L’infamia della morte per sfratto, lo scandalo della vita in rivolta
Firenze. Arriva lo sfratto. La polizia sfonda la porta ma trova un uomo morto. Si è impiccato a 60 anni, nel giorno in cui avrebbe dovuto la lasciare la sua casa. È successo ieri.
Sulle pagine on-line della stampa ci si limita a ripubblicare le poche righe d’agenzia. Tutte uguali. È un fatto di cronaca come gli altri, una “tragedia”. Come se non si trattasse dell’ennesimo morto da aggiungere al bollettino di guerra che in 10 anni di crisi economica non ha mai smesso di aggiornarsi di suicidi. Eppure dalla “politica” non arriva nessun commento. Non c’è scandalo all’idea che un uomo di 60 anni arrivi a pagare con la vita la colpa della propria insolvenza, per qualche rata di condominio saltata. Per lui nessun Assessore scomoda il proprio ufficio stampa: nessuna nota, nessun comunicato. Imbarazzo.
In effetti, davanti a un morto suicida è difficile ripetere quello che si è abituati a ripetere ai vivi: “se sei sotto sfratto, è colpa tua”, “se sei povero, è colpa tua”, “se non trovi un lavoro, è colpa tua”, “se non riesci a mantenere la tua famiglia, è colpa tua”. La colpa non è mai delle istituzioni che tagliano welfare e diritti, non è mai dei proprietari che impongono affitti esorbitanti, non è mai del padrone che ti spreme e poi ti licenzia. E’ sempre colpa tua: è sempre questo in fin dei conti anche il senso dei tanti discorsi propinati agli utenti dei vari Servizi Sociali di tutto il paese.
La colpevolizzazione della povertà è concepita con due funzioni: la prima è quella di assolvere le istituzioni e l’ordine sociale da ogni responsabilità circa le sofferenze che milioni di persone sono costrette a subire, in solitudine, nel paese; l’altra è quella di ribaltare il piano e utilizzare queste stesse sofferenze per costruire nei poveri-utenti nuovi livelli di accettazione e disponibilità. In altre parole: chi si rivolge alle istituzioni per avere – dopo una vita passata a pagare tasse e contributi – si ritrova in un attimo nella posizione di dover dare, ancora e di più di prima. Chiedi un contributo economico per poter mettere insieme il pranzo con la cena? Ti viene chiesto di andare a lavorare sottopagato con una borsa-lavoro o un tirocinio. Hai bisogno di una casa a causa dello sfratto che incombe? Si esige la tua disponibilità ad essere inserito nei “progetti di accoglienza” (donne e bambini in strutture indecenti, uomini in strada… invogliati così a cercarsi un lavoro).
Sostanzialmente ad essere richiesta è la disponibilità ad espiare le proprie colpe: quella di non essere stato un buon genitore, un buon lavoratore, un buon amministratore del proprio reddito. L’obiettivo, certo, non è quello di indurre al suicidio, ma in questo quadro il suicidio non solo è un incidente di percorso possibile ma anche il problema minore. Tu muori, ma il problema peggiore per loro è evitato.
Il vero problema per loro è chi lotta. Una scelta che in tutto il paese, da anni, da vita a centinaia di picchetti antisfratto in tutto il paese da Cagliari a Bologna, occupazioni di alloggi delle banche come successo poche settimane fa nella stessa Firenze, proteste agli uffici pubblici come due giorni fa a Torino contro l’infamia degli sfratti a sorpresa, protesta contro gli sgomberi chiamando in causa le istituzioni come nel caso delle case popolari di Quarticciolo a Roma questa settimana. Lotta per la casa, per la vita, per la dignità.
Solo qualche giorno fa l’Assessore Funaro nella stessa città di Firenze definiva “ignobili” le iniziative di lotta degli inquilini che si ritrovano sotto sfratto. Proseguiva poi accusandoli di “fare politica”. È questo per loro il vero scandalo. E’ qui sintetizzato il loro terrore. Ed è qui l’unica possibilità per noi di uscire dalla sofferenza, dalla solitudine, dalla rassegnazione.
Umiliazioni, ricatti e vere e proprie torture psicologiche (come l’art.610 che dispone lo sfratto “a sorpresa” degli inquilini) sono ciò che le istituzioni offrono a chi si ritrova oggi a subire la crisi al punto di perdere il tetto sopra la testa. Unirsi, organizzarsi, riscoprirsi capaci di essere noi una minaccia per loro: è questo il primo rimedio alla disperazione, il primo passo verso il riscatto.
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