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Vittoria della lotta in Ecuador: quando la lotta sconfigge gli interessi del capitale

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Per capire bene quello che sta succedendo in Ecuador è necessario fare un passo indietro e guardare al contesto in cui si sono sviluppati gli avvenimenti delle ultime due settimane.

Contesto politico

Innanzitutto c’è da dire una cosa: il partito attualmente al governo, Alianza Paìs, è lo stesso dell’ex-presidente Correa; resta quindi da capire come si sia passati da una politica che abbracciava in pieno il concetto di “Socialismo democratico del XXI secolo” ad una che preveda accordi con il Fondo Monetario Internazionale che impongano le solite politiche di austerity.

Il presidente Lenin Moreno – per 6 anni vicepresidente di Rafael Correa – infatti, ha aperto una nuova stagione politica in Ecuador, caratterizzata da una politica economica restrittiva che mira alla diminuzione del debito pubblico e del deficit di bilancio. Benché il debito pubblico ecuadoriano sia aumentato molto durante gli anni di Correa (dal 27% al 40% del PIL) – a causa delle grandi riforme sociali e dei forti investimenti nei servizi pubblici – il rapporto debito-PIL si trova oggi vicino al 50%, con un deficit di bilancio intorno al 3%.

In altre parole, se l’Ecuador facesse parte dell’Unione Europea, sarebbe uno degli stati più virtuosi in termini di bilancio, rientrando comodamente nei termini fissati dal Trattato di Maastricht.

Ma non è finita qui: il nuovo presidente, eletto nel 2017 grazie alla grande popolarità di Correa, e con un governo che avrebbe dovuto marcare una continuità con quello del suo predecessore, ha invece tradito quest’ultimo, tacciandolo di gravi scandali di corruzione, tanto che l’ex-presidente è adesso residente a Bruxelles, in Belgio, in esilio politico dal proprio paese.

Inoltre, Lenin Moreno ha fatto marcia indietro anche su tematiche di politica estera, tornando ad un approccio fortemente filo-americano (durante gli anni di Correa l’Ecuador uscì dall’orbita USA, avvicinandosi molto alla Cina) ed uscendo ad aprile dall’Unasur, organizzazione panamericana di filosofia progressista e indirizzo neo-socialista.

Tutto questo ha sancito un tradimento delle aspettative popolari, che avevano eletto Lenin, come si è detto, pensando di ottenere una continuità con le politiche sociali correiste.

Il patto con il FMI

L’11 marzo 2019 l’Ecuador ha sottoscritto un accordo con il Fondo Monetario Internazionale. In questo accordo sono previste quattro macroaree:

il riequilibrio della massa salariale pubblica, che prevede forti tagli di impiegati nei vari settori statali (si calcola siano circa 16000 i licenziamenti, ma ad oggi il governo non ha fornito cifre ufficiali);

la rimozione dei sussidi al combustibile, che esistono in Ecuador da più di 40 anni e che permettono ai lavoratori ecuadoriani di pagare benzina e diesel meno di quanto le pagherebbero a prezzi di mercato internazionali – ricordiamo che in Ecuador, alla fine degli anni ’90, è stata realizzata la “dollarizzazione” dell’economia, che ha ridotto notevolmente il potere di acquisto degli ecuadoriani (in maniera molto più violenta di quanto non sia successo in Italia con l’euro) e praticamente azzerato il valore delle pensioni;

la riduzione degli investimenti pubblici, già tagliati di almeno 1,2 miliardi di dollari nel 2018;

– e una riforma fiscale, che prevede l’eliminazione di benefici e deduzioni fiscali come l’aliquota zero dell’imposta sul reddito per alcuni beni e servizi come i generi alimentari, i medicinali, i servizi di trasporto passeggeri, la sanità e i servizi di base; il rimborso dell’IVA per gli anziani; e la riduzione del 100% addizionale della spesa per salari e stipendi per i nuovi posti di lavoro.

