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Un dibattito interessante

Riproduciamo in questa pagina i capitoli di un dibattito nato altrove (quantunque una qualche responsabilità ce l’abbiamo, se è vero che l’articolo di “Invece” voleva essere anche una recensione di “A sarà düra. Storie di vita e militanza no tav”, curato dal csoa Askatasuna). La successione che qui proponiamo non rispetta alcuna cronologia ma un ordine qualitativo (parziale, nostro) a partire da quello che riteniamo il contributo più interessante. Per gli amanti della filologia consigliamo quindi di partire dall’articolo finale e leggere poi gli altri due, in fila. Tra l’Italia “in attesa” e quella che può rivelarsi “inattesa” – a patto di saperla leggere, non ideologicamente, in tutta la sua impura ambivalenza – c’è la differenza che può fare l’azione soggettiva (se ancorata ad un umile e verificabile realismo). Solo in questa prospettiva, crediamo, la pratica trasformativa delle minoranze agenti può produrre dei cambiamenti reali e innescare quei “processi” che non sono solo una “parolina magica che tanto piace ai marxisti” ma il piano in cui i divenire (nei soggetti) e le trasformazioni (della società) avvengono per davvero (non solo nelle nostre teste).

 

L’Italia inattesa

 

“L’esperienza proletaria di oggi ruota tutta intorno alla fine dell’identità operaia.

Posta così, quest’affermazione non pone particolari problemi a chicchessia (…)

Il problema sorge nel momento in cui si va a “grattare nel torbido” di questa crisi d’identità.

Forse che essa è solo e unicamente imposta – prodotto dell’offensiva capitalista e dell’arretramento delle lotte?

O è piuttosto un qualcosa che la classe, da parte sua, assume e declina attivamente nei suoi comportamenti e nelle sue lotte?”.

 

Una cosa è certa: ci sarebbe bisogno di rompere il leitmotiv del ”we are the 99%”, investito ormai della forza del mito, e riaffermare l’urgenza di un discorso di parte. Allo stesso tempo prendiamo atto del fatto che oggi la proletarizzazione, o ri-proletarizzazione, riguarda ampi strati di popolazione; le vecchie classi sociali vanno in frantumi e una mobilità sociale discendente impone un dato non inedito per qualità ma certo per portata: molti giovani, pur non arrivando da famiglie proletarie, sono in rapida via di proletarizzazione. Ne consegue che queste fasce giovanili siano portatrici di un immaginario quanto mai fluido, in via di costruzione e, quindi, di posizionamento politico. I conti tornano però se scegliamo di definire la classe da un punto di vista squisitamente soggettivo. Non tanto per quello che é ma piuttosto per quello che fa, per quello che rivendica, per come si organizza; al riparo, per carità, da valutazioni sulle aspirazioni reali degli individui che complicherebbero ancora i giochi. Tale complessità di frammenti sociali non si presta ovviamente a una lettura univoca. Nè tantomeno appare portatrice di una weltanschauung (come visione e immagine, individuale e collettiva), di una cultura in senso proprio, di una coscienza di classe qualsivoglia.

Detto questo, il voto dato a Grillo è per me un voto di classe, contro le politiche di ristrutturazione del debito pubblico, caricate a forza sulle spalle delle classi meno abbienti. Un blocco sociale precipuo nel M5S esiste e non può essere definito in termini di classe media tradizionale. Se guardiamo ai segmenti che lo sostengono con più intensità, ritengo con Nicola Casale che si tratti di classe media impoverita, materialmente o nell’immaginario, che pretende da una società ingiusta un “giusto” riconoscimento, ma che sembrerebbe disposta a rinunciare all’arricchimento personale (punto cardine della vecchia culture money) in cambio di un ruolo riconosciuto e utile all’interno della comunità (parola ambivalente per eccellenza).

Grillo ha avuto la capacità di mettere insieme questa compagine variegata, composta da una miriade di attori sociali del vecchio e nuovo proletariato e della classe media, senza grande programmaticità certo, ma prendendosi di fatto pezzi importanti di istituzioni che appaiono come svuotate. Un terremoto tutto democratico, parlamentare, ma gravido di conseguenze niente affatto scontate. Non voglio dire nulla su tali sviluppi ma l’indebolimento delle istituzioni, come libertario, non può che rallegrarmi. Non mi pare, come ho sentito, che si possa descrivere il M5S come una sorta di contenitore comprimi-rabbia; nel senso che avrebbe convogliato e compresso rabbia che sarebbe esplosa o che prima o poi esploderà. O almeno, al momento non ci è dato di saperlo. Sappiamo piuttosto che alle elezioni ha preso forma, una forma che magari non ci piace, una rabbia molto debole, non solo silente. D’altro canto, sono convinto che il M5S funga in questo momento da argine a discorsi più marcatamente nazionalisti o xenofobi. Penso alla Grecia, a come momenti insurrezionali anche intensi possono lasciare spazio al peggio se non sappiamo mettere in campo molta sostanza, in senso organizzativo e di risorse umane e materiali. Le esplosioni spontanee di furore sociale non vanno ovviamente giudicate, la rabbia degli esclusi è sempre legittima. Ma comprendere contro cosa si scaglia, cosa semina, che alleanze stringe, chi ha la forza di indirizzarla, è necessario per determinare una strategia.

