«Siamo stati presi d’assalto.» Un’intervista ai lavorator* della grande distribuzione in prima linea
Ormai da diversi giorni l’intero territorio nazionale è diventato zona rossa. Le misure di contenimento del contatto sociale, propagandate attraverso i media, sono sintetizzate in maniera inequivocabile con la frase: “io resto casa”.
In questa situazione però, sono migliaia le persone che non si possono permettere di stare a casa perché devono recarsi quotidianamente sul posto di lavoro. Tra queste non si può non guardare ad una categoria dimenticata, sia a livello di considerazione sociale generale, che dalle istituzioni: i lavoratori e le lavoratrici della grande distribuzione. Sono loro a garantire l’approvvigionamento di beni di prima necessità all’intera popolazione nazionale e lo fanno in una condizione di forte rischio per la loro salute.
In questo settore, infatti, l’emergenza corona virus si è venuta ad instaurare su una situazione in cui già da più di 20 anni le condizioni di lavoro hanno subito un sensibile peggioramento: l’obbiettivo delle direzioni aziendali è stato quello di ridurre sempre il costo del personale, sancendo la priorità dell’innalzamento dei profitti a discapito della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici.
Si può quindi facilmente dedurre come queste stesse direzioni aziendali siano colpevoli di essersi rivelate impreparate ed incapaci nel gestire la presente emergenza, abbandonando i lavoratori e le lavoratrici e non rispettando le misure essenziali per il contenimento del contagio nelle filiali.
Dato che non riteniamo sia sufficiente dedurre, abbiamo deciso di intervistare direttamente un lavoratore e una lavoratrice, Cesare ed Isabella, attualmente impiegati rispettivamente in un punto vendita Carrefour ed in uno LIDL nel genovese.
A loro si è aggiunto anche Fabio ex-capofiliale di un punto vendita LIDL di Torino, licenziato alcuni anni fa per via della sua azione in quanto RLS a difesa della salute sua e dei suoi colleghi. Al momento Fabio anima un gruppo Facebook, “ Anche io mi informo” (https://www.facebook.com/groups/127767771202410/), in cui porta avanti un’attività divulgativa rispetto ai diritti dei lavoratori e delle lavoratrici della grande distribuzione in merito alla salute e alla sicurezza sul lavoro. Ha mantenuto, quindi, un rapporto di costante scambio con molti lavoratori e molte lavoratrici sul territorio nazionale, opponendosi attraverso questa forma di attivismo telematico all’allottamento forzato dai suoi colleghi e compagni che l’azienda ha realizzato tramite il suo licenziamento.
Ci siamo trovati a parlare insieme grazie a una chiamata su WhatsApp, di sera, quando i turni erano terminati.
La prima questione su cui ci siamo confrontati è stata come avessero vissuto queste settimane di emergenza sul posto di lavoro. Cesare non ha giustamente usato mezzi termini nel descrivere la situazione in cui lui e i suoi colleghi si sono trovati a lavorare.
Siamo carne da macello. Non abbiamo nessuna tutela. Ci hanno dato delle mascherine che sono carta igienica. L’armonizzazione delle entrate è stata combattuta, ma se poi entrano i servi dei padroni fanno entrare tutti… L’igienizzazione dei locali è davvero uno scandalo.
Siamo in prima linea, non come i medici che salvano vita, ma siamo comunque in prima linea.
Io nella mia vocazione non ho mai voluto salvare vite, i medici si. Io metto scatolette negli scaffali e mi sono trovato i questa situazione: dallo svolgere un lavoro considerato ignorante e da deficiente, a eroe della società.
Un lavoro di pubblica utilità ed essenziale, pagato una merda, tutelato come una merda, trattato come una merda.
Isabella sottolinea come sia mancata fin da subito un’adatta informazione su quanto stesse accadendo e su quali fossero le misure di da adottare per la tutela, sia dei lavoratori e delle lavoratrici che dei clienti. Questo è stato solo l’atto inaugurale di una politica di totale dispegno da parte della direzione aziendale.
