Liberalizzazione degli orari: tra voltafaccia gialloverde e sofferenza al lavoro
Si è aperto un ulteriore scontro all’interno del governo sulla possibile nuova normativa delle aperture domenicali, liberalizzate nel 2012 e sintomo di una nuova configurazione del commercio.
Il testo legislativo proposto dal governo non è stato ben accolto dai dipendenti e dagli esercenti, che lo hanno pesantemente criticato, alla luce di quelle che erano invece le proposte di legge iniziali avanzate dalle due forze politiche. I Cinque Stelle avevano proposto un massimo di dodici aperture domenicali all’anno mentre la Lega otto. Il testo base trapelato alla stampa prevede l’apertura domenicale per trenta settimane, di cui quattro scelte a discrezione delle regioni e delle città classificate come turistiche. A seguito del malcontento che ha suscitato tra gli imprenditori della grande distribuzione, il governo ha annunciato che il testo tornerà in commissione attività produttive della Camera dei deputati, per una ridiscussione a cui prenderanno parte anche i rappresentanti delle categorie. Oltre al chiaro fatto che l’iter burocratico si dilata enormemente e alla non chiara posizione che le forze di governo vogliono assumere in merito alla materia, evidente è la criticità della discussione solo parziale di un progetto normativo che già parte al ribasso e che quindi misconosce i precedenti propositi annunciati in campagna elettorale e nelle conferenze stampa. La posizione dei due partiti, stando alle dichiarazioni di Salvini e Di Maio, sembra mutata negli ultimi mesi a causa delle pressioni esercitate dalla grossa distribuzione, che ha un chiaro interesse a far si che nulla cambi e che anzi si giunga ad un ulteriore deregolamentazione.
Il 1 Gennaio 2012 entrava in attuazione il Decreto salva-Italia, voluto dal governo Monti e approvato in un’atmosfera da economia di guerra dalla quasi unanimità del parlamento di allora. La manovra impattava per circa 30 miliardi e tra le altre cose prevedeva l’aumento dell’Iva, l’istituzione dell’Imu (tassa sulla casa), un maggiore apporto statale nei capitali bancari e nei fondi finanziari nonché la totale liberalizzazione degli orari di apertura degli esercizi commerciali che non venivano più vincolati sulla base dell’interesse turistico-artistico dell’ente in sé. Inoltre, sempre rispetto alla sfera commerciale, il decreto legge recepiva un’importante normativa europea, ancora in vigore, che garantisce la totale libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi natura.
I dati Istat recentemente pubblicati sulla distribuzione di vendite durante i giorni settimanali, indicano come la domenica non è il giorno in cui si registrano il più alto numero di vendite ma è il sabato, seguito poi dai giorni feriali. Nel periodo che va dal 2003 al 2014 si è registrato un aumento nel numero di acquisti effettuati la domenica, che però è molto contenuta, poco meno di due punti percentuali. I dati sono piuttosto chiari, la liberalizzazione non ha aumentato enormemente i consumi, negli ultimi anni sono aumenti dell’1% percento o meno, li ha solo distribuiti sui sette giorni al posto che sui precedenti sei.
A distanza di quasi sette anni dall’entrata in vigore della legge, in campagna elettorale, il Movimento Cinque Stelle e la Lega avevano annunciato che una volta al governo avrebbero rivisto la normativa sugli orari, con l’intenzione di regolamentare di nuovo gli orari. A un tale annuncio, come detto prima, non è seguita la realizzazione di una legge in linea con le idee proclamate, ma invece un profondo passo indietro con notevoli discriminanti che di fatto non variano la situazione attuale. Il disegno di legge si dovrebbe concentrare sulla differenza tra grossi centri di distribuzione e i negozi classificati come del centro storico o di quartiere. Questi ultimi infatti possono tranquillamente continuare a mantenere aperto nelle giornate domenicali, a eccezione che per le festività. La questione dunque tocca soprattutto la tematica delle grosse reti distributive e dei grandi centri commerciali, che per il loro strapotere economico distruggono i medio-piccoli esercenti concentrando il commercio in grossi poli.
Il commercio sta subendo un profondo cambiamento, nel 2018 le vendite che sono cresciute notevolmente sono quelle legate all’e-commerce (all’incirca del 13%), mentre quelle dei singoli punti vendita hanno avuto un calo (del 1.5%). Questo andamento, se inserito in una finestra temporale decennale, evidenza che c’è un cambiamento nelle modalità di acquisto della popolazione, che è in linea con i dati raccolti nel resto del continente europeo. Multinazionali come Amazon stanno cannibalizzando le reti di distribuzione territoriali imponendone invece una globale, articolata in grossi centri di smistamento e in reti di trasporto intercontinentali. In questa strategia si inserisce, per esempio, l’acquisto compiuto dal colosso capitanato da Bezos di WhooleFoods market (estesa rete di supermercati alimentari statunitense) nel giugno 2017.