E’ inquietante di questi tempi rileggere le osservazioni di Etchebehere o di Simone Weil ma non dobbiamo lasciarci impressionare. Il 70% dei tedeschi, all’alba della tragedia nazista si espresse per il socialismo. Oggi, più genericamente, il voto è contro il sistema. Se mi è consentito per un attimo giocare ai “corsi e ricorsi storici” mi pare che il sostegno di un tempo al partito nazionalsocialista potrebbe semmai essere incarnato dallo zoccolo duro berlusconiano. E’ a lui che le borghesie nazionali terrorizzate si rivolgono e, aumentando la temperatura sociale, anche quelle illuminate (più rare in Italia che altrove) potrebbero risolversi per la soluzione B. Il dato anagrafico su Berlusconi ci conforta, oltre al fatto che se il proletariato non riesce a produrre un blocco unitario, anche le borghesie nazionali appaiono piuttosto frammentate, per quanto storicamente impieghino meno tempo degli sfruttati a trovare un accordo. Indugiando nel gioco dei parallelismi storici con gli anni della “grande crisi”, il M5S potrebbe essere paragonato al massimo con quella socialdemocrazia su cui si infransero i sogni di molti proletari tedeschi.

Qual’è dunque il nostro margine di azione in questo macro-scenario? Quale sarebbe nel nostro tempo una consonanza sensata con il “fronte unico” cui Simone Weil incitava i proletari con tanta forza in quegli anni decisivi? Starsi a guardare nella disfatta, oggi, cosa significa?

Io penso che Simone avrebbe organizzato e spinto per un movimento reale che sia in grado di “costringere a sinistra” le istanze del M5S. Di certo non avrebbe pensato a un’operazione conducibile “a tavolino”. Una dialettica più o meno conflittuale immaginabile solo da dentro le lotte, luoghi del conflitto e della metamorfosi di uomini e donne destinati a raccogliere le sfide future. Luoghi in cui gli antagonisti d’ogni fatta imparino a relazionarsi con le segmentate componenti popolari, proprio come siamo riusciti a fare in Valsusa, avendo contezza del fatto che d’ora in avanti troveremo sulla nostra strada questo strano soggetto che è il M5S, in una posizione del tutto inedita rispetto ai vecchi partiti, posizione che non può essere neutralizzata con discorsi obsolescenti o frusti.

Penso per esempio a quello che il M5S ha concretamente fatto in Sicilia. Costruire con gli emolumenti da deputati dell’assemblea regionale (ARS), una cassa per il piccolo credito all’economia territoriale (vale a dire pescatori, contadini, allevatori, piccoli imprenditori), va o no nel senso di una riconnessione del tessuto sociale? Ora, tale riconnessione, per quanto non sia un campo neutro, è positiva in sé, come premessa affinché attecchiscano istanze più avanzate che altrimenti resterebbero inespresse, intrappolate tra le maglie della storia. Così come il rifiuto del debito, ipoteca sulla vita di tutti, è certo un obiettivo immediato di tutto rispetto. Altre istanze su cui “costringere a sinistra” il M5S potrebbero essere: una sospensione degli sfratti, pensando a soluzioni che non includano solo i pignoramenti ma anche le morosità; costringere le aziende che hanno inquinato a compensare e bonificare i territori (in entrambi i casi si tratta di mettere in discussione la proprietà privata e i rapporti di forza sociali). A differenza del cammino dei vecchi partiti politici, quello del M5S non sembra segnato. Quanto accadrà dipenderà da quello che avverrà sia fuori che dentro il palazzo; tanto nelle città e nei territori già in lotta come nelle lotte che sapremo far crescere, tenendo l’obiettivo preciso della costruzione di minoranze sostanziose, capaci di fare da traino, di stimolare le masse ancora silenti (perché un voto non fa ovviamente primavera).

Il complesso frammentato di insurrezioni e di autorganizzazione, di disobbedienza civile e di legittimazione parziale di istituzioni in pezzi, che sembra prendere forma sulle macerie dell’economia politica (in Egitto e Tunisia in particolare ma anche per certi versi in Spagna o in Valsusa), piaccia o meno sembra informare significativamente questo scorcio di secolo. Sono fasi, certo, ma come si sta, concretamente, dentro queste fasi?

