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Note interessanti sul 15 ottobre

Le cariche della polizia determinano un passaggio dentro la giornata. Da quel momento piazza San Giovanni diventa teatro di una resistenza di massa.

Aldilà delle posizioni, delle malcelate forzature ideologiche di chi sa solo vedere infiltrati dappertutto, resta il dato di fatto incontrovertibile dei numeri.

Valentino Parlato (certo non un nostro punto di riferimento) una volta tanto sa leggere questo dato e coglierne gli aspetti di valore. Con lui pochi altri, che qui riportiamo.

 

Valentino Parlato (da Il Manifesto di domenica 16 ottobre)
UNA NUOVA EPOCA

Quella di ieri a Roma è stata una manifestazione storica, il segno di un possibile cambiamento d’epoca. Una manifestazione enorme, rappresentativa di tutto il paese (camminando nel corteo e in piazza si sentivano gli accenti di tutte le regioni italiane). E ancora, una manifestazione che si realizzava in contemporanea con tante altre nel mondo, in Europa e anche negli Usa, tutte concentrate sul cambiamento del modello di sviluppo, a sancire la crisi del liberalcapitalismo. Per dire che così non si può andare avanti, che la politica di oggi è arrivata a un punto morto e che ci vuole un’inversione di rotta, anche dei partiti politici, oggi ridotti alla sopravvivenza di sé stessi.

A Roma ci sono stati anche scontri con la polizia e manifestazioni di violenza. Meglio se non ci fossero state, ma nell’attuale contesto, con gli indici di disoccupazione giovanile ai vertici storici, era inevitabile che ci fossero. Aggiungerei: è bene, istruttivo che ci siano stati. Sono segni dell’urgenza di uscire da un presente che è la continuazione di un passato non ripetibile.

La manifestazione e le pressioni che essa esprime chiedono un rinnovamento della politica. È una sfida positiva agli attuali partiti di sinistra a uscire dal passato e prendere atto di quel che nel mondo è cambiato. La crisi attuale – più pesante, dicono in molti, di quella del 1929 – non può essere superata con i soliti strumenti. Negli Usa fu affrontata con il New Deal e in Italia e Germania, dove lo sbocco fu a destra, non con le privatizzazioni, ma con le nazionalizzazioni di banche e industrie. Ci ricordiamo dell’Iri, fondamentale nell’economia anche dopo la caduta del fascismo?
Quello che è accaduto ieri deve aprirci gli occhi e la mente. Non si può continuare a fare politica con le vecchie ricette. Ci dovranno essere cambiamenti anche nelle lotte sul lavoro e nel sindacato, e nella politica economica. Per concludere, vorrei ricordare che dopo il discorso di Sarteano anche un banchiere come Mario Draghi ha detto di capire le ragioni degli indignati. Forse siamo all’inizio di una nuova epoca.

Chi sono?/ I «RAGAZZI DEL 14 DICEMBRE» DI NUOVO PROTAGONISTI

Una generazione nata precaria, mentre scompare la mediazione.
Se la governance «stile Bce» esautora la politica, si moltiplicano le figure sociali che non trovano più rappresentanza.

Hammett (da Il Manifesto di domenica 16 ottobre)

