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Venezuela: Perchè non “scendono” dalle colline?

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Ripubblichiamo questa intervista apparsa pochi giorni fa sul blog cronachelatinoamericane che delinea molto bene il contesto sociopolitico venezuelano in questi mesi di rivolta anti-Maduro. Se da una parte l’intervistato esamina lo stato di salute del blocco chavista, per nulla monolitico e tratteggiato nelle sue evoluzioni e discontinuità, dall’altra si sofferma su punti di forza e debolezze dell’ultra-destra liberista. In particolare ne cogliamo l’incapacità di questa di mobilitare le masse in chiave prettamente politica, quando anzi è essa a rincorrere le istanze “popolari” che si danno nelle province, mentre in altre ancora non riesce ad attechire con i propri linguaggi.

Non da ultimo, il rapporto tra le élites chaviste e i differenti tipi di  “collettivi” che esercitano una non esigua influenza sulle sfere della vita sociale del paese su più livelli, contribuiscono a dare un quadro tuttaltro che lineare che molto spesso letture estere, esterofile, se non quando ancorate al mito della rivoluzione bolivariana tendono a disarticolare.

Buona lettura

 

Venezuela: Perchè non “scendono” dalle colline?

 

Molto è stato detto e scritto sulla crisi venezuelana, ma mancano alcuni elementi. Tra questi sorge la domanda sui settori popolari: partecipano alle proteste?, che rapporto hanno con l’opposizione?, e con il governo di Nicolás Maduro?, chi sono e come agiscono i famosi “collettivi”? Alejandro Velasco, autore di Barrio Rising. Urban Popular Politics and the Making of Modern Venezuela (2015), risponde ad alcuni di questi quesiti.

 

– Uno dei dubbi che sorgono quando si legge della crisi venezuelana è quali fattori sostengono Nicolás Maduro al potere. Sembra sempre che stia per cadere e non cade, mentre la crisi peggiora. Qual è la sua interpretazione?

Si combinano diversi elementi. Da un lato ci sono l’apparato statale e l’élite chavista. Nella misura in cui si chiudono gli spazi di manovra a livello nazionale ed internazionale, e devono ricorrere sempre di più all’autoritarismo, le figure centrali del governo si stanno trincerando poiché percepiscono una minaccia, non solo per la loro permanenza al potere, ma per la loro esistenza stessa. Per alcuni, si tratta di una questione di principio: davanti a un’opposizione imbaldanzita e con ampio sostegno nel paese, soprattutto all’estero, ciò che è in gioco è l’eredità di Hugo Chávez, in particolare i progressi verso lo stato comunale. Al di là della stessa opposizione, questo avrebbe significato sempre una battaglia contro la Costituzione del 1999, redatta all’inizio del governo Chavez, con settori interni al chavismo meno propensi alla corrente socialista che alla democrazia partecipativa, base di questa Carta. Così, per i settori più radicali, in un certo senso è un conflitto ben accolto anche se in ritardo, forse troppo per avere successo, ma daranno battaglia in ogni caso. Per altri, tuttavia, l’interesse è più prosaico: i legami di quadri chiave del chavismo con la corruzione smisurata – sia vincolata al dollaro preferenziale o in alcuni casi con il narcotraffico- fa che qualunque uscita dal potere comporti la prigione in Venezuela o all’estero. In modo che l’esasperazione del conflitto, vista in termini esistenziali, tende a serrare i ranghi, anche se per ragioni molto diverse.

Certo, abbiamo visto fratture significative nel chavismo, con gente che ha preso le distanze, come nel caso del procuratore generale Luisa Ortega Diaz. Il pubblico ministero ha mantenuto una posizione molto critica contro le sentenze della Corte Suprema che invalidavano l’Assemblea Nazionale, così come di fronte alla convocazione dell’Assemblea costituente e la repressione delle proteste. Ma per ora non si sono viste fratture sostanziali. In un certo senso, incluse le critiche del pubblico ministero, che per dure che siano hanno poco peso giuridico al di là delle parole, beneficiano in parte al governo nel senso che dimostrano una certa predisposizione a dare spazio a voci diverse all’interno dell’apparato statale . Ma è possibile che la pressione alla quale è stato sottoposto, specialmente dai media di comunicazione statali, abbia maggiori conseguenze, o che il loro esempio possa ispirare più critiche e incluso fratture chiave. Per ora, nonostante tutto, sono pochi questi esempi.