Se il M5S scomparisse nelle prossime tornate elettorali (cosa possibile), o venisse talmente ridimensionato da porsi semplicemente come una forza parlamentare (dalla genesi singolare certo) ambientalista, patriottarda e legalitarista, io penso che una preoccupazione in più dovrebbe sorgere. Atteso che siamo in molti, compagni all’alba dei quarant’anni se non dei cinquanta, a dover fare un bilancio fallimentare della capacità di aggregare nelle lotte e nei percorsi intrapresi in questi anni, chi raccoglierà il vento seminato da Grillo? Che colore avrà la tempesta a venire? Il problema sono Grillo e il suo movimento, o quello che sempre, nel segno dell’ambivalenza, agita teste, cuori e pance italiche e non nei tempi di crisi? Io da tempo situo le sfide future che ci attendono nel solco della capacità di resistere come realtà organizzate che si rendono inevitabilmente spurie. In parte assorbite dentro movimenti ben più vasti ma conservando la forza e la capacità di spingere su proposizioni radicali che già esistono in nuce. Credo che oggi una vecchia questione dalle nuove declinazioni può avere la forza di sottrarre l’orizzonte del possibile al pantano nazionalista e interclassista. Un discorso anticoloniale con un doppio movimento. Uno in direzione del colonialismo esterno, l’altro in direzione del colonialismo interno. Il successo elettorale esorbitante del M5S è figlio di una pulsione generale che va nella direzione giusta. Si è manifestato cioè all‘apprendimento generale l’antico assoggettamento degli individui ai poteri nazionali e transnazionali – questi ultimi identificati spesso e grossolanamente con la Germania, non senza qualche tratto di verità. Per un altro verso, lotte come quella radicata in Valle Susa, quanto la resistenza al MUOS o agli inceneritori, pongono immediatamente il problema di territori trattati come colonie interne dai propri stati e da grandi imprese nazionali e non. Non è un caso che nei discorsi elettorali dei vari attori a caccia di consensi siano pressoché scomparse le tirate razziste per lasciare il posto alla rabbia anti-sistema contro banche e politica. I concorrenti più premiati si sono mossi in questo ambito.

A poche settimane dalla “resistibile ascesa” di Adolph Hitler a cancelliere del Reich, il partito comunista tedesco ebbe successi elettorali travolgenti – a Berlino diventò il primo partito. Eppure l’assenza di lotta, l’eccesso di burocratizzazione e di centralismo, la militarizzazione della vita, il nazionalismo come orizzonte esplicito, l’antisemitismo diffuso, la paura del bolscevismo e della direzione moscovita, poterono ben più che l’ideologia anticapitalista.

Allora, mi viene da dire, gli anarchici hanno quasi sempre ragione. Sulla tragedia tedesca e sulla rivoluzione spagnola, sul movimento 5 stelle e sulle energie rinnovabili, sul potere che è causa in sé stesso e sulla necessità di farla finita con carceri e polizia… eppure, troppi, pensano di restare in corsa sottraendosi all’ambivalenza che informa necessariamente processi di grande portata. Per questo i gruppi anarchici restarono largamente a guardare negli anni settanta, senza alcun protagonismo, quando l’Italia bruciava per un sogno. Oggi la storia, maestra di ironia, in virtù di una serie di fracassi epocali, ci presenta un dato inedito: i movimenti sociali esprimono spontaneamente una tendenza anarcoide (orizzontalità, inimicizia e diffidenza per le istituzioni, allergia al leaderismo, tendenza all’organizzazione informale, necessità di riconfigurare in senso rivoluzionario i rapporti umani da subito). La solitudine intercettata da Grillo è la stessa che abbiamo saputo rompere nei presidi No Tav, nelle tendopoli di piazza Tahrir o di Puerta del Sol, davanti a Wall Street come a Niscemi, nelle occupazioni che sempre più spesso rispondono agli sfratti. La promessa di comunità fatta da Grillo dobbiamo provare a mantenerla noi. La lotta presuppone con urgenza un discorso aperto, consapevoli di non avere alcuna verità da distribuire, consapevoli che procederemo ancora tra mille sconfitte ma con l’obiettivo essenziale di remare nella direzione giusta. L’etica ha molte risposte ma non le ha tutte.

 

Maurizio Mura


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Una lettera di Vincenzo Guagliardo
 

Prima di entrare nel merito due parole sull’etica. Affermi: “L’etica ha molte risposte ma non le ha tutte”. Giustissimo, ma è appunto interessante andare a vedere perché. Le figure più belle, e quindi vere, dal punto di vista etico, sono state tali proprio perché erano un po’ fuori dal loro tempo, e però non rinunciarono a essere se stesse nella pratica, subito, condannandosi coscientemente a vivere nella contraddizione pur di non stare alla finestra! Pisacane era un antimilitarista che faceva il militare, un socialista che accettava di guidare iniziative addirittura repubblicano-mazziniane! Ragionamenti analoghi si potrebbero fare a proposito di Rosa Luxemburg e del simpatico anarchico Malatesta (a partire dal nome). Insomma queste figure sono tanto più “pure” dal punto di vista etico quanto più “impure” accettano di essere politicamente.

Allora, partendo da queste osservazioni, si potrebbe mai dire, per esempio, che denunciare come complotto anti-tedesco il Trattato di Versailles sia già segno di deriva nazionalista che preannuncia necesariamente, inevitabilmente, uno sboccco nazista, come “infatti” avvenne? Non bisogna forse cominciare a fare un po’ di storia anche con i “se”? Ricordo che i primi a denunciare quell’iniquo trattato furono esponenti della sinistra rivoluzionaria niente affatto tendenti al nazionalismo (non erano neppure tedeschi), ma rimasero soli e di questo cavallo di battaglia si appropriarono poi alla grande i nazisti, trovando anche molti ex comunisti e operai come nuovi cavalieri.

