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Tutto un programma di ricerca

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Nono contributo, inviato da Raffaele Sciortino, dei materiali preparatori per il convegno del 3 ottobre a Bologna organizzato dal Laboratorio Crash! intitolato “Città, spazi abbandonati, autogestione” (qui la call, qui i precedenti scritti di Pietro Saitta, Gennaro Avallone, Ugo Rossi, Henri Lefebvre, Salvatore Palidda, Giorgio Agamben, Salvo Torre e Tiziana Villani). Chi volesse contribuire al dibattito inviando dei testi può mandarli a conferenzacrash@gmail.com e verranno pubblicati su Infoaut prima dell’iniziativa in modo da arricchire la discussione. Ricordiamo inoltre che l’invito è a presentare brevi abstract di interventi per costruire il programma delle due sessioni del convegno.

di Raffaele Sciortino

Vi presentiamo un intervento che offre uno sguardo critico sulle principali chiavi di lettura con cui viene tematizzato il nesso tra spazi urbani, forme di accumulazione e lavoro, all’incrocio tra sfruttamento ed estrazione di valore. Compare come contributo nel volume appena pubblicato a cura di E. Armano e A. Murgia, “Le reti del lavoro gratuito. Spazi urbani e nuove soggettività”, ombre corte, 2016

[http://www.sinistrainrete.info/analisi-di-classe/7106-raffaele-sciortino-tutto-un-programma-di-ricerca.html]

È indubbio che la crisi globale, tutt’altro che chiusa a otto anni dal suo scoppio iniziale, si pone sempre più come prisma attraverso cui scomporre il variegato assemblaggio neoliberista [2], ricostruire la sua genealogia troppo spesso data per scontata, ragionare sulla sua tenuta o dissoluzione (in quale direzione?). A maggior ragione ciò dovrebbe valere, in sede analitica e teorica, per l’intreccio tra spazi urbani, finanziarizzazione e forme emergenti di lavoro, che di quell’assemblaggio sono se non il cuore, certo un tassello cruciale. Tutto un programma di ricerca che dovrebbe innanzitutto mettere a verifica le letture esistenti, anche facendole cortocircuitare, per mettere a tema il gioco complesso e aperto tra l’irrompere di nuove dinamiche e il trascinamento o la cronicizzazione di vecchi meccanismi: se e cosa sta cambiando nella “città neoliberale” quanto ai meccanismi di estrazione del valore, alle composizioni del lavoro, alle forme di governance e al loro rescaling [3], nonché alle dinamiche della soggettività, quella piegata e rassegnata se non disperata, quella guardinga e opportunista ma inquieta, quella smarrita ma potenzialmente contro.
In attesa di nuove ipotesi, che però difficilmente emergeranno senza l’impulso di pratiche collettive forti e ampie che ad oggi latitano, voliamo basso e proviamo a buttare giù una tipologia (critica) delle letture critiche più diffuse e in qualche modo rappresentative rispetto al rapporto tra spazio urbano “globalizzato”, forme di accumulazione, lavoro. Senza pretesa di esaustività, va da sé, e provando a fare virtù di una competenza solo cursoria nel campo. Se una tipologia, oltre a lavorare sui concetti di un campo, riesce a cogliere qualche nodo di fondo, parte della sua funzione è assolta.