Noi l’abbiamo vissuta come un’informazione all’italiana. C’è il virus non c’è il virus? restiamo a casa? Facciamo la spesa o no? Di conseguenza la confusione più totale. Quello che noi accusiamo anche da parte della nostra azienda è la mancanza più totale di informazione. Hanno cercato di farci passare tutta una serie di cose un po’ cosi d’emblée: “State tranquilli non succede niente, continuiamo a lavorare”.
Tanto al momento non eravamo ancora zone rosse colpite.
Ora invece che siamo zona rossa ovunque ci ritroviamo con 100-150 persone all’interno delle filiali e nessun servizio di guardianaggio.
Ci hanno dato degli swiffers da metterci in faccia invece che delle mascherine vere e ci ritroviamo senza dispositivi di protezione individuale per poter affrontare questa emergenza. È la stessa direzione a dire loro che non se ne trovano.
Fabio inquadra la mala gestione sul piano della sicurezza di questo momento emergenziale all’interno di una dimensione più sistematica. Le aziende della grande distribuzione hanno sempre cercato di tagliare il costo del personale per far crescere i profitti, mortificando le condizioni di lavoro dei dipendenti e quindi la loro sicurezza. Ciò è stato possibile anche grazie ad una continua svalutazione del punto di vista dei lavoratori e delle lavoratrici, operato anche contro le norme vigenti in merito alla salute e alla sicurezza sui luoghi di lavoro.
Ciò che io ho notato è come quello che sta accadendo sia tipico della nostra azienda, dove non viene data la possibilità ai lavoratori, e soprattutto agli RLS, di partecipare alle scelte per la tutela della salute e della sicurezza nelle filiali. La confusione è stata generale perché anche il governo aveva sottostimato la rischiosità e diffusione del virus. E ci sta che abbia colto impreparato chiunque. Il problema però è questa mancanza di partecipazione: il non voler chiedere al dipendente cosa ne pensava delle varie scelte aziendali. […] Queste aziende sono indirizzate unicamente al fatturato e alla riduzione del costo del personale, e quindi questa situazione le ha colte totalmente impreparate proprio perché non hanno mai ascoltato la voce dei lavoratori sul discorso della sicurezza, tanto meno ora. Se avessero ascoltato i lavoratori avrebbero potuto adottare misure di riorganizzazione del lavoro in filiale: riducendo l’orario di lavoro o dando la possibilità di caricare gli scaffali con il negozio chiuso, per esempio. Tutte cose che se non ascolti i lavoratori tu dirigenza non ti puoi nemmeno immaginare, perché non ne puoi avere percezione.
Se c’è una pandemia in corso e il capo area riprende i dipendenti perché hanno incassato 3’000 euro in meno del giorno precedente dicendo “Avete chiuso troppo le porte”, si vede proprio che non hanno percezione del mondo.
Continuano ad essere focalizzati sul fatturato e il costo del personale, il loro mantra. E il medico competente ha sempre assolto il ruolo di validare gli obbiettivi dell’azienda dal punto di vista sanitario.
In questo momento il medico competente aziendale dovrebbe svolgere un ruolo essenziale all’interno dei posti di lavoro. Ciò dovrebbe accadere oltre per il buon senso e per deontologia professionale, ma anche per legge. All’interno del Protocollo di intesa in merito alla sicurezza sui luoghi di lavoro firmato lo scorso 14 marzo, il medico competente è infatti chiamato a continuare a la sorveglianza la sorveglianza sanitaria, oltre che a prendere attivamente parte nella costituzione di appositi Comitati che permettano una valutazione condivisa tra datore di lavoro e RLS rispetto alle misure da adottare a livello preventivo. La verità è che questi stessi medici stanno latitando, riconfermando la loro inaccettabile sottomissione alle volontà padronali. Ciò appare evidente nella testimonianza di Isabella alla quale, in quanto RLS, il medico competente avrebbe il dovere di rispondere alle sollecitazioni e richieste di confronto.