Aver poca memoria è un guaio. Un mondo politico affetto da questo male è gerontocrazia. Quello che è avvenuto ieri è un’estensione del 14 dicembre dell’anno scorso. Più in grande, più lontano dai «palazzi del potere», più intenso. Segnala che c’è un problema nel corpo sociale. Un problema che non trova rappresentanza, né a livello politico né sindacale. Ma esiste e non si può rimuovere con i fervorini giornalistici o, peggio, con le dichiarazioni nerborute del politico-che-rende-dichiarazione-alla-stampa.
Segnala che le soluzioni alla crisi stile «lettera Bce» – riducendo drasticamente la spesa pubblica – stanno annullando gli strumenti di «mediazione sociale». Per chi ha ancora un lavoro o una pensione, un riduzione di coperture o diritti è una sciagura in progress, cui cercare di resistere con le unghie e coi denti, magari intaccando i risparmi di una vita con lo sguardo ancora rivolto alla condizione precedente che si cerca – giustamente – di difendere. Per chi si affaccia ora «in società» e cerca di capire quale sia il suo posto, lo stesso taglio indica che per lui non c’è un grande futuro. O forse non c’è proprio.
Quando ieri, sopra le mappe geografiche dei Fori Imperiali, hanno tirato su lo striscione «di chi è la storia? è nostra», si potevano vedere centinaia di ragazzi che magari di storia ne masticano poca, ma non possono accettare di non farne parte. Di non avere ruolo, di essere «mercanzia»; per di più di poco prezzo.
E qualcuno lo capisce, sia sul piano empirico che su quello analitico (più complicato, ma più illuminante). Quando intervistammo i ragazzi del 14 dicembre questa «crisi della politica» ci venne sintetizzata in modo plastico: «Se – come potere – dico che ‘a causa della crisi’ non sono in grado di dare risposta ai bisogni sociali, è ovvio che ‘la mediazione’ non la posso trovare. Io politico sono esautorato dal processo economico».
Questa è la condizione della politica del prossimo futuro, quella stilizzata nella lettera di Draghi e Trichet, quella che espropria i singoli paesi della scelta più importante: quella sulla politica economica. Potranno legiferare sul testamento biologico o le intercettazioni, ma non su quale parte della popolazione strangolare e quale tutelare. È tutto qui il campo di applicazione della democrazia occidentale?
Discorso astratto? Il contrario. «Bisogna essere conseguenti con le cose che si dicono; si parla di sofferenza precarietà, rabbia… Ma qualsiasi governo verrà dopo, o mette in crisi il sistema di accumulazione e governance, o avrà le mani legate». Sono passati dieci mesi e in tutti questi giorni abbiamo potuto ascoltare politici di maggioranza e di opposizione esercitarsi sullo spartito: «ce lo chiede l’Europa», seguito da un «purtroppo» o un «per fortuna».
Questi ragazzi abitano le nostre periferie, forse qualcuno anche quartieri più «in». Si vedono tra loro più simili di quanto magari non càpiti ai rispettivi genitori. Arrivano nel centro della città come stranieri in territorio nemico, con coordinate persino approssimative. A dicembre un soldo di cacio con la faccia svelta mi fermò sul ponte per piazza del Popolo per chiedere «signore, qual’è la strada per palazzo Chigi?». E non pensava di entrarci come portaborse…
Dieci mesi fa hanno tenuto le strade del centro per quasi un’ora. Ieri si sono esibiti in diretta tv per oltre tre ore, fin quando le ombre della sera non li hanno portati lontano dalle telecamere. Ma sempre in corsa, contro «obiettivi simbolici» che non sposteranno di una virgola gli equilibri sociali e politici. O magari lo faranno in peggio. Però questa generazione «nata precaria» esiste, l’abbiamo creata «noi» a colpi di «pacchetto Treu» e «legge 30». Reagiscono alla «frammentazione sociale» in modo ruvido, magari «poco simpatico». Ma esiste ed esige risposta. Voltare le spalle e lasciare il problema alla polizia è la risposta peggiore.

 

La violenza, la rivolta

di Enrico Campofreda (da Il Pane e le Rose)

Tante facce sorridenti nel corteo e poi i bastoni dei cartelli, come nell’antica canzone. E i fuochi e i danneggiamenti. Lo spettro della violenza che dilaga, devasta, infanga gli ideali. Davvero? A sentire pacifisti e pacificatori è così. Con l’aggiunta della scomunica di chi, traendo rendite di posizione nelle vesti di leader si sente pontefice e discetta su bene e male. Sui cancri da estirpare per poter disporre dell’altrui indignazione al piacimento dei rinati disegni politici della sua parrocchia. E’ la supponenza che evita di osservare e confrontarsi con la complessità di un pezzo di società che rifiuta di vivere schiavizzata dal liberismo e dai poteri delle banche. Uno dei due elementi che salta agli occhi nella manifestazione di Roma è proprio quello di una piazza enorme, antagonista, dignitosa, indignata, rabbiosa e ribelle. Ricca di esperienze e risorse diverse, che non si fida dei partiti – anche per quello che i partiti di una recente sinistra nata antagonista e finita poltronista rappresentano – ma che non può camminare nella spontaneità e deve fare i conti con la politica. Una piazza con anime e provenienze differenti, legate a successi ottenuti con l’urna del referendum (Acqua bene comune) e altre che non possono fare a meno della rottura (No Tav). Trattativa e sampietrino sono solo strumenti rivolti a un fine, come insegnano decenni di lotte sociali. I protagonisti delle stesse devono decidere quando e come usarli, senza teorizzare vie salvifiche per l’una e inferni nel caso opposto.