Da parte sua, l’opposizione -anche se più uniti rispetto agli anni scorsi- pecca come in altre occasioni di eccesso di fiducia e visione a breve termine, basati sulla loro certezza di una vittoria imminente. In questa occasione, questa dinamica è stata incoraggiata di maniera accentuata e -sono convinto- irresponsabile, da voci come quella del Segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), Luis Almagro, le cui dichiarazioni arrivano a suonare più forte della propria opposizione. L’approccio oppositore al governo di Donald Trump, l’emergenza dei governi di destra in Brasile e Argentina, e i tentativi di dialogo privi di sincerità da parte del governo indeboliscono qualunque incentivo volto a moderare le posizioni e cercare spazi per negoziare. Dato questo scenario, il trinceramento da parte del governo ha il suo specchio nell’atteggiamento, anche questo trincerato, della leadership dell’opposizione, della quale di fatto si nutre.

Infine, c’è il “fattore popolo”. Come in altre occasioni, le manifestazioni dell’opposizione sono state moltitudinarie. Ma a differenza di altre occasioni, queste sono riuscite a mantenere giorno dopo giorno, per un lungo periodo, importanti livelli di partecipazione. Inoltre tendono a incorporare settori sociali più diversificati che in passato, anche se sarebbe esagerato affermare che esiste un vero crocevia di classi. Infatti, il divario tra settori popolari e l’opposizione si è mantenuta e si manifesta nelle strade. L’opposizione l’attribuisce alla paura o al controllo sociale dei quartieri, sia da parte dello Stato nella sua funzione di distributore di risorse ai – Comitati Locali di Approvvigionamento e Produzione (CLAP) – o per i cosiddetti “collettivi”. Di questo c’è qualcosa di vero, ma è sovradimensionato e penso che sia dovuto più ad una mancanza di autocritica da parte dei settori dell’opposizione per capire il motivo per cui, dopo diciotto anni, e nonostante la grave crisi, non sono ancora riusciti a veicolare un messaggio che affronti l’enorme diffidenza da parte dei settori che non credono che l’opposizione riunita intorno alla MUD patteggi per i loro interessi in futuro. Di fronte a questo enorme difetto, risulta molto più facile attribuire la mancanza di partecipazione di massa dei settori popolari ad un apparato coercitivo.

Questo non solo risale alla polarizzazione nell’era chavista. La sfiducia da parte dei settori popolari si estende più in là, verso settori di classe media e alta il cui discorso sui diritti umani e la democrazia tende sempre a concentrarsi sui diritti civili e politici piuttosto che su quelli economici e sociali. Ma v’è anche un debito morale dell’opposizione legata a quello che fu la repressione non solo durante il colpo di stato del 2002, ma sotto il Caracazo del 1989, oltre a diversi massacri negli anni ’80 e ’90 che mettono in discussione l’attaccamento effettivo di settori antichavisti ai principi democratici dichiarati. Tutto questo impedisce una rivolta massiccia dei settori popolari, che tende a dare margini di manovra al governo.

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– Vincolata a questa descrizione che hai reso dei settori popolari, perché finalmente non “scendono” dalle colline, come si suol dire, dato le crescenti privazioni provocate dal caos economico?

In primo luogo è importante capire che, così come l’opposizione è eterogenea e nel chavismo ci sono importanti differenze al suo interno, i settori popolari sono un attore complesso e talvolta contraddittorio. Due esempi solo a Caracas: nel 2015 la parrocchia 23 de Enero, vista come un bastione della rivoluzione, votò in modo schiacciante per l’opposizione nelle elezioni parlamentari. E nel comune Sucre, che contiene il più grande quartiere dell’America Latina – Petare– governa l’opposizione dal 2008, anche se lì operano consigli comunali molto affini al governo. Come questi ci sono molti altri esempi importanti di zone popolari con rappresentanza politica mista, che consente di definire meglio le risposte alla crisi, che di fatto sono diverse.

