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Roma, teatro Valle occupato

Al Valle di Roma è ancora “rivolta culturale”. E dalla platea bolognese che festeggia la Fiom c’è molto da imparare I lavoratori precari dello spettacolo vanno avanti con l’occupazione finché non avranno risposte. E per estendere la loro battaglia ora lanciano la campagna “Occupiamo un teatro in ogni città” «In maniera caotica e nervosa, stiamo respirando il desiderio di una società nuova»

Gli intermittenti dello spettacolo continueranno l’occupazione del teatro Valle fino a quando il sindaco Alemanno e i Teatri di Roma non avranno chiarito la linea economica, artistica e amministrativa che guiderà il più antico teatro della Capitale a partire dal prossimo anno. Quella che loro stessi hanno definito una «rivolta culturale» sta maturando in chiarezza e mantiene lo spirito di un’umanità allegra e variopinta. Ed ha assunto un significato generale al punto da affrontare la questione dei diritti del lavoro della conoscenza, e non solo di quello creativo legato al mondo dello spettacolo.

«Lanceremo la campagna “occupiamo un teatro in ogni città” per denunciare la guerra alla cultura condotta da questo governo e prepareremo una piattaforma che assicuri ai lavoratori dello spettacolo il diritto alla disoccupazione, all’assistenza sanitaria e ad un trattamento pensionistico equo – afferma Ilenia Caleo, attrice, una delle protagoniste dell’assemblea di gestione – In questi giorni al Valle si sono auto-convocati gli stati generali della cultura. Registi noti e meno noti, attori, tecnici, cineasti e scrittori, ricercatori hanno inaugurato un cantiere operativo che, dopo anni di isolamento e frammentazione, segna per la prima volta la volontà di andare oltre gli interessi corporativi». Il ministro della cultura Galan ha però assicurato che entro pochi giorni arriverà il bando per affidare la gestione del teatro per il prossimo anno. «La nostra occupazione non intende offrire alibi ai carnefici della cultura italiana – risponde Ilenia – vogliamo anzi vincolare la loro azione a criteri di trasparenza e ad un codice etico che imponga di rispettare il contratto nazionale, rifiutando la logica dello scambio e della lottizzazione che governa il mondo dello spettacolo».

In questa impresa si sente il desiderio di superare le storiche diffidenze che separano i lavoratori dello spettacolo. Le idiosincrasie sono molte, e si rischia sempre qualche veto, ma sono in molti ad adoperarsi per creare una coalizione con altri segmenti del lavoro della conoscenza, la scuola ma anche gli studenti e il precariato diffuso che oggi pomeriggio si è dato appuntamento in piazza Montecitorio per la «giornata dell’indignazione». E tuttavia anche in questo desiderio si respira l’aria del tempo. «Spesso qui c’è una sensazione di isolamento – ha detto l’attore Antonino Iuorio – come se in questi anni non fosse accaduto nulla». «Al Valle stiamo però assistendo ad una rialfabetizzazione alla politica – ha aggiunto lo scrittore Christian Raimo – dopo vent’anni si cerca di ricostruire un senso condiviso della comunità che si interroga, in maniera inizialmente caotica e nervosa, sul modo in cui si gestisce un teatro oppure si distribuiscono i finanziamenti alla cultura».

L’occupazione del Valle è un salto nel futuro anteriore. In questo luogo temporaneamente liberato dal berlusconismo, come anche dal giustizialismo dilagante «le regole, il merito, l’accesso alle risorse e la correttezza della loro distribuzione sono questioni importanti – ha detto la regista Emanuela Cherubini – ma la nostra ambizione è ricostruire la coscienza collettiva e condividere le passioni».

Questo slancio verso il possibile alimenta la generosità, e la fatica, degli occupanti ma, negli ultimi cinque giorni, ha reso il Valle un’isola sospesa nel nulla spopolato del centro di Roma, miserabile esposizione della speculazione immobiliare, di turisti accasciati nelle osterie finto-romanesche a trenta euro al coperto o di deputati e portaborse che imbandiscono il loro aperitivo quotidiano. Nel flusso ininterrotto degli oltre quattromila spettatori che hanno assistito agli short teatrali di Fabrizio Gifuni, Elio Germano, Francesca Reggiani, Sabina Guzzanti, Rocco Papaleo e di decine di altri artisti romani c’era anche chi ha fatto un salto nel tempo di trent’anni quando teatri come l’Argentina, il Quirino, il Valle, la Sala Umberto erano la camera di compensazione della lotta di classe metropolitana. Lo ha ricordato un insegnante di scuola media in pensione, figlio di un carabiniere sardo trasferito a Roma negli anni Sessanta prima della deportazione delle classi popolari verso Centocelle, il Laurentino o negli alveari sorti nell’agro che hanno fatto la fortuna della lobby dei costruttori. Al Valle questo signore vide da ragazzo Pirandello e ricorda ancora quando i biglietti costavano poche migliaia di lire. Oggi non è più così, i teatri sono diventati inaccessibili e le piazze si sono riempite di tavolini e di camionette della polizia.