Un inglese economista liberale di sinistra, tale Keynes, che faceva parte di una delle commissioni a Versailles, diede indignato le sue dimissioni di fonte al male che lì si voleva fare alla popolazione (non alla “nazione”) tedesca. Scrisse subito un libretto in cui si diceva che l’ingiustizia appena compiuta avrebbe creato un incubo in Europa. Insomma, profetizzò il prossimo avvento del nazismo.

“Impuri” (politicamente) vuol dire oggi non-settari e, quindi, non identitari. E’ qui che è la fine a sinistra oggi: da quello che fu l’inizio a destra quasi un secolo fa. Dove allora nacque la destra oggi muore la sinistra.

Bisogna sempre salutare positivamente il conflitto, perché puntualmente, direbbe il grande incompreso Machiavelli, esso proviene dalla plebe. Ci sono sempre due politiche: quella di chi vuole conservare il dominio e quella di chi non vuol essere dominato e percio’ non vuol conservare: Il sapere, il progresso umano viene da lì. A questo punto si chiarisce forse meglio il repporto “puro-impuro”, ovvero etico-politico: Non si giudica a priori il conflitto: vi si partecipa, lo si vuole liberare nei suoi intenti più profondi, e non giudicarlo “prima”. Si è rigorosi con se stessi proprio per non essere rigidi con gli “altri”: è come sospendere il giudizio perché non sia solo un pregiudizio (identitario).

Come sai, per ragioni varie ma soprattutto di salute, faccio solo il “parolaio”: mi limito a ripetere monotono che bisogna di nuovo costruire società di mutuo soccorso. Come ai tempi del primo movimento operaio. Ma questa volta l’esempio ci viene dato da alcuni decenni dai potenti, da una nuova destra. Gli operai scioperanti polacchi piegarono il regime con le loro giornate pagate dalle banche occidentali (ricorderai Calvi, lo IOR…), grazie a quel grande prete sindacalista agit-prop polacco diventato pure papa. In Medioriente il vuoto lasciato dalla dura repressione delle sinistre venne subito riempito da islamisti che usarono le moschee come, appunto, una immensa rete di mutuo soccorso. E pare che in Grecia Alba Dorata si dia da fare in modo analogo.

Crisi e liberismo disconnettono il tessuto sociale in modo sempre più tragico. Ci vuole una politica “alta” che ricostruisca lo stesso tessuto sociale da cui possa rinascere una politica per gli ultimi, una speranza. In un certo senso, è il contrario di quanto avveniva un tempo in modo spontaneo… Se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna. A riunire i proletari non potranno ovviamente mai essere realmente i poteri finanziari e religiosi o nuove élites tecno-cognitive-computerizzate dai parlamenti, ma l’auto-riunione di attività lavorative manuali o intellettualizzate che siano del proletariato attuale. Sarà questo il segno del conflitto liberato dalla “plebe” invece che stuzzicato sì, ma poi imbrigliato utilizzato e soffocato dal disegno conservatore dei dominatori (ogni nuova classe dirigente ha sempre parlato in nome del popolo, mica di se stessa). Sarà il segno di un possibile nuovo giudizio e non il pre-giudizio identitario. La premessa.

Se la lotta valsusina resiste bene o male da 23 anni è perché per varie ragioni è riuscita contro la TAV a riconnettersi socialmente come “comunità”, non sotto un segno identitario (solo contro qualcuno) ma, semplicemente, socialmente e autonomamente, intorno a propri interessi comuni e fondati sulla solidarietà. E pensare che tanti anni fa un mio amico sindacalista CGIL venne praticamente cacciato malamente da operai valusini perché era andato a dirgli che l’amianto uccideva! Perciò non c’è da essere troppo pessimisti. E comunque, per andare avanti, bisogna agire “come se”(fosse possibile).

 

Un abbraccio, Vincenzo


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L’Italia in attesa

 (da “Invece”, mensile anarchico, marzo 2013)

 

Ero partito con l’idea di recensire tre testi: A sarà düra. Storie di vita e di militanza no tav a cura del centro sociale Askatasuna, Un Grillo qualunque. Il movimento 5 stelle e il populismo digitale nella crisi dei partiti italiani di Giuliano Santoro e Fine corsa. Intervista su crisi e decrescita di Serge Latouche con Daniele Pepino. Mi sono poi reso conto, leggendo uno dopo l’altro i libri in questione, che è forse molto più interessante, in questo momento, fare un ragionamento d’insieme. Il titolo di questo articolo non è casuale. Rinvia a La Germania in attesa. Impressioni di agosto e settembre 1932, scritto da una ventitreenne Simone Weil (ripubblicato nel 1990 nella bella antologia weiliana Sulla Germania totalitaria, la cui lettura o rilettura consiglio vivamente). L’analisi della società tedesca condotta da Simone Weil rappresenta – con pochissimi altri testi: penso soprattutto a La tragedia del proletariato tedesco di Hippolyte Etchebehere – un esempio di rigore etico e di lucidità critica, al cui confronto ciò che siamo in grado di fare noi si segnala soprattutto per l’approssimazione.

Che quella analisi delle cause e delle caratteristiche dell’ascesa al potere del movimento nazista appaia per tanti aspetti attuali è un tratto decisamente inquietante.

Partirei proprio da due citazioni tratte dall’antologia weiliana.