Ad esempio, se è vero che non abbiamo visto una massiccia partecipazione di quei settori più colpiti dalla grave crisi, senza dubbi ci sono proteste nei quartieri. Si tendono a vedere sempre più saccheggi, sia di negozi commerciali o di camion di fornitura. Ciò si verifica in particolare nell’entroterra, dove l’apparato di sicurezza dello Stato è più debole che nelle grandi città. Inoltre, si riportano disturbi nelle zone occidentali di Caracas, di taglio più popolare, ogni volta che il sistema di approvvigionamento di generi alimentari nei quartieri -Le CLAP– presenta difetti e ritardi.

Per vari motivi, tali eventi non sono contabilizzati come proteste. Uno, perché l’opposizione è interessata a proiettare un’immagine, soprattutto all’estero, di organizzazione non violenta, focalizzata in rivendicazioni di natura politica: elezioni generali, liberazione dei prigionieri politici, il ripristino dei poteri dell’Assemblea Nazionale. Sono rivendicazioni facilmente comprese come violazioni dei diritti umani in ambito internazionale, perché si tratta di diritti civili e politici, piuttosto che economici e sociali. Davanti a ciò, sebbene sia chiaro che una ribellione popolare massiccia e multisettoriale sarebbe ben accolta dall’opposizione, sarebbe anche difficile collocarla e incanalarla dentro dei quadri discorsivi e strategici che sono stati elaborati. Di modo che queste proteste sono latenti, ma ancora circoscritte ai margini.

Poi c’è il fatto che l’idea di quartieri che “scendono” è molto legata a quello che fu il Caracazo del 1989 e tende a limitare ciò che viene immaginato come protesta popolare in Venezuela. Si pensa in termini di esplosioni sociali massicce e improvvise, non come si sono verificate nei settori popolari propriamente identificati con le rivendicazioni dell’opposizione. Oggi, il tipo di protesta popolare che si vede nei settori popolari ha di solito una natura rivendicativa, piuttosto che politica di partito. Ma le cifre dell’Osservatorio Venezuelano di Conflittualità Sociale mostrano continue proteste a scala nazionale; proteste di quartiere contro gli effetti della scarsità, l’inflazione, il collasso dei servizi pubblici, ecc. Ciò significa che i quartieri hanno protestato e continueranno a farlo.

Ma, e questo è fondamentale, una cosa è la protesta contro il governo, e un’altra la protesta anti-governativa. Nel passato recente, quando l’opposizione raggiunse un’importante incidenza nei settori popolari, la raggiunse concentrando il suo messaggio precisamente su quelle rivendicazioni che fanno eco nei quartieri. Ma tende a perdere terreno quando si allontana da questi e si concentra sulle rivendicazioni di taglio più politico: cambio immediato del governo, la fine della repressione e la violenza di stato, l’assenza di rappresentanza politica. Non che questi siano problemi che non interessano i settori popolari. Anzi, al contrario: precisamente questi furono proprio la base su cui Chavez nel suo discorso e ,per un tempo, nella pratica raggiunse il sostegno di questi settori precedentemente marginalizzati dalle élite politiche e sociali. Ma oggi, l’attenzione per la condanna dello Stato per la repressione contro l’opposizione -senza dubbio corretta in linea di principio- appare nei quartieri come privilegio di classe, giacché la violenza e l’abuso della polizia è pane quotidiano nei settori popolari . E davanti a questo scenario vediamo il ripiego delle proteste specifiche di questi settori, dal momento che, per grave che sia la crisi, non scommetteranno su un cambio di governo senza alcun segnale più o meno concreto sulle cose a venire, e soprattutto con persone al comando che per decenni hanno dimostrato poca volontà di avvicinamento e ancora meno di comprensione delle esigenze dei settori popolari; non hanno fatto alcuno sforzo per comprendere perché Chavez riuscì ad affascinare i sogni di molti venezuelani, il che non accadde grazie a semplici concessioni, a mancanza di raffinatezza e nemmeno all’essere “raccomandati”.

Questo è ciò che sta alla base di quello che volevo dire in precedenza: la diffidenza. Certamente nei quartieri, il governo non solo si è indebolito, ma è screditato, incluso tra i chavisti più impegnati, per i quali il governo reagisce con timidezza e incoerenza a ciò che percepiscono come un’opposizione violenta. Ma i sondaggi mostrano che l’opposizione conta con una chiara maggioranza di circa il 55% di sostegno contro il 15-20% del governo. Ciò significa che, nonostante la crisi, una parte della popolazione simpatizzante nel passato col chavismo e ora delusa dal governo, non ha ancora deciso di sostenere l’opposizione. E certamente, ci penseranno molto bene visto il contesto di proteste che diventano sempre più violente, in particolare in tempi come quelli attuali dove le proteste sono finalizzate a cambiare il governo, senza un’idea più chiara del futuro.

