CRISI PANDEMICA E SANITÀ CALABRESE: UNA TESTIMONIANZA #1
In un’epoca di angeli, santi, eroi, raccogliamo, non senza qualche difficoltà, la testimonianza di chi quotidianamente, in qualità di collaboratrice di studio medico, si trova a fronteggiare un’emergenza, sostanzialmente esogena, che assume contorni preoccupanti per via delle carenze e delle lacune della struttura.
Si tratta della prima di una serie di racconti che si consuma intorno al mondo della sanità pubblica e privata calabrese e che proporremo ai lettori di «Malanova». Non è stato facile, dicevamo, ottenerla perché, si sa, la paura di ripercussioni e rimostranze pregiudica spesso la libertà di espressione anche alla luce della recente lettera del commissario dell’Azienda sanitaria provinciale Simonetta Cinzia Bettelini indirizzata ai direttori dei dipartimenti e degli ospedali con tanto di esplicita minaccia di interventi disciplinari contro chi evidenzierà pubblicamente le criticità della propria struttura sanitaria senza il consenso dei vertici dell’ASP. Quello che proponiamo è uno spaccato di come quotidianamente ci si è trovati ad affrontare la pandemia diventando il fronte principale dell’emergenza Covid-19 sul territorio.
Con la chiusura delle attività ambulatoriali in ospedale, il medico di famiglia è diventato l’unico interlocutore per il paziente: infatti, l’afflusso di persone negli studi medici è considerevolmente aumentato. All’inizio della pandemia la situazione per noi operatori è stata psicologicamente molto difficile, visto che ci trovavamo a contatto con tutti i pazienti e senza nessun tipo di dispositivo di protezione. Nessun divisorio in plexiglass, in una struttura in cui gli ingressi non erano contingentati, né ordinati per flussi in entrata e in uscita, nessuna rilevazione della temperatura, con pericolosi affollamenti nelle aree di attesa, senza i necessari distanziamenti o l’adeguata areazione, nulla di nulla: ci è stato addirittura chiesto di dotarci autonomamente di mascherine e disinfettanti, in attesa di forniture adeguate. In effetti, le forniture sono poi arrivate, ma forse non per noi visto che dall’inizio della pandemia a oggi abbiamo ricevuto ciascuno 4 mascherine fp2 e 12 mascherine chirurgiche! Con l’avanzare della pandemia la situazione è leggermente migliorata: sono stati approntati dei divisori in plexiglas e soprattutto si sono limitati gli accessi all’ambulatorio. Dopo un mese di scontro, talvolta aspro, con i datori di lavoro abbiamo ottenuto il telelavoro per tre giorni a settimana, sotto la velata minaccia che, se non avesse funzionato, si sarebbe tornati subito al lavoro tradizionale in sede (concessione concessaci solo per il mese di aprile!). Da aprile in avanti la gestione è cambiata e leggermente migliorata. Ora si cerca sicuramente di contingentare gli ingressi con l’obbligo di prenotare gli appuntamenti; tuttavia, un’emergenza di questa portata non ci consente di seguire queste precauzioni. All’ingresso c’è un operatore che si occupa di rilevare la temperatura e di indirizzare la persona nella struttura. L’operatore, però, non copre tutti i turni degli studi. Che allora la fortuna ci aiuti e speriamo che non ci siano problemi in quegli orari! Oggi siamo più che mai preoccupati: a marzo si era molto impauriti, ma inconsciamente consapevoli che il virus fosse fisicamente lontano da noi. Oggi, che ce l’abbiamo in casa, siamo veramente angosciati dalla superficialità che ancora ci circonda e dalla mancanza di quelle garanzie anche minime, utili a preservare la nostra salute. Non è prevista la presenza continua di un operatore di pulizia che sanifichi a ogni utilizzo, ma solo un turno quotidiano di pulizia e sanificazione che, lo si capisce bene, non può essere sufficiente a garantire la necessaria pulizia e igienizzazione. Si è provveduto però a fornire gli studi che ospitano i medici di sanificatori all’ozono: i nostri spazi ovviamente ne sono provvisti! Ma la più grave delle carenze, a tutt’oggi, rimane forse la mancanza di un sistema di procedure di controllo preventivo sulla salute: nessun tampone neanche rapido, nessun test sierologico, né periodico, né una tantum, è stato riservato agli operatori di accoglienza il cui delicato ruolo continua così a non essere riconosciuto quanto dovrebbe. Mi permetto di inserire una piccola valutazione finale: vorrei tanto venisse considerata l’enorme pressione psicologica a cui questo tipo di lavoro ti sottopone e del quale nessuno sembra mai tener conto. Gli operatori sono il front office a cui tutti si rivolgono, vedono tutti i pazienti, quelli malati e quelli sani, quelli contagiati e quelli no, sono quelli che ogni giorno devono ingoiare tutte le loro lamentele, ricevere i loro rimproveri e anche i loro maltrattamenti. Tutto questo con l’ansia di ammalarsi e di tornare a casa a infettare i propri cari ai quali magari per proteggerli si è impedito di uscire.
Operatore front office medici di base
Ci sembra quindi che, così come in quasi tutti i contesti lavorativi privati dei più disparati settori, anche quello della sanità che eroga servizi pubblici essenziali sconta la stessa perversa logica dimentica della centralità della persona, nonché della sua cura e della sua sicurezza. Essa non valorizza le relazioni tra gli individui, costretti a convivere con malattie croniche anche pregresse in una situazione completamente nuova. Insomma, anche in questo caso, ci sembra che si tratti dei consueti altarini sui quali sacrificare gli agnelli sacrificali a beneficio di coloro le cui rendite di posizione non verranno mai scalfite.
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