“Si direbbe che i militanti temano le riflessioni demoralizzanti. Quanto a me, ho deciso già da qualche tempo che, data l’impossibilità di una posizione “al di sopra della mischia”, sceglierò sempre, anche in caso di disfatta sicura, di condividere la disfatta degli operai piuttosto che la vittoria degli oppressori; ma quanto a chiudere gli occhi per timore d’indebolire la fede nella vittoria, questo lo rifiuto ad ogni costo (da una lettera di fine gennaio 1933)”.

“Bisogna scegliere. Se si sceglie di non rassegnarsi alla successione indefinita, per gli operai, di un benessere pagato con una fatica estenuante e di una miseria totale, bisogna prendere atto che non può esserci alcun interesse comune tra sfruttati e sfruttatori. In questo caso, non c’è nulla da tentare per rimediare alla crisi, azione che potrebbe realizzarsi solo con il consenso e sotto il controllo della classe dirigente. C’è solo da organizzare immediatamente la lotta (da un articolo del novembre 1931)”.

Notizia di qualche giorno fa, alcuni operai di una fabbrica di Rovereto si rivolgono ad un giornale locale. Raccontano che sono quasi in un centinaio a non ricevere il salario da mesi e aggiungono che, disperati per non poter mantenere le proprie famiglie, si sono rivolti ai carabinieri. La lettura di questa intervista è stata un vero e proprio pugno allo stomaco. Difficile, in questi casi, far proprio il motto spinoziano: “Di fronte alle azioni umane, non ridere, non compiangere né detestare, ma comprendere”.

Questo episodio minore mi è parso una fotografia della situazione attuale. Come in tutte le fotografie, l’immagine illumina un aspetto e ne trascura altri, ma ciò che appare risulta talvolta paradigmatico. Leggo l’intervista in questione mentre si svolge la campagna elettorale, per cui collego spontaneamente quell’istantanea alle varie promesse fatte dai candidati. E mi soffermo non sulla realizzabilità o meno delle proposte, ma sulla loro stessa natura, sul loro presentarsi come desiderabili ai cervelli e ai cuori degli elettori. Un dato è comune a tutte le proposte: i corrotti e gli incompetenti devono pagare. La cosiddetta “sinistra radicale” è rappresentata da un Pubblico Ministero. “Il voto per il cambiamento” è rappresentato da Grillo, per il quale la precondizione politica è la fedina penale pulita (anzi, l’assenza di procedimenti giudiziari a carico). Sarebbe facile dimostrare che non è mai esistito storicamente né mai esisterà un capitalismo che non aggiri di continuo la legge, ma il punto è un altro. Il rispetto della legalità – il quale non è mai stato un valore, non diciamo rivoluzionario, ma nemmeno “di sinistra” – condannerebbe gli sfruttati alla più tremenda sottomissione. Se quella fosse sempre stata la caratteristica del movimento operaio, la giornata di lavoro sarebbe ancora di 12 ore. Cosa avrebbero mai ottenuto gli operai se, invece di lottare e violare le leggi, si fossero rivolti… ai carabinieri? Prova empirica: basta guardare cosa sono diventate le condizioni di lavoro dopo un trentennio di legalità operaia e di ragionevole concertazione sindacale.

E poi, quali leggi bisognerebbe rispettare? Quelle promulgate in un trentennio di pace sociale, riflesso e strumento di una guerra di classe a senso unico? Ed è forse possibile ottenere leggi “meno anti-proletarie” senza modificare i rapporti di forza nella società? Il sindaco “grillino” di Parma si trova, per via della legge, a far costruire un inceneritore contro cui aveva basato tutta la sua campagna elettorale; e ad aumentare a dismisura le rette degli asili per rispettare la legge sul pareggio di bilancio. Il sindaco “grillino” di Mira (Venezia) fa sfrattare in nome della legge le famiglie che non riescono a pagare l’affitto. Ma il movimento 5 Stelle promette di introdurre a livello nazionale il reddito garantito (parola d’ordine di Potere Operaio nel 1969, che nemmeno un movimento illegale di massa ha strappato ad un capitale in ben altra congiuntura…) o di promuovere un referendum sull’euro (il tutto con il pareggio di bilancio ormai inserito nella Costituzione e con gli attuali rapporti capitalistici internazionali).