Per quanto riguarda i negozi fisici la tendenza nazionale è quella di una loro concentrazione in grossi centri distributivi quali i centri commerciali. Questi vengono dislocati nelle periferie urbane o negli hinterland metropolitani, andando a ridisegnare l’urbanistica delle città e i confini che precedentemente ne limitavano il dislocamento spaziale. Esempio di tale fenomeno è la situazione lombarda in cui a partire dagli anni 2000 grossi investimenti sono stati fatti per la costruzione di nuovi centri, di cui l’ultimo ad Arese che nel solo 2016 ha attirato 13 milioni di visitatori e generato 600 milioni di euro di fatturato. Nei prossimi anni a Segrate, città della periferia milanese, ne verrà costruito un altro che ha l’ambizione di essere uno dei più grandi d’Europa; avrà un’estensione di 185.000 metri quadrati e impiegherà non meno di 17.000 persone. Il progetto è frutto di una joint-venture tra fondi finanziari italiani ed esteri, di questi ultimi il più consistente ha sede in Australia. La speculazione interesserà tutto il comune di Segrate che in cambio dei permessi di edificazione chiede alle imprese coinvolte di ristrutturare la viabilità complessiva del comune. La stima dei costi complessivi necessari per tutta l’operazione si attesta a un miliardo e quattrocento milioni di euro.
Queste ultime vicende mettono in luce come le amministrazioni locali, ormai in ginocchio a causa dell’austerity, per ristrutturare e mantenere le infrastrutture e l’arredo urbano fanno affidamento sull’afflusso di denaro dai fondi finanziari privati, coinvolti in queste grosse speculazioni commerciali. Chiaramente i privati direzionano tali capitali di modo da avere un ritorno diretto e/o indiretto sia nel funzionamento che negli introiti conseguenti dalle nuove strutture. Questo fa si che la geografia dei territori interessati venga ridisegnata e modificata sulla base di interessi privati, intenzionati a garantire e massimizzare l’investimento compiuto.
La conseguenza maggiore della presenza di tali grossi poli distributivi è il generale impoverimento e chiusura delle normali attività economiche il cui peso è estremamente ridotto rispetto ai capitali spostati dai grossi enti e dai fondi bancari, assicurativi e finanziari.
La questione delle aperture domenicali e degli orari di lavoro del settore del commercio tocca tali processi in quanto si inserisce in un tentativo da parte delle forze di governo di difendere la piccola media impresa commerciale dall’annientamento delle grosse congregazioni della distribuzione sia nazionali-europee che multinazionali. La misura in teoria è stata concepita per garantire una fascia della società ben specifica, costituita principalmente dalla classe media dei piccoli commercianti. I processi economici globali e la crisi economica recente hanno ridefinito i confini di tale soggetto. Come spesso è stato sottolineato, tale classe si è frantumata e spostata generalmente verso uno stadio più basso di ricchezza andando a sfumare nel proletariato urbano e con i lavoratori impiegati nel mondo dei servizi e i precari altamente formati. Il soggetto descritto è uno dei riferimenti dell’elettorato delle cosiddette forze populiste e uno dei protagonisti degli ultimi cicli di lotta europei. La tematica è rilevante perché interessa una grossa fascia della popolazione che cerca di arginare i processi di precarizzazione del lavoro e gli effetti della flessibilità oraria. A questa classe media “bottegaia” si aggiungono infatti i lavoratori, e soprattutto le lavoratrici, della grande distribuzione, commessi, cassiere, lavoratrici delle cooperative la cui vita è completamente scombussolata dalla liberalizzazione delle aperture.
Altro nodo cardine che attraversa le questioni fin qui esposte è la composizione di genere che caratterizza gli impieghi coinvolti. I grossi centri commerciali e le reti di vendita agro-alimentare sono caratterizzate da un tipo di impiego strettamente femminile e sottopagato. L’apertura domenicale e quella serale-notturna hanno sì un incremento rispetto alla retribuzione standard ma tale normale remunerazione è estremamente ridotta. La liberalizzazione degli orari ha interessato soprattutto le donne, che a livello macro percepiscono mediamente un reddito medio inferiore alla popolazione maschile e inoltre le possibilità di carriera e di promozioni lavorative sono osteggiate dalla discriminazione di genere che caratterizza il mercato del lavoro. Le misure di liberalizzazione economica vanno a colpire trasversalmente il tessuto sociale medio-basso con però un’intensità maggiore nei confronti di quei soggetti che già vivono pesanti forme di sfruttamento e discriminazione. Tra questi i più rilevanti sono le donne e i migranti. Questi ultimi impiegati soprattutto nel processo di produzione agroalimentare e nella catena logistica di distribuzione sul territorio.