Per gli occupanti del teatro del Lido di Ostia, un’altra vittima della dismissione dei teatri romani, quella del Valle è invece la prova generale di un teatro dove il pubblico partecipa alla gestione «perché la cultura è un bene comune come l’acqua o l’aria». «Funzionava così anche il teatro nazionale nel triennio giacobino in Italia – ha sostenuto Alessandro Guerra, ricercatore in storia alla Sapienza – Era un luogo di educazione e il collante di una nuova solidarietà con gli indigenti. Gli incassi garantivano il reddito di base anche a chi era escluso dalla cultura». E non è detto che non possa funzionare così anche in futuro, trasformando il Valle in un luogo per l’educazione delle scuole o in un nido che permetta a chi studia teatro, dentro e fuori le accademie, di tornare a vivere nel le strade illuminate col finto ocra imposto dal progetto Urban negli anni Novanta. Tra piazza Sant’Eustachio, Sant’Andrea della Valle e Campo de’Fiori, si respira il desiderio di una società nuova.

 

Su il sipario. Un Valle non più di lacrime accelera il cambiamento (di Gianfranco Capitta)

Il «Valle occupato», come fu del resto per l’Odeon nel maggio parigino, rappresenta meglio di altre immagini la possibile accelerazione del cambiamento. Un fatto quasi elementare nella sua semplicità (e anche nel rigore con cui viene governato dagli «occupanti» nei suoi aspetti pratici, dall’accesso alla pulizia) fa deflagrare invece contraddizioni piuttosto grosse, che non solo per contiguità topografica, portano subito ai piani alti del governo. La chiusura del Valle, e il suo conseguente de profundis, ha delle responsabilità precise nella finanziaria di Tremonti e nella disinvolta soppressione dell’Ente teatrale italiano decisa dal ministero dei beni culturali, probabilmente governato più che dall’insipiente Bondi, allora, quanto dal suo capo di gabinetto Nastasi. Un funzionario onnipotente quanto presente nelle indagini sulle ragnatele di potere vicine a Gianni Letta, il sottosegretario oggi più discusso di allora, ma che certo curiosamente non ha speso né allora né oggi una parola per difendere quel teatro che sempre dice di amare, almeno nelle occasioni mondane. E tutto accompagnato, allora come oggi, dalle chiacchiere infondate e inconcludenti del sottosegretario Giro. Tutti uniti allora, nel perpetrare lo scempio, quanto nell’esibire un sovrano disprezzo per teatro, cultura, intellettuali, informazione, università e istruzione. Una catena di elementi non facilmente riconciliabili, dentro uno scenario che contempla solo le emissioni azzurrine della tv. E quindi degna a sua volta di una catena di provvedimenti sanguinari, che oggi con l’occupazione del Valle riprende corpo, ma in direzione contraria.

Il teatro del resto nacque apposta per dare rappresentazione alla società attorno a sé, e questa occasione lo conferma clamorosamente. I numeri sono impressionanti: in 5 giorni sono passati 100 artisti e 4200 spettatori, di cui 3000 hanno firmato per la riapertura della sala. Ed è una esperienza commovente quel pubblico: la parte più giovane che improvvisamente può prendere confidenza con velluti e comportamenti poco abituali, e un’altra che magari è cresciuta vivendo, al Valle come altrove, grandi emozioni della propria maturazione. Tutti uniti, nella platea storica di uno dei più bei teatri al mondo a saggiare un’occasione unica di cartellone, di spettacoli che sarebbe bello avere stabilmente a disposizione, invece delle ubriacature di retorica o degli show similtv che le istituzioni pubbliche solitamente offrono.

È impressionante mettere in fila le sciocchezze, le banalità e le bugie che in mezza settimana sono stati capaci di esprimere i poteri costituiti: vince il Giro, naturalmente senza maglia rosa, che vede oltre il sipario chissà quali misfatti e rozzezze dei centri sociali. Ma di sciocchezze ne dicono anche il sindaco Alemanno e il suo assessore, pronti a rifugiarsi dietro le formule di bandi pubblici e di affidamenti temporanei. Al teatro di Roma magari, che notoriamente non è il massimo nella gestione partecipata come ha dimostrato ancora negli ultimi anni. A questo proposito è significativo e illuminante che i superstiti del Teatro del Lido, che sono tra gli occupanti del Valle, debbano denunciare ancora ieri le invasioni notturne delle squadracce di Casa Pound nello spazio di Ostia.

Sarà dura riuscire a trovare uno sbocco positivo e sensato visti gli interessi in ballo sul Valle, spazio meraviglioso e di eccelso prestigio nel cuore di Roma: a Firenze la Pergola è stata lasciata in mano al sindaco sfasciacarrozze e alla banca che mettendo i soldi lo condizionerà. Non aiuta, a fianco agli occupanti del Valle, l’assenza della sinistra tradizionale, anzi preoccupa che si vedano attorno al teatro esponenti di quella cultura di potere veltronian che già ha causato parecchi danni in epoca recente. Per fortuna quelli che appaiono più impegnati nella conduzione progettuale dell’occupazione sono artisti per bene e indiscutibili, da Germano a Gifuni. E ogni sera sul palco ci sono presenze che nessuno immaginava così trascinanti in quel contesto, da Camilleri a Giovanna Marini a Franca Valeri, decana d’arte e di visione politica. È una grande chance, ma che i teatranti dovranno giocarsi meglio delle battaglie dello scorso anno sul Fus. Ora tra i nuovi possibili interlocutori, ci sono anche i nuovi sindaci che dovranno anche loro liberarsi dagli equilibri culturali avvelenati che la destra arraffona ha lasciato loro in eredità. Sarà bene tenersi tutti informati.

 

Articoli tratti da Il Manifesto

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