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Primo Maggio: contro la guerra e contro chi la a(r)ma

Primo Maggio per noi significa dire forte e chiaro ciò che nessuno dice: la guerra che si sta consumando in Ucraina è un crimine voluto da chi antepone la tenuta del sistema egemonico targato USA alle vite umane ed è disposto a tutto pur di mantenere i propri profitti mortiferi. Gli interessi delle classi popolari sappiamo bene non coincidere con quelli delle élite russe, cinesi o occidentali.

Gli interessi di chi è responsabile di protrarre questa guerra affamano la gente, devastano i territori, conducendo verso il baratro un sistema che si regge sugli spilli: non c’è possibilità di sopravvivenza se si continua ad alimentare questo modello di produzione basato sullo sfruttamento e che ha il solo obiettivo di riprodurre l’esistenza di chi specula e arraffa tutto l’arraffabile. Le risorse di questo pianeta, ridotto in cave di sacrificio, sono sempre più misere e ciò che resta è la posta in palio di una gara in cui non ci sono vincitori. Rappresentare gli interessi di chi sta in basso oggi significa raccogliere le istanze di riscatto che resistono, gli aspetti di un’umanità che è contraria a una guerra atta a garantire i privilegi di chi sta in cima. Il governo Meloni si inserisce perfettamente nel quadro dei governi che lo hanno preceduto in quanto a totale asservimento alla direzione statunitense, dopo aver costruito una campagna elettorale che voleva farsi paladina degli interessi “italiani” da quando ha iniziato il suo mandato non ha fatto altro che colpire le poche misure di sostegno al reddito, cancellando il reddito di cittadinanza e chinando la testa davanti agli interessi globali che lo oltrepassano. In un giorno come il primo maggio, cavallo di battaglia di sindacati incapaci di fare gli interessi reali dei lavoratori, dei precari, dei giovani di questo paese, il governo licenzia un decreto “lavoro” che schiaccia il diritto a un reddito dignitoso nella morsa del ricatto. Ancora una volta le misure proposte vanno nella direzione di doversi guadagnare il merito, a colpi di bonus che dovrebbero sostenere la voragine di crisi sociale ed economica in cui versa il nostro paese. E anche in questo caso i sindacati piangono lacrime di coccodrillo sul disastro dei contratti al ribasso ma sono gli stessi che si adeguano a questa tendenza dimenticando di rappresentare gli interessi della popolazione, senza accorgersi di essere presi in giro pubblicamente. Non sembra all’oggi per i sindacati rappresentare un problema la sfacciataggine con cui il governo tutela i padroni. Guardando a pochi chilometri da qui l’esempio del movimento che sta infuocando la Francia dà un chiaro segnale di cosa dovrebbe rappresentare un sindacato, una voragine rispetto ai personaggi a cui siamo abituati.

Oggi la piazza di Torino ha dimostrato dove si situa una differenza: da un lato, lo spezzone sociale che nonostante la pioggia battente è stata la parte viva e più significativa del corteo, la parte di chi lotta e, dall’altro lato un corteo sindacale povero di contenuti e rappresentativo solo degli interessi della classe dirigente. È la fotografia limpida di due campi che si delineano, c’è chi non è disposto a pagare i costi degli interessi di chi alimenta la guerra in corso e che è determinato a conquistare uno spazio di possibilità per non lasciare che tutto vada “come deve andare”, squarciando il velo della retorica che impone questa guerra come necessaria e impossibile da fermare. All’interno di questo spezzone sono stati tanti i contenuti portati e che hanno caratterizzato il corteo e la loro forza sta proprio nel considerarli come aspetti interconnessi della crisi in corso che oggi vede la sua massima esplicitazione nella guerra. Questa si manifesta nelle nostre vite attraverso un’emergenza climatica ignorata dai governi, nella crisi energetica, nella difficoltà di veder garantito un abitare dignitoso, nella precarizzazione del lavoro, nel disciplinamento e nella normalizzazione che si vivono nelle scuole e nelle università, rendendo la formazione un ambito destinato all’integrazione di una soggettività dentro le logiche del profitto. C’è anche chi all’interno delle dimensioni più istituzionali, nonostante gli annunci usciti sui giornali nei giorni scorsi atti a ridurre la giornata del primo maggio torinese a uno sterile battibecco, ha deciso di assumersi una responsabilità oggi, prendere posizione a fianco dello spezzone sociale. La presenza della Fiom Cgil e del Coordinamento Antifascista Torinese apre una contraddizione rappresentativa della presa di coscienza rispetto a una gestione del dissenso sociale in questa città tutta in mano alla questura, rompendo la ritualità di una gestione della giornata del primo maggio come una questione di ordine pubblico con l’obiettivo di oscurare la legittimità delle istanze sociali portate in piazza. Le uniche capaci di parlare alla pancia del paese perché rappresentative dei problemi reali.

Oggi, dunque, lo spezzone sociale ha raggiunto piazza San Carlo prendendosi il palco con l’intenzione di portare l’unica opzione possibile per fermare la guerra in Ucraina: stop al riarmo e al sostegno degli interessi bellici, indicando nella NATO, negli Stati Uniti e nell’Unione Europea i responsabili dell’escalation militare. Da quel palco sono state bruciate le bandiere che simboleggiano questa realtà dei fatti, la propaganda governativa e mediatica è insufficiente di fronte al sentimento diffuso che è contro la guerra e che lo è non per facili idealismi ma a causa delle sue conseguenze sempre più tangibili nelle nostre esistenze. Che questo primo maggio sia la tappa di un processo di lotta capace di individuare nella presenza materiale sul nostro territorio di chi alimenta la guerra una possibilità per contrastare gli interessi del sistema che ci sta uccidendo.

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