A ben vedere, perché la retorica della legalità è riuscita a far così tanto breccia? Perché “siamo un Paese” (Sinistra), perché “siamo una Nazione” (Destra). I vari candidati promettono di difendere “gli interessi di tutti”. La menzogna è già nella promessa. E chi pensa di sfuggirvi, parla di nazionalizzazione della banche oppure di un Stato (istituzione borghese per eccellenza) piegato ad un utilizzo operaio. Insomma, se il carabiniere non ti aiuta oggi, potrebbe aiutarti domani. La tragedia del proletariato italiano, per richiamare Etchebehere, consiste nel pensare che esista o possa esistere una “comunità di interesse” chiamata Nazione. Se non si spezza questa “nazionalizzazione delle masse” attraverso l’affermazione di interessi e valori dichiaratamente di parte, non c’è limite al peggio. L’appello costante del nazionalismo (come si intitola il bel libro di Fredy Perlman) non può che rafforzarsi in tempi di “crisi”, perché le soluzioni nazionaliste suonano più semplici e lineari di quelle rivoluzionarie. Ancora più degli aspetti organizzativi e programmatici, è il discorso dei grilli parlanti a suonare reazionario e sinistro. Sarebbe facile prendere gli episodi più macroscopici dell’ambiguità grillina: il dialogo con Casapound, il comunicato contro i rumeni che violano “i sacri confini della Patria” oppure la parte di uno spettacolo in cui il comico consigliava alle forze dell’ordine di dare una ripassata in caserma o in questura ai “marocchini che rompono i coglioni” invece di farsi filmare “come dei coglioni” mentre li pestano per strada. Se rileggiamo Cultura di destra di Furio Jesi, basterebbe la parola “Nazione” (con la maiuscola) a mettere in guardia dal discorso di Grillo. I militanti e consiglieri 5 Stelle in Valsusa hanno appoggiato il movimento NO TAV (ci ricordiamo anche bene la bordata di fischi che si è preso il loro esponente più noto quando disse, la sera stessa di una violenta carica della polizia, che “il nemico non erano le forze dell’ordine”). A Treviso si sono fatti conoscere per la virulenza con cui pretendevano la chiusura dei campi Rom. Non si tratta di “spiacevoli contraddizioni”. Chiunque si presenti come baluardo di legalità e come alternativa alla lotta di classe; chiunque voglia mobilitare una generica e fantasmagorica “società civile” contro la Casta; chiunque pretenda un capitalismo basato sul merito e non… sui capitali, non può fare a meno di raccogliere i vari interessi e i vari umori che circolano nella “comunità nazionale”. E non può fare a meno di presentare il Nemico come esterno alla “comunità”: la perfida Finanza contrapposta alla sana economia reale, la Francia e la Germania le cui banche hanno imposto la truffa del debito, il politico corrotto che si appropria dei “beni comuni” o gli sleali Cinesi (categoria che mette nello stesso sacco i burocrati celesti, le multinazionali occidentali presenti nel Paese “socialista di mercato”, i milioni di schiavi salariati delle Zone economiche speciali o di internati nei campi di lavoro). L’impianto nazionalista resta talvolta sullo sfondo di fronte alle varie questioni immediate (il TAV, l’acqua, i pesticidi, gli inceneritori ecc.), ma esiste. I ceti medi vedono in Grillo una prospettiva di potere, la possibilità di realizzare il sogno promesso dal Drive In capitalista. Tanti proletari una sorta di piede di porco per scardinare il sistema dei partiti e… poi si vedrà. Il movimento 5 Stelle non si è ancora dato una precisa struttura organizzativa, ma dovrà farlo. “Salvare la Nazione” e “uscire dal buio” senza mettere in discussione i rapporti capitalisti sono opzioni possibili “solo con il consenso e sotto il controllo della classe dirigente” (Simone Weil). E il discorso nazionalista, stanti gli attuali rapporti di forza tra le classi, si radicalizzerà. Grillo mette assieme in modo scaltro diversi elementi emersi con il movimento di Seattle nel 1999, le rivendicazioni dei lavoratori del “cognitariato” e la declinazione nazionale della tematica dei beni comuni. “Mandiamoli a casa tutti!” è la parodia del “Che se ne vadano tutti!” argentino, perché il mandarli a casa grillino coincide di fatto con il sostituirsi ad essi, non con la rivendicazione sociale di una radicale autonomia e alterità. Che Grillo abbia utilizzato in rete una notorietà capitalizzata attraverso la televisione di Antonio Ricci e Pippo Baudo; che sia proprietario legale del simbolo di un movimento che a lui si rivolge come al Garante ecc. sono tutti aspetti veri. Ma il problema va visto soprattutto dall’altro lato: da quello di una folla di solitari che ai suoi comizi si sente “comunità”. Lì sta la disfatta del proletariato. D’altronde, se non si rifiuta ogni ipotesi parlamentare, chi scegliere tra un burocrate, un giudice e un comico?

Capire nel 1931 cosa fosse il nazionalsocialismo non era affatto scontato. Simone Weil documenta che i discorsi fatti dai dirigenti del partito “comunista” tedesco e quelli degli operai e sindacalisti hitleriani si assomigliavano molto. Gli stalinisti rincorrevano i nazisti sul terreno nazionale, presentando assai spesso banchieri e industriali come traditori della Patria, il trattato di Versailles come un complotto anti-tedesco o addirittura negando che i propri dirigenti fossero… ebrei. Durante lo sciopero dei trasporti nel novembre del 1932 a Berlino gli operai nazionalsocialisti si distinsero per combattività in strada e  fraseologia rivoluzionaria, alleandosi con il partito “comunista” contro la socialdemocrazia.

