Benvenuti nel cambiamento di paradigma – MayDay a New York
“Lockdown?”, chiede a tutta pagina il free press Metro di fronte alla “promessa di Occupy Wall Street di dar vita al più grande blocco della città di New York che si sia mai visto”. “Mayday mayday” è il grido di allarme del New York Post, il giornale del colosso mediatico di Murdoch. C’è grande attesa e preoccupazione per chi pensava che il movimento fosse un breve fuoco autunnale. “This is what democracy looks like”, come grida il corteo spontaneo e non autorizzato che entra a Union Square, luogo di concentramento della MayDay: democrazia è, per Occupy, una delle parole di cui appropriarsi e immediatamente rovesciare. Chi cercava di ridurre questo movimento a opinione pubblica compatibile con le forme della rappresentanza, sperando che si sciogliesse al primo tiepido sole di primavera, ha subito un’altra sconfitta. Il primo maggio 2012 è una giornata storica per New York e per gli Stati Uniti, che nella grande mela inizia molto presto, già alle 8 del mattino. Uno degli appuntamenti principali è a Bryant Park, dove si discute e ci si organizza per le azioni; nello stesso tempo, molti luoghi di lavoro vengono picchettati, da vari quartieri partono iniziative e cortei, e a Madison Square Park si riempie di decine di lezioni della Free University. Arriva voce di una contestazione al Rockefeller Center, di una manifestazione che si muove da Williamsburg attraversando il ponte, di una marcia di migranti a Manhattan, di arresti già in mattinata. E arrivano, tweet dopo tweet, le notizie dalle altre città nordamericane, dal corteo di Montreal, dai blocchi di Oakland e Chicago.
La manifestazione che si muove da Bryant Park è imponente: la polizia prova a confinarlo sul marciapiede, dove prima dell’esplosione di Occupy sfilavano abitualmente le marce negli Stati Uniti, ma non c’è niente da fare. “Ci avete cacciato da Zuccotti Park, ci prendiamo tutta la città”, urlano i manifestanti prendendo possesso delle strade e bloccando il traffico. Così alle tre, due ore prima del preventivato inizio del corteo, Union Square è già piena come un uovo. La composizione è davvero ampia: ci sono studenti e lavoratori, uniti dalla comune condizione di precarietà e impoverimento, giovani e vecchi, bianchi, neri e latinos. Girando per il corteo, incontriamo molti precari cognitivi europei che si sono trasferiti negli Stati Uniti, in modo più o meno temporaneo. Insieme a loro, circolano saperi e forme di militanza politica. Si temeva, nelle settimane scorse, una divisione tra il movimento Occupy, la coalizione per i diritti dei migranti e i sindacati: ma oggi sono tutti insieme, con un dibattito che continua se ci sia bisogno di “unità” o di “solidarietà”, categorie che tradotte dal lessico americano significano grosso modo omogeneizzazione o autonomia delle differenze. “Tutte le nostre rivendicazioni sono comuni”, taglia corto uno striscione. In ogni caso, compagne e compagni sono tutti d’accordo: questo è un movimento ricompositivo, come mai se ne erano visti negli ultimi decenni negli Stati Uniti. Nemmeno il movimento “no global” era riusciti a esserlo. E rispetto al ciclo dei controvertici, il salto di qualità è evidente almeno da due punti di vista: quello dei contenuti, che riguardano immediatamente le questioni della crisi, del lavoro, della formazione, della casa, della sanità (il fiore all’occhiello delle riforme obamiane è irriso dalla frase “la tua assicurazione ci fa ammalare”), in generale del welfare; quello delle forme di organizzazione, che non procedono più per scadenze, ma si radicano nella continuità di intervento. Una militante di lunga data, guardando Union Square che si riempie e trabocca di persone, spiega che “non c’è nulla di meramente spontaneo o improvviso in questa giornata. É il frutto di un lavoro di mesi, nei quartieri, nelle università, attraverso le reti che si sono costruite”. Al contempo, c’è un grande senso di appartenenza a un movimento globale: “Noi siamo Piazza Tahrir. Noi siamo Piazza Syntagma. Noi siamo Puerta del Sol. Noi siamo Oakland e Occupy Wall Street”, si urla dal palco. Il 99% si incarna nella mobilità e comunanza delle lotte.
L’impressionante diffusione delle iniziative in tutta l’area metropolitana rende difficile quantificare i numeri esatti dei partecipanti, si parla di almeno 25.000 persone. Quando il corteo parte, la polizia prova a costringerlo dentro il percorso disegnato dalle transenne, ma con scarso successo. Una parte consistente imbocca una parallela, blocca il traffico per un’ora e poi si ricongiunge al resto della manifestazione su Broadway. I cops sono nervosi e provocatori, passano con le moto dentro il corteo, ricevendo in cambio disprezzo. Una signora anziana addita uno per uno con parole di fuoco i poliziotti che sfilano, costringendoli ad abbassare la testa. “Non vi rendete conto che state proteggendo un sistema fondato sulla schiavitù?”, chiede un portoricano a un gruppo di poliziotti neri che sta proteggendo la statua di George Washington. “Complimenti per il vostro lavoro e la vostra carriera nella crisi”, ironizzano in molti. No, non c’è davvero paura.
Arrivati nel cuore di Wall Street, il corteo prosegue fino a Vietnam Veterans Plaza, piazza privatizzata in mezzo a Standard & Poor’s e altri grattacieli del capitalismo finanziario. Inizia un’occupazione temporanea, con una grande assemblea. Lo spazio circolare e la notte, illuminata dalle luci della metropoli e dai lampeggianti della polizia che circondano la piazza, richiama alla mente immaginari cinematografici da “Guerrieri nella notte”. Un afroamericano, amplificato dal “mic check”, afferma che “Occupy Wall Street è la forma attraverso cui le voci nere e latinos parlano”. E tutti ripetono, dando una prova concreta di come le differenze producano un linguaggio comune. Alle 22.30 il corteo riparte, la polizia tenta nuovamente di confinarlo ai lati della strada, un gruppo raggiunge Zuccotti Park e ancora una volta la rinomina Liberty Plaza.
É noto che gli anni Novanta si concludevano con l’annuncio di Matrix: benvenuti nel deserto del reale. Si sbagliavano, i fratelli Wachowski e coloro che immaginavano un pensiero unico senza resistenza. Ora è chiaro cosa significa il cartello che ha accompagnato il corteo “welcome to the paradigm shift”. Al termine di questo lungo primo maggio, il titolo di Metro può sostituire il punto interrogativo: “Lockdown!”. Probabilmente non sappiamo ancora che cos’è uno sciopero generale della nuova composizione del lavoro vivo, ma di sicuro a New York abbiamo visto delle indicazioni di portata strategica. Però non c’è tempo per fermarsi a contemplare la giornata, già oggi si riprende con l’occupazione del Brooklyn College, la famosa casa d’aste Sotheby’s (che precarizza i lavoratori dell’arte, mentre vende L’urlo di Munch per 80 milioni di dollari) e numerose altre iniziative. La MayDay continua per il movimento, e il segnale di allarme per il loro sistema in crisi si fa sempre più forte.
da: Uninomade 2.0
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