un formidabile blocco di potere, sostanzialmente in quota centrodestra ma con agganci importanti nel centrosinistra, che gravita attorno allo sport italiano da prima della caduta del pentapartito. Basti dire che grazie a Tavecchio ha ripreso la parola Franco Carraro, ex sindaco di Roma, Psi e presidente di cariche strategiche dello sport quanto coinvolto in diversi scandali (si dimise col caso Moggi), o come l’ormai noto presidente della lega dilettanti abbia il consenso di uomini che hanno tre-quattro decenni di potere sportivo dietro le spalle (come Pescante e Petrucci).

Tavecchio raccoglie poi il consenso del potere Mediaset e della lega pro e dilettanti che rappresentano una bella quota di voti e di potere. Sostanzialmente il vecchio calcio paternalistico che ha esaurito un ciclo e che non vuole andare in pensione. Non a caso società che si vogliono esponenti del nuovo capitalismo nel calcio (Juve, Roma), quello degli stadi di proprietà e del project financing si sono opposte subito a Tavecchio. Che vuole un calcio dove contano le vecchie relazioni di potere non le nuove. Non è nemmeno un caso che sia la Fifa che la Uefa, in misura diversa, abbiano colto la palla (anzi, la banana) al balzo per attaccare Tavecchio. Sia per motivi di immagine, il calcio vende e fa circolare profitti solo come fenomeno multirazziale e senza barriere, che di politica ecomica del calcio. E’ evidente che, 20 anni dopo la legge Bosman sulla libera circolazione dei calciatori (e quindi dei capitali legati al calcio), in Europa si teme una qualche forma di protezionismo. Che blocchi i calciatori, e quindi i capitali, scatenando il classico blocco dei commerci a causa del protezionismo. Come è evidente che, essendo l’Italia attualmente sganciata dalle grandi politiche attuali del calcio (su stadi, forma finanziaria dei club, differenziazione dei profitti oltre i diritti tv), un Tavecchio non la porterebbe certo verso il nuovo capitalismo calcistico. Ecco quindi le censure sovranazionali all’autore di battute da film di serie B anni ’80.

La domanda adesso diversi si fanno è: diventarà Tavecchio presidente della Ferdercalcio? Per adesso il presidente del consiglio, nonostante il Pd abbia attaccato Tavecchio, ha rimarcato l’autonomia della federcalcio ben sapendo, in caso di affermazioni diverse, di poter urtare troppe sensibilità nel centrodestra. Poi, se la situazione peggiora, si vedrà. E’ anche vero che, nell’Italia di oggi, a differenza di quella ruspante dei Bossi e della Lega che ce l’aveva duro, nonostante la sinistra si sia liquefatta, il politicamente corretto ha un potere coercitivo più alto di qualche anno fa. E’ più facile essere inquisiti per aver distratto fondi regionali e rimanere in carica, come un sottosegretario del governo Renzi,  che rimanerci dopo aver detto una battuta stupida sulle unioni civili (è accaduto ad un sottosegretario del governo Letta). Perché il politicamente corretto, al di là della sua origine di sinistra, rappresenta oggi la sensibilità di un capitalismo globale che non vuole barriere o pregiudizi. Verso gli affari s’intende. I diritti, quelli veri, non c’entrano nulla. Quindi staremo a vedere.

Rimane Tavecchio che sembra uscito da un film sul calcio di 30 anni fa. Senza l’allegria, e le vittorie, di allora. Già perché il calcio italiano non è più nè uno sport popolare, coinvolgente nè vincente. Restano debiti, stadi vuoti, partite inguardabili e dirigenti da avanspettacolo.

redazione SenzaSoste, 28 luglio 2014

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