Non si sta dicendo che il movimento 5 Stelle sia fascista, intendiamoci. Si sta dicendo che quello nazionalista (anche “dal basso”, “né di destra né di sinistra”) è un germe sempre pericoloso, soprattutto nei periodi di “crisi”. La retorica nazionale non nasce certo con Grillo. In Italia ha una storia lunga anche a sinistra, basta citare le posizioni gramsciane, la reviviscenza neogaribaldina durante la lotta partigiana, la Resistenza presentata da Togliatti come “Secondo Risorgimento”, la ricostruzione nazionale caldeggiata da Di Vittorio fino ad arrivare all’austerità nazionale di Berlinguer e Lama (“A un dio fatti il culo non credere mai”). Ciò che c’è di ripugnante nel nazionalismo, diceva il caustico Karl Kraus, non è tanto l’odio nei confronti delle altre nazioni, quanto l’amore per la propria. La versione di classe suona: sfruttati e sfruttatori non hanno alcuna patria in comune. Se gli interessi degli sfruttati non sono compatibili con le esigenze dell'”azienda Italia”, tanto peggio per quest’ultima – ecco la base minima della lotta.

Stiamo assistendo al punto di massima tensione tra la potenza dello Stato-nazione e la sua compressione da parte del capitalismo transnazionale. Contrariamente alle favole neoliberali, non c’è forza politica che non proponga un maggiore intervento dello Stato a difesa dell’economia: impiego della Cassa Depositi e Prestiti, creazione di banche pubbliche, nazionalizzazione di settori industriali ecc. Quelli che spirano anche in Europa sono venti di guerra; una guerra, per il momento, politica ed economico-finanziaria (ma già in Mali…). Per Grillo, ad esempio, fino a metà degli anni Duemila i parlamenti erano mere camere di registrazione dei voleri delle multinazionali; improvvisamente, al di là delle retorica della “scatola di sardina da aprire”, il Parlamento diventa il timone che governa la tempesta della “crisi”. Lo stesso processo, se si nota, è avvenuto nel movimento della decrescita, per cui la politica nazionale è oggi lo strumento, ambiguo ma necessario, di transizione verso una società decrescente e decentrata. Come sostiene lo stesso Latouche, c’è bisogno di un contropotere nazionale quale cornice all’interno della quale garantire le esperienze di autogoverno territoriale, la rilocalizzazione dell’economia e il diffondersi di “città di transizione” dal petrolio alle energie rinnovabili.

Per chi se lo ricorda, agli inizi degli anni Novanta si era svolto in Italia un dibattito tra municipalisti libertari e alcune realtà post-autonome su come creare delle “sfere pubbliche non statali”, dibattito che ha anticipato temi e contraddizioni del movimento a difesa dei “beni comuni” (allargatisi dall’acqua alla scuola alle metropoli, fino al recupero da parte del PD con lo slogan “Italia bene comune”).

Il libro sul movimento no tav del centro sociale Askatasuna si pone proprio lo scopo, a partire dall’esperienza valsusina, di declinare la prospettiva del contropotere all’interno della “crisi”. Se non ci si lascia ingannare dall’eclettismo che caratterizza le premesse metodologiche (tali comunque da far rovesciare il buon Montaldi nella tomba) e le ipotesi politiche contenute nel libro (un intreccio di Romano Alquati, Mario Tronti, Carl Schmitt e Cornelius Castoriadis), i problemi sono quelli classici dell’Autonomia: egemonia, dirigenti e militanti di base, gerarchizzazione dei fini e dei mezzi delle lotte. Se si mettono a confronto le parti teoretiche del libro con le più profane interviste fatte ai dirigenti di Askatasuna, il quadro risulta piuttosto chiaro e si può riassumere così: dialettica conflittuale tra movimenti e istituzioni, tra autorganizzazione e vertenzialità, tra potere costituente e potere costituito. Proprio come era successo all’epoca della Comune di Parigi, sull’interpretazione della libera repubblica della Maddalena esiste uno scontro teorico e lessicale tra i sostenitori del contropotere e i sostenitori dell’autorganizzazione, tra libertari e marxisti. Dire “luogo di autorganizzazione” non è affatto la stessa cosa che dire “istituzione del contropotere territoriale”. Se Marx dovette far proprie, nel vivo della Comune, diverse categorie federaliste e bakuniniane, Lenin, in un contesto diverso, precisò cosa bisognava intendere per “spezzare la macchina” burocratica e militare dello Stato: metterla nelle mani del Partito. Per il capo bolscevico “Tutto il potere ai Soviet” divenne una formula da far propria solo dopo essersi assicurato il controllo dei Consigli. Per Askatasuna i movimenti devono giocare la partita (in maniera più o mano diretta) anche sul piano istituzionale per spostare i rapporti di forza e assicurarsi una copertura di legittimazione. C’è una parolina magica che tanto piace ai marxisti, perché permette di giustificare più o meno tutto: “processo” (delle forze in campo). Si tratta, in Valle, di avere dalla propria i vertici della Comunità montana e poi costruire “con calma, senza fretta” un contesto favorevole alla vertenzialità nazionale. Di qui l’atteggiamento verso le elezioni in generale e verso Grillo in particolare: sostenere ufficialmente l’astensionismo e allo stesso tempo lavorare indirettamente per incrinare dall’interno il marcescente sistema dei partiti (e quindi del fronte Sì TAV). Lo scopo è quello di aprire “spazi politici e sociali” che spetta poi ai movimenti allargare. Più o meno lo stesso atteggiamento che i sostenitori del contropotere hanno tenuto verso la nozione di “bene comune” durante l'”attraversamento critico della stagione referendaria”. Di qui l’insofferenza verso le critiche – giudicate tatticamente miopi – mosse al movimento 5 Stelle e alle sue posizioni reazionarie. Perché aprire la scatola di sardine serve comunque al movimento no tav. In soldoni: “Noi non votiamo, ma votare Grillo è utile al movimento”.