Io ho chiamato il medico competente aziendale, che ha tutte le cartelle sanitarie di tutti i colleghi, per chiedere una riunione straordinaria sulla sicurezza e non mi è stato risposto nulla. Il medico competente ha demandato tutto al medico di base che non può dare più di tre giorni di mutua. Tutte le assenze volontarie vengono prese ora come permessi, ma poi quando l’emergenza sarà finita come verranno conteggiate queste assenze? Come faremo durante tutto l’anno? Arriverà un decreto che ci permetterà almeno di sopperire a questa emergenza in questo momento? Questa è la mia domanda! Anche perché c’è il rischio del comporto. […]
Sono riuscita comunque a contattare e parlare con il medico competente che mi ha detto che si trovavano nella merda più totale, che i dispositivi di protezione non c’erano, e lui quindi mi ha detto: “mettetevi una sciarpa o un foulard”. Questo mi ha fatto impazzire. Quando ho divulgato questa notizia a tutti i miei colleghi e alle delegate gli è arrivata una voce e mi ha mandato un messaggio su WhatsApp in cui mi ha scritto che avevo peccato di correttezza intellettuale. E ho detto tutto. Ritengo che anche il medico competente sia una venduta come tutta la dirigenza. E lei un giuramento però l’ha fatto quando ha scelto il suo mestiere.
Come afferma Fabio, l’onere dell’attuazione delle misure preventive viene quindi a scaricarsi interamente sulle spalle dei lavoratori e delle lavoratrici, anche perché vengono a mancare delle indicazioni chiare sugli standard da attuare. La discrezionalità regna sovrana e con lei livelli molto inferiori al necessario rispetto alla sanificazione degli ambienti frequentati non solo dai lavoratori e dalle lavoratrici, ma anche dalla clientela.
A differenza di chi lavora nell’ospedale dove esistono dei protocolli sulla sanificazione noi siamo lasciati a noi stessi. Sento filiali in cui per esempio i limiti di entrata dei clienti sono sproporzionati rispetto alla metratura del punto vendita. Non ci sono state delle disposizioni omogenee per tutte le filiali. Io ho sentito una lavoratrice di Catania che mi ha raccontato come da lei sia stato sanificato il punto vendita perché i lavoratori hanno rotto le scatole, mentre nella maggioranza dei casi questo non accade. Ci sono anche luoghi, come per esempio a Rivarolo, dove il servizio di sanificazione dovranno farlo gli stessi addetti vendita, munendosi di prodotti che prendono dalle corsie. Dovranno anche pulire i bagni clienti, che la dirigenza benché ci si trovi in questo momento di emergenza vogliono che si mantengano aperte.
In questo scenario non bisogna poi dimenticare quanto l’attuale protagonismo di questi servizi, con il correlato aumento della mole di lavoro, si traduca in un costo umano enorme: quello del carico di ore di lavoro scaricato su pochi lavoratori e lavoratrici. La regolazione dei turni di lavoro dovrebbe essere una delle azioni di riconfigurazione dell’organizzazione aziendale di maggior efficacia in ottica preventiva. Vediamo, invece, come la scelta di ridurre il monte ore a carico dei singoli si stata totalmente bypassata dalle direzioni aziendali, sempre in ottica di massimizzazione dei profitti durante l’emergenza. Bisogna infatti fare attenzione a non aderire alla retorica guerresca di sacrificio con cui viene raccontato lo sforzo dei lavoratori e delle lavoratrici della grande distribuzione, dato che un processo sistematico di intensificazione e saturazione dei tempi di lavoro è già in atto da più di un decennio. Come afferma Fabio infatti:
Il problema dei turni è almeno 12-13 anni da quando è iniziata l’apertura domenicale che è un problema. Il fatto che non ci siano più domeniche, o giorni festivi, perché sono davvero pochissimi i giorni in cui il punto vendita è totalmente chiuso, il fatto di aver soppresso la pausa di pranzo, di aver anticipato l’orario di apertura e posticipato quello di chiusura, ha creato grossi problemi a chiunque all’interno della grande distribuzione. In questo momento la situazione si è aggravata per il problema del virus. Oltre il problema dei turni c’è il problema della distribuzione delle competenze nei punti vendita. Mi spiego meglio parlando delle lavoratrici più anziane. L’anzianità in LIDL significa avere intorno ai 37 anni, e quindi una persona che non corre più o carica la merce alla stessa velocità di prima come quando sei assunto a 20 anni. Questa generazione viene di solito lasciata in cassa. Quello che ho riscontrato è che fare nelle 8 ore di lavoro 8 ore di cassa rappresenta un forte rischio per la salute di queste lavoratrici. Se non si riesce ad eleminare il rischio che il virus rappresenta, sarebbe doveroso almeno ridurre la quantità di esposizione: lasciare una persona per otto ore consecutive in cassa a contatto con il maneggio contanti piuttosto che a contatto con il pubblico è invece un accentuare l’esposizione al rischio. Questo è un problema che sto verificando in diversi punti vendita.
