Vio.me: così siamo ripartiti, nella Grecia in default
Dall’edilizia ai detersivi naturali. La Vio.me di Salonicco ha riconvertito la produzione e prova a ripartire dall’autogestione.
Parla un lavoratore
A febbraio scorso i lavoratori della azienda di materiali edili Vio.Me di Salonicco, senza stipendio da maggio del 2011, hanno rimesso in moto la loro fabbrica avviando la produzione autogestita di detersivi naturali. Con questo slogan: «Voi non potete, ma noi possiamo». Da subito è stata lanciata una campagna di solidarietà per chiedere al governo greco la legalizzazione di quest’impresa. In Francia Makis Anagnostou, membro dell’assemblea generale degli operai della Vio.Me, ha incontrato i lavoratori e le lavoratrici della Fralib di Gémenos (vicino a Marsiglia), la filiale francese del gruppo agroalimentare Unilever che è rinata producendo thé e infusioni grazie all’iniziativa degli ex dipendenti, dopo che la compagnia ha chiuso i battenti nel 2011. Anche Fralib, come Vio.me, si batte per il riconoscimento legale della propria attività.
La direzione della Vio.Me ha abbandonato la fabbrica a maggio del 2011 lasciando a spasso tutti i dipendenti. Dopo una grande mobilitazione, che ha visto la partecipazione di migliaia di persone a Salonicco e dintorni, gli operai hanno rilanciato la produzione autogestita il 12 febbraio del 2013. Cosa è successo nell’arco di questi due anni?
Per prima cosa, quando Vio.Me ha deciso di chiudere l’attività nonostante non fosse affatto sull’orlo della bancarotta, abbiamo cominciato a batterci per reclamare i salari arretrati e i nostri posti di lavoro. Poi, a luglio del 2011, il sindacato di fabbrica – nato nel 2006 e indipendente dalla Gsee, la Confederazione generale dei lavoratori greci, e dal Pame, il fronte sindacale di ispirazione comunista – si è trasformato in assemblea e ha votato quasi all’unanimità (97%) l’occupazione dello stabilimento confiscando le macchine e i prodotti. A quel punto abbiamo cominciato a immaginare soluzioni alternative. Riciclando i materiali di scarto siamo riusciti a raccogliere un po’ di soldi che ci sono serviti nei mesi successivi per autofinanziarci. Da subito abbiamo creato una cassa di sciopero e abbiamo anche ricevuto una marea di aiuti alimentari, tanto che ogni giorno tornavamo a casa con due buste della spesa piene di cose da mangiare. Me lo ricordo come un momento magico, perché è riuscito a risollevarci il morale. Nel frattempo abbiamo iniziato a considerare l’ipotesi dell’autogestione, sperando nel supporto del governo e delle amministrazioni locali, ma è stata una perdita di tempo, e qualche mese dopo ci siamo costituiti in cooperativa. L’idea era semplice ed è diventata il nostro slogan: se loro, i padroni, non possono, noi operai invece possiamo. Nonostante tutto un anno fa eravamo molto demoralizzati perché non eravamo sicuri di potercela fare da soli, in 38, e in più illegalmente. E invece il supporto del Comitato locale di solidarietà, composto per lo più da attivisti della sinistra radicale o di orientamento anarchico, ci ha fatto intravedere la possibilità di andare avanti anche da soli e immaginare una produzione diversa che non fosse tossica, ma naturale.
Parliamo della riconversione. Per quale motivo avete deciso di passare dalla produzione di materiali da costruzione alla produzione di detersivi naturali? E in che misura oggi si produce in modo diverso rispetto a ieri?
Non produciamo più la stessa cosa per ragioni di sostenibilità economica e soprattutto ecologica. I nostri detersivi – saponi, ammorbidenti, detergenti per i vetri – costano poco, sono pensati per le famiglie greche al tempo della crisi, e non contengono additivi chimici ma solo componenti naturali. Diciamo che trasformare un’impresa chimica e inquinante in una fabbrica attenta all’ambiente per noi è stato anche un modo per ripagare un debito alla società. Ora il lavoro e la cooperativa sono gestiti collettivamente. Facciamo assemblee tutti i giorni e ogni mattina decidiamo chi fa cosa assegnandoci ciascuno una postazione diversa, a rotazione. Nessuno dà gli ordini e ci trattiamo tutti allo stesso modo, sia a livello di stipendi – purtroppo ancora molto bassi – sia a livello di decisioni. Abbiamo stabilito infatti che ogni lavoratore è membro della cooperativa e che ogni membro della cooperativa deve essere un lavoratore, cioè le quote dei membri non possono essere cedute né rivendute. È un modo per garantire la democrazia diretta.
In questo regime di illegalità come riuscite a comprare le materie prime e a rivendere i prodotti?