Non provare a generalizzare la lotta no tav contro il governo Monti è stata, per queste componenti, una scelta ben precisa: quelli sono “tecnici”, aspettiamo i politici e una sponda no tav anche in Parlamento. “Con calma, senza fretta”. Sul palco assieme a Grillo non ci andiamo noi, ma è bene che qualcuno ci vada.

Il movimento no tav ufficialmente non ha né partiti né governi amici. Il che non è affatto poco. Ma è bene che i partigiani dell’autorganizzazione e dell’azione diretta diano in futuro un più significativo contributo teorico e pratico. Non è d’uopo lamentarsi. Si può dire che l’obiettivo di generalizzare l’opposizione al TAV e agli interessi che vi ruotano attorno sia stato perseguito con la determinazione necessaria?

Proviamo a leggere il sostegno al movimento 5 Stelle da parte di tantissimi no tav. Certo non si tratta di una delega in bianco, né di un’ipoteca sulla disponibilità futura a lottare in prima persona. Fa comunque impressione vedere migliaia di valsusini – qualche giorno dopo un assalto notturno al cantiere e l’arresto di due valligiani no tav – applaudire Grillo che promette la galera per i politici corrotti. Ogni movimento di massa, soprattutto in questa fase storica, è attraversato da molte contraddizioni e ambivalenze (basti pensare ai voti dati agli islamisti in Tunisia dopo l’insurrezione contro Ben Ali), e sarebbe illusorio pensare che alla radicalizzazione dello scontro segua necessariamente la radicalizzazione delle idee sulla società in generale. Forse molti valsusini pensano che se il TAV fosse bloccato in Parlamento si risparmierebbero un bel po’ di botte, lacrimogeni e galera; altri che un certo numero di parlamentari pungolati dal movimento arginerebbe un minimo la repressione poliziesco-giudiziaria; e tutti (i votanti) che è irrinunciabile confermare anche alle urne che la volontà no tav non è faccenda di “quattro estremisti isolati”, bensì della maggioranza della Valle (e che isolati semmai sono i Sì TAV PD e PDL). Ragionamenti pragmatici, così come pragmatico è stato il rifiuto della legalità quale criterio della lotta (che questo piacesse o meno ai grilli parlanti). Ma, da parte nostra, un conto è capire, un altro è lisciare nel senso del pelo. Per chi non è solo contro il TAV, ma contro l’intero sistema statale e capitalista, le uniche “vittorie” reali e contagiose sono quelle strappate con la rivolta e l’autorganizzazione.

Durante la Prima guerra mondiale, si svolse un acceso dibattito tra l’anarchico Malatesta e l’allora socialista Mussolini a proposito di un’auspicata sconfitta della Germania. Malatesta era sì persuaso che la disfatta del militarismo prussiano sarebbe stata positiva per tutti i proletari (a partire da quelli tedeschi), alla condizione tuttavia che i sovversivi rimanessero internazionalisti intransigenti, beneficiari e non attori (per conto della borghesia italiana) della sconfitta tedesca. Altrimenti, concludeva l’anarchico campano, si sarebbero ritrovati con un frutto avvelenato. Parole profetiche.

Uno scossone interno al sistema parlamantare può essere per noi positivo, a condizione di spingere sull’unico piano nostro: quello delle lotte. A condizione di differenziare in maniera chiara non solo le forme della lotta, ma anche i suoi contenuti. E a condizione di sapere che dalle scatole di sardine marce può uscire anche tanta merda.

Il movimento 5 Stelle è l’ultimo argine all’astensionismo di massa (comunque in crescita, soprattutto tra i giovani). Le politiche di austerità – da chiunque provengano – godono di ben pochi consensi. Vedremo cosa accadrà quando milioni di persone sperimenteranno “pragmaticamente” che non ci sono soluzioni parlamentari possibili a una vita sempre più misera e insensata.

L’Italia è ancora in attesa. Il dramma del proletariato tedesco, per Simone Weil, consisteva nel fatto che un’insurrezione spontanea sarebbe rimasta molto probabilmente isolata e schiacciata nel sangue, mentre un’insurrezione organizzata dai socialdemocratici o dagli stalinisti avrebbe consegnato gli sfruttati al capitalismo di Stato (in versione tedesca o russa).

Mutatis mutandis, oggi il capitale potrebbe spingersi, costretto dai suoi spasmi e dalla collera sociale, fino ad una sorta di “socialismo di mercato” (e dei carabinieri) ad iniezione nazionalista. Allo stesso tempo, è incomparabilmente minore la capacità delle forze politiche di recuperare o dirigere la rivolta che echeggia, sorda, nell’aria.

Non abbiamo alcun bene in comune con gli sfruttatori né sovranità nazionali da difendere.

L’emancipazione comincia dove finisce il rispetto della legalità.

Ecco il minimo da dire a parole e con i fatti.

 

C.M.

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