 

-Fino a che punto i CLAP e i collettivi funzionano come meccanismi di disciplinamento sociale?

Esistono senza dubbio questi meccanismi, ma il loro impatto, in particolare quello dei cosiddetti “collettivi” viene sovradimensionato nel discorso e nell’immaginario oppositore e nei suoi echi all’estero. Pochi giorni fa, per esempio, un dirigente oppositore bollò la Guardia Nazionale come “collettivo”, mentre un paio di settimane fa, circolava una cifra, nei media internazionali riconosciuti, che indicava che i collettivi “controllano” il 10% del paese. Al di là dei grandi interrogativi non solo su come si sia raggiunta tale percentuale, ma su cosa si intenda per “controllo” – territoriale, demografico, operativo – questo tipo di analisi mira ad un soggetto omogeneo che non si conforma con la realtà. Anche se condividono caratteristiche -tra le quali la più importante, naturalmente, è l’uso di armi in modo para-statale- certo è che esiste una grande varietà tra i gruppi che si autodefiniscono “collettivi” o che sono conosciuti così. Per lo più si identificano con il governo, ma si differenziano tanto per il loro livello di supporto come nelle ragioni per cui lo fanno, soprattutto in tempi di conflitto aperto come quello attuale.

In termini molto generali, si può parlare di tre tipi di collettivi: un gruppo è di lunga data, ha origini precedenti al chavismo. Sia nell’ideologia rivoluzionaria come nella disciplina tattica sono molto ben formati, e si rifanno all’esperienza delle guerriglie degli anni ’60 dalle quali traggono ispirazione. Effettuano inoltre un importante lavoro sociale, in aggiunta alla vigilanza contro le bande criminali nelle zone dove agiscono, questo dà loro legittimità tra i loro vicini, con alcune eccezioni, naturalmente. Questi gruppi si sono scontrati con l’apparato statale chavista, incluso con Chavez nel suo momento, ogni volta che criticano la mancanza di impegno ideologico delle élite governa mentali nel quadro della corruzione dilagante, perché rivendicano la propria autonomia rispetto all’ordine gerarchico del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV) e perché eludono il controllo sulle armi che Chavez voleva incanalare, senza successo, verso le forze armate. Infatti, mentre ben altre componenti dell’apparato repressivo dello Stato hanno stretto legami con alcuni collettivi, le forze armate in generale vedono tutto ciò in modo negativo Questo spiega la dinamica che li vede uscire e intraprendere azioni in momenti di alta conflittualità: meno in appoggio di Maduro che in difesa di quello che recepiscono come una campagna militare senza quartieri per neutralizzarli in un contesto di transizione.

Un altro gruppo è sorto tra il 2007 e il 2012, in pieno boom chavista. Prendono come modello il gruppo anteriore e sviluppano alcune funzioni simili di difesa in spazi ristretti insieme al lavoro sociale, nelle zone in cui operano, ma la loro posizione ideologica è molto più fedele al “socialismo del XXI secolo”; vale a dire molto più vicini al chavismo e meno autonomi. Molti sono composti da gente più giovane rispetto ai primi collettivi, con meno traiettoria in lotte sociali nelle loro comunità, ma erano disposti a svilupparla nel quadro di quello che fu il boom delle risorse di quegli anni. Poiché queste risorse sono diventate scarse sotto il governo di Maduro (e anche prima), e per la mancanza di una base ideologica forte e indipendente, alcuni sono passati a commettere attività criminali, facendo uso dei loro contatti nel governo, dei loro armamenti e del loro controllo di piccoli spazi.

