Welcome to our hood: la rivolta di Ferguson, la rivincita di una comunità
And for me it’s reversed, we left them a world that’s cursed, and it hurts
’cause any day they’ll push the button
and you all condemned like Malcolm X and Bobby Hutton, died for nothing.
(2Pac – Ghetto Gospel)
L’uccisione del giovane afroamericano Mike Brown nel sobborgo di Ferguson ha fatto riemergere, tutto d’un tratto, la stringente attualità delle dinamiche di controllo che agiscono nel substrato sociale degli USA. Un episodio ormai fin troppo comune – l’uccisione di un giovane nero – ha mostrato come la stratificazione della società americana continui ad essere regolamentata da un razzismo “sistemico”, utile strumento del potere per gestire e conformare le situazioni potenzialmente più effervescenti e dannose.
In quest’ottica è importante notare come nessun media, nel riportare la rivolta del quartiere di St.Louis, abbia accennato alla definizione di “ghetto”. Il termine, che qualche benpensante liberal-progressista potrebbe associare con troppa semplicità alla sola esperienza dei quartieri-confino della comunità ebraica, è invece corretto e condivisibile sotto diversi aspetti che, se letti globalmente, aiutano a compiere un’analisi più chiara e onnicomprensiva degli avvenimenti di Ferguson.
Il ghetto, per la comunità afroamericana, non rappresenta semplicemente il luogo fisico della propria emarginazione, il ghetto è in primo luogo una forma mentis con la quale si è abituati a convivere – quasi sempre in maniera conflittuale – è un non-luogo in cui vengono attuate le più basilari forme del controllo sociale tramite la latente negazione di ogni diritto, una condizione che solo attraverso una lettura semplicistica potrebbe apparire “autoimposta”.
Il ghetto è dunque allo stesso tempo lo spazio fisico e metafisico della segregazione, e la comunità che lo abita ne comprende tutte le contraddizioni, pur continuando a viverlo con un senso di appartenenza e di rivendicazione che finiscono col renderlo uno dei luoghi più impraticabili ai fini del mantenimento dello status quo.
Il ghetto è, in questo senso, il luogo in cui la comunità assume consapevolezza di sé e delle sua storia, della sue tradizioni culturali e sociali e anche, e soprattutto, della propria forza in termini conflittuali. Non è un caso che alcune tra le più importanti rivolte degli ultimi anni siano nate a seguito dell’uccisione di una persona per mano della polizia – vedi Mohamed Bouazizi in Tunisia e Mark Duggan a Londra – e nemmeno che queste esplosioni di rabbia nascano principalmente dal senso di appartenenza che queste persone avevano nei confronti della propria comunità. Il tentativo di gestire l’emarginazione sociale tramite la creazione di quartieri-confino si ritorce così contro il potere che, per paura, non conosce altro mezzo di controllo se non la repressione pura e semplice.
I meccanismi che portano una comunità a reagire compatta a questo tipo di soprusi vanno dunque letti nell’ottica di un rifiuto sostanziale delle forme di gestione del territorio, messe in discussione in primo luogo dall’alterità che nasce dai legami tra le persone, elemento già di per sé in grado di contrastare la visione iper-individualista e conformante del regime neoliberista americano.
Certo, siamo ancora lontani da una vera e propria riorganizzazione del movimento di liberazione dei neri, e sicuramente negli ultimi vent’anni è stato gioco facile della controparte eliminare e omettere tutto ciò che era stato costruito nella lunga stagione politica delle organizzazioni rivoluzionarie afroamericane.
Ciò non toglie che la rivolta di Ferguson debba essere inserita a pieno titolo all’interno dei processi di rivolta globale che stanno accompagnando questi anni, segnati dalla più imponente crisi sistemica che il capitalismo abbia conosciuto. I riferimenti sempre più espliciti e riconoscibili usati dai manifestanti rimandano immediatamente a una tradizione che ha nella lotta di classe il nucleo fondante del suo antagonismo, che diviene così non banalmente riferibile ad un presunto “opposto estremismo” della questione razziale, ma riguarda più nel profondo proprio l’intreccio tra classe e razza all’interno delle contraddizioni del sistema capitalistico, esattamente nel luogo da cui quest’ultimo trae la sua forza motrice e in cui, di conseguenza, è più sensibile.
Il controllo poliziesco delle mobilitazioni per Mike Brown ha così palesato tutta la debolezza strutturale di cui soffre la società americana, paladina della democrazia e dei diritti in casa altrui ma sempre pronta a farsi negazione di sè quando vengono scoperti i nervi più sensibili del suo apparato politico e sociale. Dal nominare un nuovo portavoce della polizia afroamericano, ad istituire il coprifuoco e inviare la Guardia Nazionale sulle strade di Ferguson, questa schizofrenia – di cui soffre anche la Casa Bianca – è sintomo dell’estrema difficoltà che il potere sta provando nel tentativo di arginare un’esplosione di malcontento che tocca nel vivo la retorica pacificatrice e normalizzatrice che ha contribuito all’elezione del “primo presidente nero”
Laddove il movimento Occupy era riuscito a scardinare decenni di immobilismo sociale senza però riuscire, nell’immediato, a rilanciare su pratiche di lotta slegate da un condizionamento di fondo – si pensi anche solo all’obbligo di svolgere le manifestazioni senza esulare dallo spazio del marciapiede, pena l’arresto – i riot e i saccheggi di Ferguson hanno riportato l’ago della bilancia verso un conflitto che parla di bisogni reali e si fa portatore di pratiche illegali condivise.
I limiti di questa condizione sono, purtroppo, evidenti da subito nella contrapposizione inevitabile tra i rappresentanti di una – quantomai aleatoria – borghesia nera che si oppone agli episodi di looting predicando una non-violenza e un rispetto della legalità che, nella pratica, sono state infrante nel momento stesso in cui la comunità di Ferguson è scesa in strada.
Ora sta alla società americana nel suo complesso decidere se cogliere l’occasione e rilanciare su una mobilitazione a più ampio raggio che riesca, nel medio termine, a scardinare i secolari meccanismi di regolamentazione di cui soffre.
Mai come ora, un gesto simbolico come quello di alzare le mani diviene non emblema dell’arrendevolezza di fronte al potere costituito, ma forza deflagrante di una comunità non più disposta a sottomettere la propria vita al funzionale riciclo dell’ordine costituito.
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