Secondo indiscrezioni provenienti dalla società civile, in particolare dalla UDAPT (Unione delle vittime della Texaco) e dal CDES (Centro dei diritti economici e sociali), nel patto ci sarebbe anche una clausola per permettere all’Ecuador di pagare una multa multimilionaria alla Chevron, multinazionale americana condannata dalla giustizia ecuadoriana a pagare 9,5 miliardi di dollari per aver causato, nell’Amazzonia ecuadoriana, uno dei disastri ambientali più grandi della storia, e che tramite un arbitrato internazionale – fondato sul fraudolento sistema di soluzione di controversie tra stato e imprese (sistema ISDS, per maggiori informazionii) – ha invece ottenuto l’annullamento della condanna da parte della corte dell’Aia, in Olanda (agosto 2018). Il governo ecuadoriano, invece di difendere la propria sovranità ed i propri cittadini da un’influenza indebita che comporterebbe ulteriori gravi conseguenze per i diritti umani delle 30.000 persone colpite dal disastro petroliero più grande della storia, sta da un anno tentando in tutti i modi di annullare il giudizio ecuadoriano e di impedire alle vittime di ottenere l’omologazione di sentenza in altri paesi.

La rivolta popolare

Il 1 ottobre 2019, con il decreto 883, il governo ecuadoriano ha eliminato da un giorno all’altro tutti i sussidi al carburate diesel ed alla benzina extra, aumentati rispettivamente del 123% e del 25%, andando ad alimentare una già rovente situazione politica. Mentre la benzina extra è il carburante usato dalla maggior parte delle auto private, il diesel è utilizzato in Ecuador per lo spostamento pressoché totale di persone e di merci (non esistendo linee ferroviarie ed essendo l’aereo un mezzo scarsamente utilizzato, prerogativa di pochi ricchi). Questa decisione ha immediatamente creato scompiglio nel paese, con il quasi raddoppiamento dei prezzi dei biglietti dei bus, e con il notevole aumento del prezzo dei beni di prima necessità, con gravi conseguenze sulle tasche della stragrande maggioranza degli ecuadoriani.

I primi a protestare sono stati i trasportisti, che hanno immediatamente indetto uno sciopero nazionale per il 3 ottobre. A questi si sono uniti i movimenti indigeni guidati dalla CONAIE (Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador), che, a causa del blocco stradale, hanno raggiunto la capitale a piedi da tutti gli angoli del paese, con marce durate vari giorni. Arrivati a Quito, circa 7000 indigeni si sono simbolicamente instaurati nella “Casa della cultura ecuadoriana”, grande struttura museale situata nei pressi dell’Asembela Nacional, il parlamento ecuadoriano, da cui i dirigenti hanno gestito ed indirizzato la protesta popolare.

Per 11 giorni consecutivi, dal 3 al 13 ottobre, i movimenti di piazza si sono resi protagonisti di uno dei più grandi esempi di lotta della storia ecuadoriana e non solo, trasformando il centro di Quito in un campo di battaglia, e costringendo il governo a fuggire a Guayaquil, grande città nel sud dell’Ecuador e principale centro economico del paese. La dura repressione del governo, che ha utilizzato polizia a cavallo ed esercito nelle strade, ha portato la morte di almeno 10 manifestanti, più di 1000 feriti (di cui almeno un centinaio gravi), circa 100 “desaparecidos”, e più di mille arrestati (tra cui diversi presidenti di province e parlamentari).

Nonostante tutto, grazie al grandissimo appoggio della popolazione di Quito, che ha fornito ininterrottamente viveri, medicinali, coperte, ed altri beni di prima necessità ai manifestanti per tutta la durata della protesta, il 13 ottobre il governo ha dovuto capitolare, concedendo alla CONAIE un incontro per raggiungere un accordo e mettere fine alla violenza. Dopo una diretta tv e facebook durata circa tre ore, durante la quale tutto il paese ha assistito ad una sonora lezione di retorica, dignità, e potenza impartita dai dirigenti indigeni al presidente Lenin Moreno ed i suoi ministri, incapaci di controbattere con argomenti credibili alle loro rivendicazioni, il governo, con la mediazione dell’ONU e della Conferenza Episcopale Ecuadoriana, ha accettato di ritirare il decreto 883 e di dare vita ad una commissione per scrivere un nuovo decreto, composta da rappresentanti di ambo le parti, e soprasseduta dalla stesse due istituzioni che hanno mediato con successo questo dialogo.

Prospettive future

Nonostante la storica vittoria ottenuta dai movimenti indigeni, salutata con grandi festeggiamenti per le strade della capitale subito dopo la fine del dibattito, le prospettive per il futuro non sono delle migliori: resta in carica un governo che si è reso colpevole di gravi violazioni di diritti umani contro i suoi cittadini, due ministri (la ministra dell’Interno Paula Romo, e il ministro della Difesa Oswaldo Jarrín) di cui si chiedono le dimissioni perché ritenuti responsabili della dura repressione che ha portato ad almeno 10 morti, centinaia di arrestati politici che non sono stati ancora liberati, ed una stampa censurata o asservita al potere, che negli 11 giorni di protesta è stata incapace di fornire informazioni certe e imparziali alla popolazione.