Infine ci sono quelli che possiamo chiamare collettivi mascherati. Sorgono con l’implementazione del cosiddetto Operativo per la Liberazione del Popolo (OLP), sotto il quale forze speciali entrano nei quartieri per smantellare presunti gruppi criminali e le loro azioni spesso finiscono nel sangue. Nel contesto di questi OLP, settori della polizia hanno avuto contatti con collettivi nelle zone in cui operano, al principio per cercare di evitare scontri, ma in quel contesto, si sono anche appropriati di tattiche e azioni di para-vigilanza che utilizzano i collettivi, ma già con un fine puramente repressivo. Inoltre, con le loro azioni , non più solo intimidatorie, ma anche di scontro e di intimidazione di zone dell’opposizione confermano l’immaginario diffuso su i collettivi: il mostro latente sotto il letto. Dal ciclo di proteste del 2014, si cominciano a vedere questi gruppi, propriamente parte del governo, ma che si coprono nella nomenclatura e nell’azione di gruppi civili armati, vestiti in borghese e girando in gruppi motorizzati.

In questo momento di tensione, i tre gruppi sono attivi, ma il loro ruolo è piuttosto di scontro. Infatti, se le élite chaviste si aggrappano di più al potere nella misura che il conflitto diventa più critico, per quelli percepiti come “collettivi” la dinamica della vita e della morte è ancora più severa anche se differiscono nelle loro ragioni per agire. La confusione su chi o che cosa siano veramente i collettivi ci suggerisce che, in un contesto di transizione, le forze armate – il cui rapporto con loro è di per sé tumultuoso, giacche li vedono come usurpatori delle loro funzioni- avrebbero ampio margine di manovra per neutralizzare qualunque cosa sia considerata sotto quel nome. Questo, naturalmente, tende ad approfondire ulteriormente la sensazione di difesa esistenziale da parte dei collettivi nonostante abbiano numerose critiche da fare a Maduro e alla cupola chavista, sia per la corruzione che per la mancanza di impegno rivoluzionario.

Oltre a ciò, pensare che migliaia o milioni di persone nei quartieri non protestino anche quando vogliono farlo perché sono terrorizzate, risulta piuttosto un modo di rinviare ancora una volta la domanda sul perché, nonostante la crisi, e dopo più di tre decenni, l’opposizione non riesca a motivare i settori popolari delusi dal chavismo a che rischino nelle strade, così come l’hanno fatto in molte occasioni. E così risulta più facile immaginare che deve essere o per stupidità o per paura che non scendano in maniera massiccia. La paura, in particolare, non è stato un fattore limitante in altre proteste precedenti. Per capire questo basta, di nuovo, vedere i livelli di protesta rivendicativa, per lo più altissimi, così come la quotidiana violenza e repressione poliziesca nei quartieri, le quali non coincidono minimamente con le critiche che Almagro, Human Rights Watch, Amnesty International e un’infinità di altre organizzazioni riserva all’opposizione mobilitata nelle strade.

 

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-E i CLAP?

I CLAP esercitano quella funzione di controllo sociale in modo più chiaro e con un maggiore impatto, giacché coprono molto più territorio e in più implicano un aiuto che diventa più critico e necessario nella misura in cui la crisi peggiora. Non per niente c’è stato un rimbalzo significativo nell’approvazione di Maduro all’inizio di quest’anno, che coincise con un operato massiccio e di successo di distribuzione dei CLAP. Ma è anche un meccanismo a doppio taglio. Quanto più si crea nei CLAP un’aspettativa di aiuto critico e puntuale, tanto più il governo deve darli un seguito tempestivo. Nella misura in cui lo fa, diventa non solo possibile ma probabile che questo vincolo con il governo si disfaccia e la gente esca a protestare. Di fatto, ci sono già segnalazioni di settori popolari che protestano per problemi nella distribuzione dei CLAP che si intrecciano con le proteste di stampo più civico e politico. Se gli errori persistono, e crolla l’aspettativa di aiuto, quel controllo che vengono esercitando i CLAP si sfumerà.

 

– Che prospettive immagina per l’attuale congiuntura in Venezuela?

Tutto indica che ci sarà uno scenario di confronto maggiore, il quale, di fatto, segna una pietra miliare nella trama recente del Venezuela. Quel che si commenta poco è che, data l’intensità della polarizzazione, la protesta e il conflitto che ha vissuto il paese negli ultimi due decenni (e anche prima), a cui si aggiunge l’enorme numero di armi per strada e gli altissimi tassi di violenza criminale, è insolito che la tensione sociale e politica non sia andata più in là, incluso una guerra civile. Ciò che è certo è che in momenti nei quali si parlava anche in termini di tutto o niente, della fine del mondo, di una conclusione finale davanti a uno scacchiere chiuso – come nel 2002, 2007 o 2014 – il Venezuela e la sua gente, nonostante tutto hanno trovato come frenare davanti al burrone.

