Boom degli stage extracurriculari: in 5 anni + 71%. È questa la nuova occupazione?
Il 4 maggio l’Agenzia Nazionale Politiche del Lavoro (ANPAL) ha pubblicato sul suo sito una prima analisi sui risultati conseguiti dai tirocini extra-curriculari, la prima del genere. Gli ambiti toccati riguardano: la composizione sia dei tirocinanti che delle imprese, gli esiti occupazionali e le normative ed enti che hanno finanziato tale dispositivo.
I tirocini extra-curriculari sono quelli che vengono svolti al di fuori di un percorso di studio, l’obbiettivo è l’inserimento e il rinserimento nel mercato del lavoro. I soggetti coinvolti non si limitano quindi solo alle generazioni più giovani, in cui c’è una vasta componente che non ha mai avuto esperienze lavorative, ma anche alle persone aventi 40 anni e oltre che hanno perso il lavoro e si trovano in stato di disoccupazione. Gli under30 sono maggioritari numericamente, questo a causa dell’avvio del programma Garanzia Giovani, emanazione di un più vasto insieme normativo lanciato in tutta l’Unione Europea per ridurre la disoccupazione giovanile nei paesi in cui si attesta a un livello uguale o maggiore del 25%. Il programma ha raggiunto il suo picco nel 2015, è questo lo si nota anche dai dati riportati nel report, infatti in quell’anno i tirocini attivati hanno raggiunto il loro massimo di 348.341, successivamente si sono ridotti arrivando alla quota di 186.001 nel 2017 (programma che in Italia, dove non ci facciamo mancare proprio nulla, ha già ricevuto diverse critiche su mancati pagamenti e ritardi).
Gli esiti occupazionali sono stati calcolati in termini di stima di possibilità di occupazione successiva alla conclusione del tirocinio, ciò significa che quello che è stato calcolato non è una quantificazione complessiva della reale occupazione creata sul medio-lungo periodo, ma la comparazione tra i diversi anni della probabilità di impiego una volta concluso il periodo di tirocinio. L’indicatore utilizzato verifica, per ogni tirocinio avviato, la presenza di un assunzione nei sei mesi successivi alla conclusione dell’esperienza, non viene quindi presa in considerazione la durata contrattuale di tale assunzione. Se la probabilità di assunzione di un tirocinante nel 2016 è tre volte quella di un suo omologo nel 2012, il livello di assunzione entro i sei mesi non supera il 39%.
I dati presi singolarmente, non contestualizzati e non rapportati alla società nel suo complesso possono comunque essere fuorvianti. Il periodo che va dal 2014 ad oggi ha visto una generale ripresa dell’economia europea, ma come avevamo già sottolineato, la ripresa dei profitti è stata esclusiva del 2% della popolazione, già ricca prima della crisi. L’aumento occupazionale è quindi direttamente correlato alla lieve ripresa che stiamo vivendo, quello che viene tralasciato nel report dell’ANPAL e da diversi economisti e analisti di mercato. Soprattutto, il dato occupazionale è di per sé asettico, per contribuire alla costruzione di un quadro completo della realtà deve essere rapportato con il tipo di impiego creato, il livello retributivo, la qualità lavorativa e la durata media dei contratti. E qui casca l’asino, perché i (pochi) contratti proposti sono per ill 37,5% dei casi posti di apprendistato. Segue un 32,5% di contratti a tempo determinato e soltanto un 26,1% a tempo indeterminato.
I tirocini sono uno strumento per garantire lavoro gratuito alle imprese, che siano nell’ambito dell’alternanza scuola-lavoro, in quello della Garanzia Giovani o generale. Politiche serie sulla riduzione della disoccupazione ad oggi non sono mai state avviate (Garanzia Giovani è stata bocciata dalla stessa Corte dei Conti nel 2017), in Italia il livello di tale fenomeno, strutturale dell’economia capitalista, continua ad essere a livelli alti soprattutto tra i giovani e le generazioni tra i 45 e i 60 anni, le fasce della popolazione maggiormente colpite dalla crisi e dalle politiche economiche-lavorative successivamente varate.
Quello che resta è il dato impressionante di aumento del ricorso al tirocinio (+71%) proprio nel periodo di “uscita dalla crisi” e il carattere ormai strutturale di questa forma di impiego. Tra le aziende che hanno fatto ricorso alla misura più di una volta, il 61% lo ha fatto in annualità consecutive tra loro, segno evidente di un ricorso alla misura per portare avanti – e magari aumentare – i profitti senza avere costi lavorativi. In fondo chi vuole più pagare stipendi quando si può, per legge, avere dei lavoratori che lavorano gratis?
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