I supermercati in queste settimane sono stati letteralmente presi d’assalto ed il personale si è venuto a ridurre. Alcuni sono in quarantena, mentre altri hanno scelto di entrare in malattia come forma di autotutela e di resistenza contro la mancata attuazione di reali forme di tutela, o sono in congedo parentale per seguire i figli. Invece di ristrutturare l’organizzazione del lavoro all’interno dei punti vendita le direzioni aziendali hanno preferito assumere lavoratori e lavoratrici interinali per supplire alla mancanza di personale. Queste persone ancora meno tutelate degli strutturati, sottoposti ad una forma di ricatto tra salute e lavoro quasi incontrastabile e senza nessuna forma di formazione professionale e sulla sicurezza: sono letteralmente carne da macello.
Cesare: Turni massacranti, carichi massacranti. Pensiamo a una settimana fa prima della dichiarazione ufficiale della pandemia: siamo stati letteralmente assaltati. Eravamo in 2 a turno un cassiere, una gastronoma e un servo che praticamente fa le veci del gestore. Possiamo capire l’organizzazione di Carrefour quale sia: 3 persone in mercato. In questa tragedia di isteria collettiva da 5000 euro che fatturava al giorno ne fattura 10’200 euro e siamo con tre persone e una massa di interinali messe lì senza nessuna professionalità. La professionalità non esiste. In questa isteria collettiva se li dai della carne marcia prendono anche la carne marcia. È inutile che ci danno la mascherina da carta da cula e poi entrano nel punto vendita centinaia di persone. Basta che uno sia infetto e cosa facciamo? La mascherina può servire a qualcosa? Mettono una marea di interinali, perché una parte di noi si mette in mutua. Gli interrenali girano con la mascherina da carta da culo e vivono nel ricatto. Se dici no non vai più a lavorare. L’unica tutela che per ora ci garantisce questo sistema è metterci in mutua. È assurdo quello che ti dico, ma li capisco anche perché in tutto questo clima di terrore che stanno mettendo i media uno va in ansia. Già facciamo un lavoro di merda, usurante. Che poi bisogna dirlo che è un lavoro usurante. Anche ora ci facciamo 23 roll in due in mercato con tutta la gente che entra. E dove è la distanza di sicurezza se mi passa accanto la cliente accanto che magari mi scatarra? È tutta una presa per il culo questa qui, anche se ci danno il dpi sono inutili. I medici almeno li nominano, ma noi chi ci caga. Anche nel decreto si parla di vigili del fuoco, polizia, os, ma sui supermercati hai letto qualcosa? Perché le regioni non regolamentano le entrate nei supermercati che sono focolai? 100 persone in coda che parlano allegramente…
Molti e molte a casa hanno figli o familiari di cui occuparsi e prendersi. Il rapporto tra tempo di vita e tempo di lavoro diventa sempre più massacrante ogni giorno che passa. Come purtroppo già noto, il lavoro riproduttivo in famiglia, anche durante l’emergenza, tende a essere svolto dalle donne lavoratrici, che si trovano quindi a vivere una vita totalmente al lavoro, senza tregua. E tutto ciò per arrivare ad avere un reddito a fine mese che non assicura altro che la mera sussistenza. Un triplice ricatto: salariale, emotivo, rispetto alla cura da portare in famiglia, e rispetto alla tutela della propria stessa salute sul posto di lavoro.