Lo schema si può sintetizzare così:
– lettura anti-“neoliberista” della cronicizzazione dei meccanismi di finanziarizzazione dell’economia;
– lettura della dispossession ovvero della nuova rendita urbana come assorbimento del surplus nella forma di pratiche predatorie;
– lettura estrattivista di matrice post-operaista incentrata sul meccanismo della cattura.
Nel primo tipo di lettura viene ad espressione il sentimento “spontaneo” avverso al neoliberismo, così diffuso da andare al di là dei riferimenti precisi che vi sono in letteratura [4]. Qui, al tempo stesso, si denuncia un capitalismo in cui profitto e rendita speculativa (finanziaria, immobiliare, urbana in senso lato, ecc.) sono venuti a collassare, e si punta a un ritorno ai bei tempi andati del keynesismo, auspicando una qualche ri-regolazione dei mercati che separi l’economia “reale” dalla “speculazione”. Le trasformazioni urbane – dalla città come growth machine alla città imprenditoriale, giù giù fino alla città creativa e smart – vengono lette prevalentemente sotto la lente della gentrification e delle privatizzazioni, come spazi di consumo di merci e servizi e circolazione di capitali più che come spazi produttivi e riproduttivi ristrutturati dalle filiere globali. Del lavoro viene colta la precarizza- zione, ma come degenerazione non inevitabile di moderni e normali processi di flessibilizzazione legati alla terziarizzazione. Su tutto, il richiamo in positivo alla dimensione pubblica come ancora di salvezza e leva per una ripubblicizzazione dei beni privatizzati, o almeno per salvare il salvabile del welfare statale e locale. Il che può darsi o nella forma keynesiana dell’intervento statale pro beni pubblici o in quella polaniana di beni comuni da difendere o affermare, in un senso più difensivo o più offensivo ma pur sempre come nuovi “diritti”.

Insomma, abbiamo qui una lettura che difficilmente si può considerare all’altezza delle trasformazioni profonde e delle caratteristiche sistemiche dell’accumulazione finanziaria, con conseguente e irreversibile ristrutturazione degli stati, dei rapporti produttivi e di classe complessivi. Gli spazi metropolitani risultano separati dagli spazi della produzione globalizzata e connessi per lo più alla rendita. Questa al contempo viene troppo in fretta liquidata come speculativa, non se ne colgono le nuove caratteristiche e l’intreccio oramai strutturale, ancorché sfuggente, con i fattori della “crescita”: a questa la neo-rendita – in una battuta: il mattone come derivato [5] – non sottrae semplicemente risorse, che meglio funzionerebbero in un presunto capitalismo non speculativo, bensì offre asset, spazi e meccanismi essenziali alla riproduzione allargata dei profitti. La sua distruttività andrebbe allora cercata a un altro, più profondo livello, quello della riproduzione sistemica complessiva, che però questo tipo di analisi non sfiora neppure [6]. Non restano, così, come alternativa che l’aspirazione vaga a un “altro” modello di sviluppo o l’opzione decrescita.
La seconda lettura è quella di una sinistra, diciamo così, “marxista-keynesiana”, di cui i lavori di David Harvey sono la più chiara ed elaborata esemplificazione [7]. Secondo questa interpretazione, che riprende tutto un filone critico di geografia urbana  [8] emerso con e dopo la crisi degli anni Settanta, la rendita che imperversa negli spazi urbani, e non solo, aperti dall’offensiva neoliberista è di tipo nuovo, finanziarizzata, sostanzialmente funge da assorbimento del surplus che un’accumulazione capitalistica inceppata non riuscirebbe altrimenti a realizzare e a convogliare verso un ulteriore rilancio. Dove l’assunto di fondo sottoconsumista è quello per cui l’accumulazione di capitale non è in grado di creare la domanda che soddisfi le condizioni della realizzazione del profitto. Questo assorbimento avviene allora attraverso la mercatizzazione e finanziarizzazione dello spazio urbano (uno degli spatial fix) come surrogato e soluzione parziale – parziale perché porta poi alla speculazione finanziaria e immobiliare e allo scoppio delle bolle così createsi – al blocco della riproduzione allargata di capitale basata sull’estrazione di valore dal lavoro. È ciò che si manifesta sotto forma di pratiche predatorie rispetto allo spazio urbano attraverso quei meccanismi di dispossession (espropriazione) che rieditano in forma nuova la marxiana accumulazione originaria.
Risuona qui neanche tanto lontana l’eco della visione braudeliana della finanza come autunno di una fase di accumulazione capitalistica, coniugata con una lettura ciclica di questa come alternanza di espropriazione e riproduzione allargata. Il punto critico di questa lettura – che ha molti meriti sia nel render conto dell’attualità sia nel tracciare la genealogia del neoliberismo – è proprio che la global crisis è vista da un lato appunto come fenomeno ciclico, dall’altro come fattore di approfondimento dei meccanismi neoliberisti e neoliberali piuttosto che come loro messa in crisi. Inoltre, il presupposto è qui l’esteriorità reciproca tra spazi e accumulazione capitalistica per cui lo spazio viene sussunto ma poi resta un residuo che serve di volta in volta da valvola di sfogo e così via.