Sulla tematica delle aperture e degli orari, a seguito dell’emanazione del decreto salva-Italia, poche forze si sono spese per provare ad approfondirne le contraddizioni e la composizione sociale interessata. Questa inoltre è da inserire all’interno di un più generale piano di analisi sul mutamento delle forme di consumo e della distribuzione delle merci nell’economia globalizzata, di cui l’e-commerce e i grossi centri commerciali sono gli enti più rilevanti. Il commercio, in risposta al primo, ha seguito la strategia di ridefinizione degli orari di lavoro e di concentrazione in grossi punti vendita così da poter continuare a reggere il confronto con i negozi online che invece sono mercati virtuali perennemente aperti e che garantiscono sempre più tempi brevi di consegna e prezzi estremamente bassi, frutto di grasse disponibilità e costo del lavoro ad essi collegato fortemente sottopagato, basato su agenzie interinali e su contratti flessibili a chiamata.
Davanti all’inazione sindacale ci sono state alcune prime forme di organizzazione spontanea da parte di chi sta subendo la liberalizzazione degli orari. Un anno dopo l’approvazione della legge Salva-Italia si è creato un gruppo su facebook denominato “Domenica no grazie”, non legato né a sindacati né a partiti o associazioni; ha raccolto al suo interno sia i piccoli imprenditori che i dipendenti, che hanno adottato la pagina come strumento di espressione delle frustrazioni lavorative legate alla flessibilità oraria. Comuni sulla pagina social sono dichiarazioni quali “Turni massacranti e orari folli, rivogliamo la nostra dignità!” o “Fra qualche mese si prenderanno altro tempo per qualche altro motivo e poi ancora e così via… scommettiamo che ad agosto siamo ancora in questa situazione e a quel punto diranno che all’inizio del 2020 si risolverà la situazione” o “Non cambierà nulla è una vera presa in giro, vedrete che ora andranno avanti fino alle votazione europee….con promesse slogan ecc poi passate le elezioni avanti come ora”. La comunità che si è sviluppata a partire dal 2013 è stata avvicinata da diverse forze politiche, in particolare i Cinque Stelle e la Lega, per cercare di raccogliere i voti. Gli esponenti del gruppo sono stati anche invitati nelle sedi istituzionali per discutere la nuova legge, salvo poi rimanere delusi dei pesanti passi indietro compiuti rispetto a quanto annunciato in campagna elettorale.
Negli ultimi anni diversi sono stati gli scioperi indetti nel settore, in particolare il 13 Febbraio a Milano è stata indetta una giornata di mobilitazione da parte dei dipendenti dei supermercati Carrefour. La rete di distribuzione francese ha deciso di cancellare l’accordo mantenuto negli ultimi dodici anni sugli orari e sulla retribuzione attribuita ai dipendenti che lavoravano nei punti vendita la domenica. D’ora in poi i dipendenti del milanese dovranno garantire la disponibilità per almeno ventisei domeniche e una totale disponibilità oraria sui turni che saranno decisi esclusivamente dalle direzioni. Carrefour inoltre ha spostato l’orario massimo di disponibilità degli impiegati fino a mezzanotte, formulato nuovi turni da 13 ore e cancellato per il lavoro domenicale sia i bonus che l’aumento del 30% sulla paga giornaliera. Altri consistenti scioperi si sono verificati in corrispondenza delle festività per chiedere la cancellazione delle giornate lavorative nei giorni festivi quali pasqua e santo Stefano. Riguardo quest’ultimo una grossa protesta c’è stata il 26 Dicembre 2018 contro le aperture della grossa distribuzione alimentare e IKEA, che in alcuni casi hanno richiesto la disponibilità al lavoro anche per natale e capodanno.
La situazione non muterà a seguito dell’emanazione di nuove direttive commerciali, sia perché le forze di governo non sono concordi sulla legge in questione, e sulla strategia da intraprendere rispetto alla grossa distribuzione, sia perché i processi fin qui descritti interessano capitali miliardari transnazionali in grado di piegare le limitate politiche locali ai loro interessi. La realtà sviluppa però nuove e più estese contraddizioni in seno alla logistica e al consumo delle merci, oltre che chiaramente un lavoro sempre più mal retribuito, non garantito e generalmente più improntato a esplicite forme di sfruttamento. Queste si presentano soprattutto nelle condizioni lavorative stesse, nella flessibilità oraria, nel sempre più ridotto periodo di ferie, in un impoverimento dei diritti lavorativi e in livelli remunerativi a malapena utili per sopravvivere, in particolare in una società in cui sono stati privatizzati i servizi e i beni di prima necessità. Il mondo della grande distribuzione organizzata è una pentola a pressione…
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