Sulla violenza, l’altro elemento apparso a Roma, si riapre il can-can mistificatorio. Tralasciando quello dell’informazione di Stato che pratica il lavoro sporco di un aprioristico supporto ideologico, nelle voci politiche e mediatiche della sinistra che ha tagliato i ponti con la stessa storia di cui portava simboli il tema riappare come un fantasma. Questione non da oggi scomoda perché correlata con obiettivi e finalità. I quali, se diventano il fare l’eco al sistema, non possono concepire né rotture né lotte ma solo simboliche deleghe per la cogestione. Lo sanno da anni i precari, giovani e maturi, e l’ultima classe operaia che si vuol far sparire, alla Fiat o a Fincantieri. Lo sa chi difende coi denti l’occupazione in ogni settore. Lo sanno i giovanissimi senza futuro che, alla stregua dei guerriglieri (per tutti Black block) del corteo romano o di uno Stato in dissoluzione come la Grecia, parlano solo di presente. Loro, forse a ragione, non vedono altro. Il problema non è la vetrina rotta. Il problema può essere la comprensione dell’utilità e del momento per farlo. E credere che non farlo sia garanzia di futuro per una protesta solo pacifista oppure finalizzare a un luddismo autoreferenziale la rabbia di contraddizioni sociali devastanti nelle vite comuni e soggettive è follia. La ragione non ama la forza, ma lo strumento della forza ha ragione d’esistere per alleviare dolori. Le pene profondissime che il mondo globalizzato realizza ovunque sono sotto gli occhi di tutti. Oggi solo gli stolti e le cattive coscienze possono guardare ai cocci.

E dopo il 14 (dicembre) è arrivato il 15 (ottobre)…

di Militant

A mente fredda e con gli occhi decongestionati proviamo buttare giù alcune prime e parziali riflessioni su quanto è successo ieri a Piazza San Giovanni. Cominciamo col dire che in piazza non c’erano nè buoni nè cattivi. Così come non c’erano i black bloc infiltrati, i poliziotti provocatori, gli ultras fascisti… o gli extraterrestri venuti da Marte a rovinare il corteo. Chi, anche a sinistra, oggi ripropone questa chiave di lettura: o non è in grado di “leggere” quello che sta accadendo in questo Paese o, molto peggio, lo ha capito ma fa finta di niente pur di seguire i propri interessi di bottega. Prestando il fianco, in entrambe i casi, a chi già da ieri sera reclamava a gran voce “pene severe” per i compagni e le compagne arrestate. In realtà, almeno per come la vediamo noi, è accaduto quello che era già successo il 14 dicembre scorso. La piazza ha esondato e scavalcato ogni struttura, gruppo, sindacato o partito; ha ignoranto accordi presi in riunioni o assemblee di cui forse neppure era a conoscenza e ha praticato la propria rabbia spontaneamente e nell’unica forma concreta in cui gli era possibile. E nel farlo ha resistito coraggiosamente  per ore e ore alle cariche della polizia. Provare quindi ad accollare quello che è successo a questa o quell’altra organizzazione, come oggi fanno alcuni giornali, ci pare un esercizio inutile oltre che sbirresco. Così come ci sembra inutile attardarsi dietro al perbenismo ipocrita di quei “sinceri democratici” che inorridiscono di fronte a un cassonetto bruciato, ma poi plaudono alle proteste che incendiano le città del resto del mondo. Di questa sinistra “presbite” che vede bene le rivolte solo quando divampano in lontananza non sappiamo proprio cosa farcene. Crediamo invece che il nodo intorno a cui ragionare, almeno per chi vuole “abolire lo stato di cose presenti” sia non tanto chi abbia acceso il cerino, o perchè l’abbia acceso, quanto piuttosto il fatto che la prateria abbia preso  immediatamente fuoco. C’è un pezzo importante del nuovo proletariato metropolitano che si rende disponibile al conflitto, alla lotta. Forse non sarà centrale nella nuova composizione di classe, però è indispensabile. Fuori da ogni moralismo, dunque, la riflessione che gli scontri di Piazza San Giovanni, così come quelli di Piazza del Popolo, impongono al movimento di classe è come evitare che questa radicalità venga dissipata. Come riuscire a trasformare questa rabbia “corta” in un progetto di trasformazione sociale. Magari partendo con l’assumere in pieno il peso della nostra inadeguatezza.

il fatto è che noi nun semo indignati… a noi ce rode proprio er culo!

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