La risposta alle pratiche predatorie è il diritto alla città, sulla linea del marxista francese Henry Lefebvre che già negli anni Sessanta rilevava l’inadeguatezza di una strategia limitata ai lavoratori di fabbrica e alla società industriale e invitava a porsi nella prospettiva della “società urbana” e del lavoratore urbano e più in generale di una riappropriazione della vita quotidiana [9]. Il diritto alla città in questa riattualizzazione diviene una sorta di significante vuoto che si può riempire con l’insieme delle istanze di riappropriazione dei luoghi urbani, già preda di vecchie e nuove enclosures, e di ricostruzione di legami sociali assorbiti e frantumati dal capitalismo neoliberista. Un diritto che vuole opporsi alle false soluzioni “progressiste” tutte in vario modo incentrate sui diritti di proprietà individuali e sull’attivazione di pratiche e dispositivi improntati all’individualizzazione.
Quello che si configura è però una sorta di keynesismo “territoriale” radicalizzato, in cui non solo risulta evanescente il nodo del potere e dunque dello Stato, ma il diritto alla città fatica ad essere articolato con le nuove forme del lavoro industriale: ci si concentra con efficacia analitica e capacità di suggestione politica sulla produzione dello spazio urbano ma molto meno sullo spazio della (neo) – produzione, ovvero su quello che è diventato l’“industriale” oggi, con tutti i problemi che questa categoria può sollevare (ma non per questo può essere dimenticata o aggirata). Non è tanto che il diritto alla città si attardi ancora sulla città e sul lavoro industriale fordista – anzi l’accento cade sull’importanza dei fenomeni circolatori e sui lavori propri dell’“accumulazione flessibile”. Per certi versi vale più l’opposto: tra i meccanismi indagati della dispossession e il tentativo di rilancio dell’accumulazione allargata attraverso l’organizzazione d’impresa dello sfruttamento si fa fatica, in questo tipo di lettura, a trovare un nesso intrinseco.
La terza lettura da considerare è quella dell’estrattivismo sub forma di cattura di matrice post-operaista. Partendo dall’assunzione del capitalismo cognitivo [10] come nuova figura e fase che avrebbe definitivamente superato il capitalismo industriale sulla base della riappropriazione delle (nuove) macchine da parte dei soggetti lavorativi, l’accumulazione diventa un dispositivo esterno di estrazione rispetto alla cooperazione sociale e produttiva oramai autonoma, il comune, già data sull’intera spazialità della produzione sociale e in particolare sullo spazio metropolitano. È il frutto di questa cooperazione – valore indistinto prodotto nella società dal lavoro concreto divenuto immediatamente sociale – a rappresentare il surplus su cui agisce il meccanismo della cattura, che astrattizza quel lavoro attraverso la misura finanziaria. La metropoli è di per sé produttiva, i soggetti che la percorrono costituiscono la moltitudine. Di qui la tesi: la metropoli è oggi per la moltitudine quello che la fabbrica era per la classe operaia [11].

