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Ministero buffo e i dati veri del Jobs Act

Jobs Act. Il problema di fondo non è solo algebrico, ma anche politico. In Italia si persevera nell’idea che le informazioni statistiche siano un giocattolo ad uso e consumo dei governi e non invece il mezzo di sintesi che per eccellenza ci restituisce nitidamente i fatti.

Il Mini­stero del Lavoro si era sba­gliato, facendo lie­vi­tare di 1.195.681 il numero di con­tratti avviati al netto delle ces­sa­zioni tra gen­naio e luglio di quest’anno. Un errore cla­mo­roso, che non può essere giu­sti­fi­cato come svi­sta nei cal­coli data la sua entità e che lo staff di Poletti cor­regge solo nel pome­rig­gio di ieri, eli­mi­nando dal sito le infor­ma­zioni con­te­nenti gli errori, così come se nulla fosse.

Nella mat­ti­nata invece rila­scia­vano una dichia­ra­zione su Repub­blica in cui l’errore di com­pren­sione e ela­bo­ra­zione dei dati era a carico degli stessi gior­na­li­sti che chie­de­vano chia­ri­mento. Insomma un modo inso­lito di rico­no­scere il merito in chi fa dav­vero il pro­prio lavoro.

Il pro­blema di fondo non è solo alge­brico, ma anche poli­tico. In Ita­lia si per­se­vera nell’idea che le infor­ma­zioni sta­ti­sti­che siano un gio­cat­tolo ad uso e con­sumo dei governi e non invece il mezzo di sin­tesi che per eccel­lenza ci resti­tui­sce niti­da­mente i fatti. Per­ché come già Paolo Sylos Labini nel suo sag­gio sulle classi sociali negli anni 80 “Un’analisi della strut­tura sociale che non fac­cia rife­ri­mento alle quan­tità si risolve in una pura fabu­la­zione” ed è quindi mano­vra­bile. Ma i dati non bastano serve anche l’onestà intel­let­tuale nella nar­ra­zione che segue l’analisi delle infor­ma­zioni sta­ti­sti­che, la stessa che dovrebbe gui­dare i governi e i pro­pri entou­rage, tec­nici o meno, pur sem­pre politici.

Dalle pagine di que­sto gior­nale ci si inter­ro­gava ieri sulla discre­panza dei dati pub­bli­cati nella tabella rie­pi­lo­ga­tiva del Mini­stero e quelli che era pos­si­bile rico­struire attra­verso le note men­sili, notando come già solo per i rap­porti di lavoro a tempo inde­ter­mi­nato, al netto delle ces­sa­zioni, si riscon­trava una dif­fe­renza di circa 303 mila contratti.

 


 

A guar­dare la nuova tabella pub­bli­cata ieri si evince che al netto di alcune revi­sioni, ave­vamo for­nito una stima cor­retta dell’errore e quindi un cal­colo della situa­zione con­si­stente con la realtà. I con­tratti netti a tempo inde­ter­mi­nato tra gen­naio e luglio di quest’anno sono 117498 (non oltre i 420 mila come pub­bli­cato ieri). Guar­dando il totale rela­tivo a tutte le tipo­lo­gie con­trat­tuali si nota che i nuovi rap­porti netti di lavoro sono 1.136.172 e non 2.331.853. L’errore stava dun­que nei cal­coli, non nelle ope­ra­zioni di revi­sione (che sepa­rano lie­ve­mente le stime for­nite ieri su Il Mani­fe­sto ieri dai dati effet­tivi).
Secondo la com­po­si­zione per tipo­lo­gia si nota che solo il 10% dei con­tratti sono a tempo inde­ter­mi­nato, l’87.3% a ter­mine, l’apprendistato e i con­tratti clas­si­fi­cati come “altro” rap­pre­sen­tano rispet­ti­va­mente il 3.4% e il 2.2% dei con­tratti. Il giu­di­zio sulle riforme del governo rimane stabile.

 

 

La noti­zia quindi sta nell’errore con­si­de­re­vole com­messo dallo staff del Mini­stero del Lavoro pub­bli­cando una tabella com­ple­ta­mente errata. Distra­zioni ed errori di cal­colo sono pos­si­bili, ma è inam­mis­si­bile che un uffi­cio sta­ti­stico non con­trolli prima di dare noti­zie in pasto alla stampa. L’entità dell’errore avrebbe dovuto far sob­bal­zare chiun­que in que­sti mesi abbia seguito le dina­mi­che del mer­cato del lavoro, tec­nici del mini­stero o gior­na­li­sti che siano.

Nel frat­tempo, se è vero che l’ufficio stampa del Mini­stero ha inviato nel pome­rig­gio di ieri un’agenzia alle reda­zioni alle­gando la tabella cor­retta, è altret­tanto vero che ini­zial­mente la giu­sti­fi­ca­zione a tali discre­panze, for­nita sulle pagine di Repub­blica in un arti­colo a firma di Valen­tina Conte, è stata del tutto ina­de­guata. Ini­zial­mente il dato non è stato smen­tito ma giu­sti­fi­cato in base al fatto che le infor­ma­zioni con­te­nute nel sistema ven­gono costan­te­mente aggiornate.

Ma le revi­sioni non pos­sono certo stra­vol­gere i dati sep­pure prov­vi­sori for­niti a venti e qua­ranta giorni dalla chiu­sura del mese di rife­ri­mento, altri­menti signi­fi­che­rebbe che le imprese pos­sono comu­ni­care avvia­menti e ces­sa­zioni di rap­porti di lavoro con dila­zioni tem­po­rali che non per­met­tono nes­suna valu­ta­zione dell’andamento del mer­cato di breve periodo e quindi delle riforme, ren­dendo il sistema sta­ti­stico sem­pli­ce­mente inutile.

Nella stessa dichia­ra­zione non emerge mai il bene­fi­cio del dub­bio: «Fa così anche l’Istat, ma nes­suno obietta mai», la dif­fi­coltà a capire i dati da parte dei cit­ta­dini è “il prezzo da pagare, spiega ancora il mini­stero, «per aver voluto dif­fon­dere gli aggior­na­menti una volta al mese, anzi­ché ogni tri­me­stre»”. Falso! L’Istat pub­blica ogni mese i dati e si pre­mura di for­nire il mese suc­ces­sivo le even­tuali revi­sioni. Il mini­stero del Lavoro potrebbe pren­dere esem­pio dal metodo Istat, senza lamen­tarsi della fre­quente pub­bli­ca­zione dei dati, che ser­vono ai cit­ta­dini pro­prio per dira­mare, oltre gli errori ingiu­sti­fi­ca­bili di cal­colo, la neb­bia pro­vo­cata da mesi di propaganda.

Marta Fana  tratto da il manifesto

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