Oggi siamo di fronte ad una congiuntura molto diversa dai precedenti casi di tensione, protesta e di violenza. Il governo non solo è debole in termini di sostegno popolare, ma si trova anche davanti a un panorama geopolitico completamente avverso, e con molti dei suoi quadri immersi nella corruzione, il che riduce la possibilità di immunità davanti a un contesto di transizione. Il governo si mostra alle strette e senza alcun interesse a negoziare in buona fede, dal momento che è in gioco tutto. Per questo motivo fa uso di tutti i pezzi che controlla nell’apparato istituzionale per cercare di fermare questa débâcle, accettando i costi di legittimità che questo comporta sia in ambito domestico che internazionale. Naturalmente, da parte dell’opposizione, con più sostegno che mai dentro e fuori dal Venezuela, nemmeno v’è alcuna volontà di negoziare. In primo luogo per una questione di principio – del tipo “la democrazia non è negoziabile”, anche se ciò che intendono per democrazia è in dubbio – ma più che altro, per sentirsi vicini alla vittoria finale.

Tuttavia, è anche vero, nonostante risulti difficile accettarlo, che come abbiamo detto, né l’opposizione né il governo hanno il potere schiacciante per uscirne vittoriosi. Per questo ristagnano in una brutale lotta di trincee senza un esito chiaro. Il governo gioca al logoramento oppositore. L’opposizione a una rottura decisiva dentro al governo – ad esempio in figure chiave, soprattutto nelle forze armate – e all’aumento delle proteste nei settori popolari che costringano a reprimerle come è stato fatto con le proteste più convenzionali associate con l’opposizione. Questo darebbe loro moltissima credibilità tra i settori che pur mantenendo una critica seria ed essendo delusi, ancora non si decidono del tutto a puntare per un’alternativa di governo oppositore.

Il jolly sono le Forze Armate Nazionali Bolivariane. Risulta sempre più evidente e conosciuto, non solo a scala internazionale, ma nello stesso Venezuela, soprattutto tra coloro che simpatizzano o simpatizzavano con il governo, che le loro cupole sono coinvolte pienamente in atti di corruzione, specialmente nel traffico di alimenti e di valuta che colpisce più direttamente i settori popolari. Ma a differenza delle élite civili chaviste, i militari sanno di essere una pedina di negoziazione precisamente per controllare le armi dello Stato ed essere nella posizione, in un determinato momento, di dirigere quelle armi in funzione di una “pacificazione” dei settori, ad esempio i collettivi, che si oppongano in maniera violenta a una transizione. Infatti, l’opposizione mantiene legami con la gerarchia militare e chiede pubblicamente che si schieri apertamente contro il governo. E può essere che lo faccia, ma al di là del paradosso di un’opposizione che per anni ha criticato la componente militare perché si sovrapponeva alla componente civile, coloro che soffriranno le conseguenze sono gli stessi settori popolari dei quali tanto si parla. Vale la pena ricordare le parole che l’allora nuovo presidente Carlos Andrés Pérez, alla vigilia di quello che sarebbe stato il Caracazo del 1989, disse a uno dei leader di “Acciòn Democratica “: “Quando l’esercito scende in strada, è per uccidere la gente.” Quindi non serve parlare di angeli e demoni in Venezuela. Chi ieri sventolava i diritti umani oggi li viola, e viceversa. E il prezzo sempre lo pagano in maniera evidente quei quartieri di cui si parla tanto, ma che vengono ascoltati poco, e ancor meno compresi. Questo è, in breve, il nodo e la dimensione della nostra crisi.

*Alejandro Velasco è uno storico. Insegna all’università di New York (NYU). E’ editore esecutivo di NACLA Report on the Americas.

Traduzione a cura della redazione di Cronache Latinoamericane.

Alejandro Velasco, Venezuela: ¿por qué no «bajan» de los cerros? , pubblicato nel mese di giugno 2017.

 

 

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