Isabella: È un macello. Adesso noi non possiamo per contratto passare le 11 ore lavorative però chiaramente te ne fai 10 senza sparate una dietro l’altra. E come ha detto il collega le facciamo in quelle condizioni, caricando, continuando a commissionare merce e quindi ci ritroviamo anche a non sapere dove buttare i nostri figli. E non uso buttare a caso perché è proprio un buttarli perché non li possiamo fare uscire, non li possiamo dare ai nonni… Io sono part-time 20 ore, prendo 700 euro al mese e ho un figlio in 104, di conseguenza ti puoi immaginare a chi lo lascio. Seppur abbia 12 anni non posso assolutamente abbandonarlo a sé stesso. Mio marito uguale lavora nella grande distribuzione e di conseguenza questo eh. Se non escono dei veri ammortizzatori sociali per noi…
Nelle filiali gli addetti vendita e gli altri dipendenti interagiscono ogni giorno non solo con la clientela, ma anche con i lavoratori dei trasporti e della logistica che ogni giorno arrivano a portare i rifornimenti. Nel relazionarsi a questi lavoratori è nata una forte consapevolezza di quanto il settore logistico sia in questo momento lasciato a sé stesso, di quanto i lavoratori debbano convivere ogni giorno con la paura del contagio, privi di dispostivi di protezione individuale e con disposizioni rispetto alla modalità di esecuzione delle mansioni del tutto inattuabili nella pratica. Inoltre, il fatto che durante il trasporto merci non vengano svolti processi di sanificazione delle merci e dei camion certificati, fa temere che il contagio possa avvenire proprio nel momento dell’approvvigionamento dei punti vendita.
Isabella: Coloro che trasportano la merce in questo momento di grave contaminazione…molti magazzini sono stati chiusi principalmente in Lombardia. I camionisti che arrivano da noi sono spaventati, sono muniti di una mascherina e niente di più. Sono come noi una categoria non protetta, perché ormai ci sono evidenze scientifiche che dimostrano come il Covid-19 rimanga sulle superfici per un certo periodo di tempo. Noi non sappiamo neanche quali siano i processi di sanificazione che vengono effettuati nei magazzini. Io non so neanche come lavorano gli alimentari perché questo non mi è dato saperlo. So solo che arrivano questi camionisti, per la maggior parte stranieri, poco informati dai loro diritti perché chiaramente debbono dare da mangiare alla loro famiglia, la maggior parte di quelli che arrivano da noi sono albanesi, e alla fine della favola si ritrovano con una mascherina zitti e muti a cariare la merce. Presumo che anche loro non abbiano nessun tipo di informazione ed anzi vengano utilizzati come noi nell’assoluto silenzio e nell’assoluta mancanza di dispositivi di protezione.
Rispetto al rapporto con la clientela la situazione non è affatto semplice. La crisi che stiamo vivendo fa emergere forme violente di consumismo ed individualismo che lasciano spiazzati.
Cesare: Per quello che posso dire dei clienti in un momento di panico come quello che stiamo vivendo, che io sia una persona anziana o un giovane, senza nessuna distinzione perché siamo tutti bestie, picchierei il bambino per prendermi la mela. Questo è ciò che ho notato nel supermercato. Il supermercato rivela la nostra natura bestiale, bestie dell’approvvigionamento. Se non abbiamo il frigo pieno possiamo anche ammazzare. Non ho avuto nessuna solidarietà dai clienti o risposta di grazie. Noi siamo servi della gleba, se non troviamo fuori le palle ora e di valorizzare la nostra categoria ora, saremo sempre servi della gleba. E dopo di noi ci sarà solo l’automazione.