Sfacciatamente, direi. Per acquistare non abbiamo problemi, perché paghiamo subito e in contanti, e oggi in Grecia se hai disponibilità di soldi liquidi puoi comprare tutto quello che vuoi. Però noi non diciamo che vendiamo i nostri detersivi, ma che li «distribuiamo» nei circuiti di un’economia solidale. La distribuzione è possibile grazie a una rete militante che si è creata fin da subito intorno alla nostra iniziativa e che sorprendentemente finora ha funzionato molto bene. La gente compra in fabbrica o presso i rivenditori che ci sostengono. Per ora siamo distribuiti a livello regionale e stiamo provando a raggiungere il Peloponnes e la Germania, dove ci è stato chiesto di inviare un camion di prodotti da far circolare nei negozi del commercio equo. Abbiamo inventato il nostro slogan: «Date una bella pulita…con la solidarietà!» Se questo sistema riesce a dare i suoi frutti in un contesto di illegalità, chissà che cosa potremmo fare se fosse legale.
A proposito di solidarietà. Qual è il senso dell’appello alla mobilitazione che avete indetto per il 26 giugno ?
Il 26 giugno eravamo in piazza per dire a tutti che produciamo illegalmente. Per dire che fabbrichiamo prodotti naturali e economici e che questo per il governo greco è illegale. Insieme al Comitato di solidarietà alla lotta di Vio.me abbiamo pensato che dichiarare apertamente la nostra condizione potesse essere un’arma per fare pressione sul governo in vista della legalizzazione, e anche un modo per prevenire eventuali azioni di repressione da parte delle forze dell’ordine. Finora non è successo ancora niente. La polizia è soltanto venuta a trovarci con la scusa di fare un sopralluogo, ma senza far nulla. Se dovessero tornare saremmo pronti ad accoglierli come si deve, ma ovviamente non è quello che ci auguriamo. Perciò per ora abbiamo scelto un’altra strada e fatto appello a tutti i comitati di sostegno alla nostra iniziativa, in Grecia e all’estero, suggerendo di organizzare sit-in e manifestazioni per chiedere al governo greco che la cooperativa venga riconosciuta legalmente. La questione della legalità è fondamentale per le conseguenze economiche che comporta. Se vogliamo andare avanti, non possiamo prescindere da questo aspetto.
Qual è il ruolo del Comitato di solidarietà di Salonicco e come è nato?
È nato intorno alla fabbrica, nel momento in cui abbiamo cominciato a contattare associazioni e gruppi di attivisti chiedendo aiuto pratico e supporto logistico e politico. Non abbiamo ricevuto nessuna risposta da parte delle forze politiche governative, dai sindacati e spesso nemmeno dalle organizzazioni della sinistra; in compenso abbiamo avuto il sostegno dei militanti e dei collettivi di base. Sono stati loro a mettere in moto la macchina della solidarietà, che ha fatto conoscere la nostra lotta dappertutto, in Egitto, in Danimarca, in Australia. E sono stati loro i nostri principali interlocutori in tutti questi mesi di preparazione dell’autogestione.
E adesso come pensate di andare avanti?
C’è ancora parecchia strada da fare e mille cose da migliorare: ridurre i costi di produzione, espandere la rete della distribuzione, crescere. Per ora abbiamo dimostrato che sappiamo essere più ecologici dei padroni, ma c’è ancora molto da sperimentare per riuscire a fabbricare colla, malta e altri materiali da costruzione naturali. Speriamo anche di moltiplicarci. In Grecia sono già in corso alcune esperienze importanti di autogestione. Penso alla Sekap tabacchi di Zante, o alla Heracles di Evia, che fabbrica cemento. Noi ci aspettiamo che di esperienze del genere ce ne siamo sempre di più. Qui a Salonicco, per esempio, la produzione industriale si è ridotta del 50%, come pure in molte altre regioni. L’area delle fabbriche è piena di stabilimenti fantasma che sono stati abbandonati e di operai a spasso; e anche quelli che hanno la fortuna di lavorare spesso non hanno la fortuna di essere pagati. L’autogestione può servire a invertire la rotta. Non credo che ci sia niente di pionieristico o innovativo in quello che stiamo facendo. Le nostre rivendicazioni e i nostri strumenti di lotta hanno radici profonde nella storia del movimento operaio. Anzi forse l’occupazione delle fabbriche è la prima cosa a cui pensano naturalmente i lavoratori licenziati in un periodo di crisi. Alcuni di noi all’inizio non erano nemmeno particolarmente di sinistra – oggi invece quelli più a destra votano Syriza – ma erano pronti lo stesso a battersi contro l’azienda per il trattamento che ci ha riservato. Per questo mi auguro che l’autogestione operaia possa fare da traino, cioè che possa funzionare proprio come la ruota di un ingranaggio – è questo il simbolo che abbiamo scelto per il nostro logo- che muovendosi rimette in moto l’intero meccanismo della società. Sperando che siano sempre di più quelli che possono seguire il nostro esempio.
Fonte: il manifesto
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