L’unica speranza è che le parti sociali riescano ad imporre le loro rivendicazioni nella stesura del nuovo decreto, e che in qualche modo riescano ad attrarre abbastanza attenzione internazionale da ottenere un’indagine sui crimini commessi dallo stato.

Analisi della lotta

Quello che di buono resta da questa vicenda sudamericana è l’impressionante esempio di disciplina ed organizzazione dimostrata nella lotta capeggiata dai movimenti indigeni. Giunti a piedi dalle varie province del paese, dopo aver percorso decine se non centinaia di chilometri, uomini, donne e bambini hanno sfidato per 10 giorni il potere governativo, resistendo alla brutale repressione ad opera della polizia e, negli ultimi due giorni, persino dell’esercito, che hanno utilizzato senza ritegno bombe lacrimogene e proiettili di gomma, provocando, oltre ai morti, gravi infortuni permanenti a centinaia di persone.

Nonostante questo, non appena ottenuto il risultato sperato, cioè il ritiro del decreto 883, i manifestanti hanno rispettato alla lettera gli ordini dei dirigenti indigeni (ed in particolare di Jaime Vargas, presidente della CONAIE di nazionalità Achuar, un uomo che ha dimostrato un sangue freddo, una fermezza ed una determinazione ferrea scendendo in piazza al fianco della sua gente prima, e sfidando faccia a faccia il presidente della Repubblica poi), smobilitando le piazze e ritornando ordinatamente nei loro territori. Tutto questo non prima di aver ripulito la città dalle barricate e dai detriti causati dalla “guerriglia urbana” dei precedenti 10 giorni, con una “minga” (termine Kichwa che significa “lavoro comunitario”) durata tutta la giornata del 14 ottobre.

Ma quali sono gli elementi che hanno permesso e che permettono a questa frangia della popolazione (circa il 7%) di essere così organizzata ed efficiente nella lotta?

Per prima cosa, gli indigeni rappresentano una delle fasce più povere della popolazione, essendo prevalentemente contadini, il che li spinge a lottare per i loro bisogni primari, lasciando le loro case e mettendo in gioco la loro stessa vita; secondo poi, la discriminazione storicamente subita dalle popolazioni native, ancora oggi evidente, ha permesso a queste ultime di andare oltre le differenze culturali e di stringersi intorno ad un’unica bandiera, portando avanti la causa indigena in maniera compatta, ma facendosi anche portatori delle istanze dell’intera popolazione; terzo, la cultura indigena è caratterizzata da uno stile di vita estremamente comunitario, basato su una concezione di diritti collettiva, e da un grado di solidarietà sociale e cooperazione decisamente più alto di quello che si può osservare nella maggior parte delle società occidentali; quarto ed ultimo aspetto, la società ecuadoriana è decisamente meno frammentata a livello politico della nostra, non avendo alle spalle una storia di dittature di colore politico rosso o nero. In piazza, i simboli politici erano praticamente inesistenti, e l’unico stendardo sventolato dai manifestanti era la bandiera nazionale, il tricolore ecuadoriano, che però appartiene indelebilmente alla storia indipendente del Sudamerica, ricordando la bandiera della “Gran Colombia” bolivariana di metà ‘800.

Questo insieme di fattori ha fatto sì che lo slogan “el pueblo unido, jamas serà vencido” diventasse una realtà, ed ha permesso a quest’ultimo, al Popolo ecuadoriano, di vincere un’importate battaglia contro il proprio governo e, cosa ancora più importante, contro il Fondo Monetario Internazionale.

Solo nelle prossime settimane sapremo se i diritti conquistati saranno tutelati, e se il governo rispetterà gli impegni presi, con la consapevolezza però di avere di fronte a sé un Popolo organizzato e unito, che ha dimostrato di essere pronto a sfidare il potere costituito, qualcosa che in Italia – a causa dell’ineluttabile avanzamento capitalistico che ha portato ad un egoismo ed un individualismo sfrenato, trasformandoci in una società di medioborghesi – non è più possibile nemmeno immaginare.

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