Isabella e i suoi colleghi e colleghe sono state protagoniste di un’azione di resistenza nella loro filiale sabato 14: In quanto RLS ha imposto la sospensione dell’attività produttiva per rischio biologico. La sospensione dell’attività non solo ha permesso di arrecare un danno consistente al fatturato LIDL, ma ha fatto si che i lavoratori e le lavoratrici potessero resistere e prendere parole davanti alle forme di sfruttamento che la gestione dell’emergenza sta mettendo in atto. Per 3 ore e mezza alcuni rappresentati di un “settore strategico” hanno potuto sospendere il lavoro, come atto di responsabilità collettiva sia rispetto alla tutela della propria salute, che della propria clientela.
È stata organizzata una sospensione momentanea del lavoro in pochissimi minuti. Abbiamo mandato una bella PEC tramite la mia funzionaria alla dirigenza. In automatico siamo scappati nella mia filiale, dove avevo fortunatamente 8 colleghi in appoggio in turno, e io gli ho detto: “Se anche non volete metterci la faccia non vi preoccupate ce la metto io e ora sbatto tutti fuori dal negozio perché in questo momento come RLS posso dire che c’è un rischio biologico. Non siamo tutelati noi lavoratori e lavoratrici e non sono tutelati i clienti”. A quel punto ho chiamato il mio capo filiale abbiamo chiamato la dirigenza e gli abbiamo detto da questo momento parte la sospensione e abbiamo cacciato fuori tutti i clienti gridando al rischio biologico. Il negozio è rimasto momentaneamente chiuso per 3 ore e mezza e siamo rimasti fuori con i colleghi. Da lì a poco siamo riusciti a parlare in vivavoce con la dirigenza e abbiamo fatto le nostre richieste, chiedendo che fossero scritte nere su bianco e firmate, altrimenti avremmo continuato la sospensione. Ce lo hanno promesso, e ancora dobbiamo vedere se manterranno questa promessa sennò continueremo a fare sospensione.
Senza il supporto dei miei colleghi non sarei riuscita a fare niente.
Siamo riusciti in un sabato a dare una legnata alle gambe al fatturato. Non mi aiuti? Non mi dai ai dpi? Io allora ti tolgo migliaia di euro di guadagno. […]
Mi sono trovata ad urlare fuori dalla mia filiale ai clienti che si devono rendere conto che a non proteggere noi come operatori di filiale non proteggiamo neanche loro. Gli riconoscevo che è grazie al loro essere clienti che io posso assicurare alla mia famiglia un pasto, io in questo momento vi posso dire che non vi stiamo proteggendo. Anche noi possiamo essere portatori del virus. Alcuni hanno appoggiato la nostra protesta di 3 ore e mezza dal servizio, mentre altri ci hanno mandato letteralmente a cagare.
Questa forma di sospensione ha avuto anche un forte portato ricompositivo, in un settore in cui la solidarietà tra colleghi è stata smantellata negli anni dal padronato. Bisogna prendere consapevolezza che questa ricomposizione si è data rispetto alla tematica della salute sul lavoro, tematica dimenticata e bistrattata prima di questa emergenza.
Isabella: Primo è stato un segnale dato all’azienda perché spesso non si hanno nemmeno le forze per fare uno sciopero perché sono talmente diverse ed eterogenee ormai le forme di tutela, i gruppi, le età all’interno di un punto vendita che diviene molto complicato prendere tutti all’interno di un punto vendita e dire bene ora scioperiamo. L’azienda si è sempre sentita forte perché sa bene che è quasi impossibile ottenere questo risultato e ha sempre ottenuto quello che voleva. Quindi è stato un ottimo segnale sia all’azienda che a tutte le persone che vorrebbero, ma hanno paura o non credono di esserne capaci. Ora c’è un precedente.
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