Coatteria ministeriale
Dire che in prigione si soffre per le inaudite privazioni è senza dubbio una tautologia. Così come parlare di prigione senza cadere nel cliché è pressoché impossibile. Mi sono chiesto qualche milione di volte se fosse mai stato possibile rendere l’idea, restituire una sola immagine, banale che fosse ma rivelatrice, dell’inafferrabile sofferenza che solo un prigioniero può capire.
Me lo sono chiesto atrocemente in questi 40 anni di semilibertà strappati alla ferocia degli inseguitori. Ogni volta che mi appariva da lontano e in tutte le latitudini lo spettrale recinto di una prigione. Se fosse stato in un paese di clima torrido, sapevo che oltre il grigio sporco di quelle mura boccheggiavano per il caldo centinaia di persone – negli inverni europei, immaginavo il silenzio ghiacciato di una cella, il peso esagerato di coperte che non scaldano. Mi facevo di queste immagini uno scudo per non lasciarmi attingere da mille altri dolori che mi avrebbero consumato sul posto. Giacché, per combattere contro l’oppressione insopportabile, l’incosciente ci soccorre eliminando tutto ciò a cui non possiamo dare un nome. Ancora oggi, dalla cella in cui mi trovo, maledico il rumore dei miei passi che si allontanano, impedendomi di sentire i gemiti dietro quelle mura. Eppure la prigione resiste a tutte le civiltà, anzi le peggiora. E le sofferenze che il prigioniero conta di poter far intendere, non devono staccarsi mai troppo da quelle che soffre anche la gente fuori. Per questo i reclusi, che rinuncerebbero senza esitazioni anche al mangiare o al dormire in cambio del sentirsi ancora donne o uomini, si ritrovano a reclamare quello a cui è più facile dare un nome. Questa è la ragione per cui ho voluto rendere pubblico un semplice reclamo, formalizzato oggi 10 luglio 2020 davanti al Giudice.
Dopo una traduzione spettacolare fino al Tribunale di Cagliari – innanzitutto tenere alto l’indice di pericolosità del mostro – mi è stato concesso qualche minuto per tentare di dire l’indicibile, sotto lo sguardo inorridito del P.M. e allegare all’udienza il documento che segue, il quale, seppur personale, riflette specularmente la situazione di migliaia di altri sepolti vivi.
All’Ufficio di Sorveglianza di Cagliari
“In seguito all’intervento di questo Ufficio di Sorveglianza nei mesi scorsi, gli alimenti industrializzati, spesso scaduti, imbevuti di materia grassa e altre fritture simili mi sono stati sospesi. Sostituiti da appena un pezzetto di formaggio a pranzo e una mozzarella a cena. Succede di rado di ricevere una fettina di manzo, tanto secca e dura che non si può onestamente considerare commestibile a meno di avere una dentatura da squalo.
E’ oltre un anno che non mangio più un pranzo caldo, poiché sono costretto a scegliere tra il pasto e l’ora d’aria, che per me si dà proprio alla stessa ora, coiè quando gli altri detenuti liberano il passaggio e vanno a mangiare. Al mio ritorno in cella la pasta, di cattiva qualità e condita con materia grassa di origine indefinita, è diventata un blocco compatto. La frutta è spesso la metà di quella prevista. La sera la cena è quasi sempre due uova sode e minestrina. Ci si deve arrangiare con qualche acquisto al sopravvitto.
Pur non avendo dati precisi sui canoni alimentari previsti, non è possibile credere che qualità e quantità del vitto siano quelle previste. E non si può ridurre il tutto a una questione di numero di calorie, proteine, carboidrati ecc., come sono costretti a sostenere al reparto sanitario perché così glielo impone la Direzione (medici e infermieri ammettono sottovoce che non è concesso loro un margine di manovra che gli permetta di svolgere correttamente la loro missione). Se così fosse, ossia un’alimentazione fatta di numeri aggregati, una pillola sistemerebbe tutto e sarebbe anche più digeribile.
Voglio far notare appena due episodi che mostrano un certo fare intimidatorio per dissuadermi da questo tipo di dichiarazioni:
Lunedì 06 luglio alle 17,15 mi trovavo nel reparto sanitario per un malessere che viene ripetendosi da qualche tempo, avevo infatti la pressione sanguigna sotto i 100, quando un agente irrompe nella sala e, intromettendosi in una conversazione tra medico e paziente, mi aggredisce verbalmente, impedendomi così di riferire sulle carenze di vitto. Faccio notare che, data la mia condotta irreprensibile nell’istituto, in nessun modo si giustificherebbe un simile comportamento da parte di un agente, soprattutto in quella sede.
Il secondo episodio riguarda questa udienza che, se non sbaglio, era fissata da oltre un mese e avrebbe dovuto influenzare l’agenda della Direzione. Risulta invece che appena sei giorni fa la Direzione prenota, proprio lo stesso giorno e alla stessa ora, un esame clinico esterno, chiesto dallo specialista sin dal mese di febbraio. E se non bastasse, solo ieri mattina, a un giorno dall’udienza, un ufficiale è venuto a informarmi dell’infelice contrattempo, insistendo però che avrei fatto bene a rinunciare all’udienza, giacché per l’esame avrei dovuto aspettare altri 6 mesi.
Insomma mi pare che questo Tribunale abbia di che trarre conclusioni.”
Massama 10 luglio 2020 Cesare Battisti da Carmilla
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