Questa lettura ha il merito di incentrarsi sul nesso metropoli-produzione, da un lato, e sui soggetti variegati ma ac/comunati, contro le tendenze frammentiste proprie dell’immaginario postmodernista della città neoliberale, dall’altro. In più, sa cogliere alcuni caratteri emergenti del lavoro e, più in generale, dell’attività. Ma cercare una cifra comune è un conto, pensare di averla trovata è un altro ovvero, con altra terminologia, una composizione tecnica del lavoro non è già di per sé una composizione politica di classe. C’è qui infatti tutta una serie di problemi. Primo, a partire dalla presupposta esternità tra comune e moltitudine da un lato e accumulazione finanziarizzata dall’altro, scompare il momento dell’impresa, o meglio l’impresa è sostanzialmente la corruzione della cooperazione già data, non è vista come un momento ancora centrale dell’accumulazione, ancorché riconfigurato, che a tutt’oggi organizza dall’interno l’estrazione del valore (il che equivale a dire che il lavoro nel capitalismo non è immediatamente sociale). Gli spazi e le attività metropolitani sono così in prima istanza una costruzione sociale autonoma della moltitudine, e non l’oggettivazione delle nuove forme di capitale fisso, un capitale di network che in qualche modo è diventato una macchina delle macchine che permette di sussumere il lavoro a livelli inimmaginabili. Secondo, se la cooperazione è semplicemente “corrotta” dall’esterno, non si ha modo di tematizzare l’ambivalenza delle figure produttive e sociali che in essa convergono, delle soggettività: il problema non è qui che il capitalismo non coopera, ma per che cosa si coopera e come. La capacità del capitalismo è quella di sussumere in continuazione la capacità cooperativa, la creatività, l’autonomia. Terzo, il focus quasi esclusivo diviene gioco forza quel tipo di lavoro (concreto) che incorpora, o pare incorporare, solo caratteristiche di autonomia e creatività: il lavoro cognitivo o del terziario avanzato diventa, come in una sineddoche, il lavoro tout court mentre risultano obliterati gli aspetti di impoverimento dell’esperienza, portato delle nuove macchine.

Si rischia dunque anche in questa lettura una certa indistinzione, piuttosto che articolazione, tra forme dello sfruttamento, della rendita, della finanza. e, sotto il profilo più rivendicativo e strategico, l’assunzione di una cooperazione autonoma già data cui si tratterebbe semplicemente di dare espressione con rivendicazioni incorniciate, alla fin fine, intorno alla richiesta generalizzata di reddito, fa premio sull’immane problema del “fare comune” tra soggetti diversi finalizzato non solo alle sacrosante rivendicazioni immediate, ma alla ricostruzione della stessa vita sociale nel momento in cui la riproduzione capitalistica sistemica si disconnette dalla riproduzione sociale rendendo “superflua”, anche solo a ritmi alterni, una parte vieppiù crescente delle popolazioni. La città in corso di ristrutturazione non solo è sempre più luogo di intreccio ambiguo, se non vera e propria con-fusione tra produzione, circolazione, consumo, ma altresì di razzializzazione e disconnessione nel quadro, è bene non dimenticarlo, di una rete globale non piatta ma differenziata lungo le linee della nuova divisione internazionale del lavoro [12].
Concludiamo. La finanziarizzazione è un mix peculiare di questa fase del capitalismo. Da un lato c’è l’aspetto dell’estrazione, della speculazione, del divenire rendita del capitale – qui bisognerebbe riprendere la categoria marxiana di capitale fittizio ma molto più a fondo di come fa Harvey [13]  – dall’altro però questo meccanismo è oramai così pervasivo e interno all’“economia reale” che, appunto, si deve dire economia reale tra virgolette perché non si dà più accumulazione senza la finanza e la moneta nelle loro molteplici forme e meccanismi peculiari.

Una cosa è certa, però, se torniamo alla questione di cosa è “industriale” oggi [14]: la finanziarizzazione ha comunque bisogno di profitti su cui fare leva. Ovviamente, ed è forse il problema per il capitale, tra l’entità dei profitti “reali” e la massa di capitale fittizio non c’è più proporzione, ma a maggior ragione è fondamentale per il sistema tornare a un reinvestimento sul lavoro e sulla vita. Si tratterebbe allora di cercare di tenere insieme e investigare il nesso tra i meccanismi della dispossession e i meccanismi della riproduzione allargata. Il problema è il tentativo dal punto di vista capitalistico di riarticolare il rapporto tra finanza e produzione, anche attraverso la sussunzione della riproduzione sociale.
Non è questo un problema solo teorico, di chi avrebbe capito di contro a qualcun altro che non avrebbe capito. Si tratta di una difficoltà interpretativa dovuta all’empasse del movimento reale che lotta contro lo stato di cose esistenti. Non c’è alcuna soluzione a tavolino. Certo, la riflessione e la discussione devono cercare di individuare le aporie, che sono nostre, di tutti/e, e i limiti degli approcci dati. E capire su quali terreni si potrà dislocare in avanti il futuro delle lotte.
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Note

1 Questo articolo è la rielaborazione dell’intervento presentato ad un incontro del ciclo di seminari La questione urbana nella crisi neoliberale, tenutosi a Torino nella primavera 2014. Il ciclo di incontri è stato organizzato da Salvatore Cominu e Simona De Simoni. La registrazione audio di alcuni dei seminari è accessibile qui.

2 Da intendere come fase specifica del capitalismo prima, e in senso più fondamentale, che come insieme di politiche, dispositivi, narrazioni. Per approfondimenti si segnala l’intervento di cui alla pagina web: http://cvh0047.ergonet.it/neoliberismo/5893-raffaele-sciortino-camminare-sul-campo-minato.html.

3 Neil Brenner, New State Spaces. Urban governance and the rescaling of Stetehood, Oxford University Press, Oxford, New York 2004.

4 Non è un caso il successo del libro di Thomas Piketty, Il capitale del xxi secolo, trad. it. di S. Arecco, Bompiani, Milano 2013, dove la categoria centrale è quella di wealth, la ricchezza patrimonializzata indistinta dai meccanismi di estrazione del valore. Vedi anche il testo recente di Anthony Atkinson, Disuguaglianza. Che cosa si può fare, trad. it. di V.B. Sala, Raffaello Cortina, milano 2015.

5 Agostino Petrillo, Ombre del comune: l’urbano tra produzione collettiva e spossessamento in Maria Rosaria Marella, Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, ombre corte, Verona 2015.

6 È la direzione, ci pare, imboccata da Saskia Sassen (da ultimo con Espulsioni, il mulino, Bologna 2015) la quale sempre più insiste sulle tendenze sistemiche emergenti che si manifestano dietro le pratiche oramai sistematiche delle ”espulsioni”, intese queste in senso lato come meccanismi di esclusione di fasce sempre più ampie di popolazioni da un’economia che si contrae pur nella “crescita”. In un certo senso questa lettura tende a rompere, in positivo, la tipologia qui proposta indicando una via d’uscita possibile oltre i limiti delle letture proposte. Da notare, altresì, che le “città globali” restano per Sassen gli snodi essenziali dei flussi di ricchezza e del potere.

7 David Harvey, Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, trad. it. di F. De Chiara, il Saggiatore, milano 2013.

8 Uno degli scritti più significativi per i successivi sviluppi di questo filone critico è quello di Neil Smith, Gentrification and the Rent Gap, in “Annals of the Association of American geographers”, 77, 3, 1987, pp. 462-465.

9 Henri Lefebvre, Il diritto alla città, trad. it. di G. Morosato, ombre corte, Verona 2014.

10 Carlo Vercellone (a cura di), Il capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell’ epoca postfordista, manifestolibri, Roma 2006.

11 Antonio Negri, La comune della cooperazione sociale, intervista sulla metropoli. http://www.euronomade.info/?p=2185.

12 Vedi Stefan Kraetke, How manufacturing industries connect cities across the world: extend- ing research on ‘multiple globalizations’, in “Global Networks”, 14, 2, 2014, pp. 121-47.

13 David Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, trad it. di Adele Oliveri, Feltrinelli, Milano 2011. Una prima discussione su questa categoria in Raffaele Sciortino, Crisi globale e capitale fittizio.

14 Salvatore Cominu, Lavoro cognitivo e industrializzazione.

 

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