Il trattore torna al campo.. e adesso?
La nascita dell’associazione agricoltori autonomi italiani in Piemonte
Articolo di Sara Marano e Maria Vasile originariamente apparso su
Rivista Contadina, numero 1
I primi mesi del 2024 sono stati segnati in molti paesi d’Europa dall’esplosione del cosiddetto “movimento dei trattori”. Nonostante le differenze nazionali, si è trattato di un vero e proprio movimento europeo – anche perché l’agricoltura è un settore produttivo in cui le istituzioni europee intervengono direttamente. Alcune rivendicazioni erano comuni in molti paesi, in particolare le richieste di un giusto prezzo per i prodotti agricoli e la fine di pratiche di concorrenza sleale legate alle importazioni di prodotti alimentari dall’estero. Altre rivendicazioni, invece, hanno assunto un peso maggiore in alcuni stati, come la richiesta di diminuire i vincoli per l’uso di fitofarmaci in Francia. Oltre alle differenze nazionali, sono emerse anche delle differenze regionali all’interno dei paesi stessi, dovute a settore, strutture produttive e tradizioni politiche diverse. Infine, talvolta (ma non sempre) si sono intraviste delle possibili crepe nella pretesa unità del mondo agricolo, tra agricoltura industriale e piccoli agricoltori, ed è emersa una critica al sistema della Grande Distribuzione Organizzata.
Nonostante la complessità e pluralità di posizioni (ma anche l’invisibilizzazione di temi importanti come il lavoro salariato, in particolare quello migrante), quel che è certo è che, durante i mesi caldi del movimento, l’agricoltura è stata al centro del dibattito pubblico, come non si vedeva da molto tempo. Alcuni rapporti di forza nel settore agricolo ne escono sicuramente cambiati e può essere interessante cercare di capire come si trasforma oggi questo movimento, anche per immaginare possibili future alleanze e strategie.
Per fare ciò, ci sembra importante ripartire dai territori e da quello che sta avvenendo in termini di organizzazione al livello locale e regionale. In questi ultimi due mesi sono infatti nate in più regioni italiane vere e proprie associazioni di agricol- tori. In Piemonte, è stata creata l’Associazione Agricoltori Autonomi Italiani (AAI) e l’11 aprile li abbiamo raggiunti a una riunione di coordinamento regionale a Carmagnola. L’appuntamento è serale perché una cinquantina di soci agricoltori e agricoltrici arriva dopo il lavoro, da tutto il Piemonte. Prima che inizi l’assemblea (a cui partecipano solo i soci), si chiacchiera e si ordinano delle pizze per tutti. Ne approfittiamo per salutare gli agricoltori conosciuti durante le proteste e intervistare il presidente dell’associazione, Gabriele Ponzano. L’associazione è composta da agricoltori e allevatori piemontesi che, come scrivono sul loro volantino di presentazione, “hanno deciso di rappresentare sé stessi e le proprie aziende in prima persona”. Lo zoccolo duro conta 120-130 agricoltori particolarmente attivi. Al momento, tutti i settori sono rappresentati, ma soprattutto quelli che hanno maggiori difficoltà in questa fase: il settore della carne (e della razza Piemontese in particolare) e dei cereali. Alcuni di loro sono stati tra gli organizzatori delle proteste dei trattori in Piemonte: molti (se non tutti) i suoi attuali associati si sono incontrati in occasione dei presidi di Cuneo, Alessandria, Torino Sud e altri ancora, tra fine gennaio e fine febbraio. L’associazione nasce dalla volontà di approfondire questi scambi e queste collaborazioni, che definiscono come altrimenti troppo rari.
AAI è infatti in primis uno spazio di confronto. Sono numerosi gli appuntamenti sul territorio: dai banchetti nelle piazze di provincia per raccogliere nuove adesioni, alle assemblee, alla partecipazione ad incontri tematici – come quello organizzato dall’associazione Agricoltori Italiani il 23 aprile sul carbon farming. Ma si tratta anche di un’occasione di scambio quotidiano di informazioni e di opinioni: esistono ora chat di agricoltori dove confluiscono messaggi di aggiornamento sulle notizie agricole, dove ci si confronta sulle trasformazioni del proprio territorio ma soprattutto sui temi caldi che intende affrontare questo gruppo (come, ad esempio, la relazione con i sindacati).
Lo scopo dell’associazione, infatti, è proprio questo: non sostituirsi ai sindacati (AAI non vuole fornire servizi), ma tenere aperto uno spazio di discussione esteso, spazio ponte tra appartenenze e associazioni di categoria tradizionali. Al momento, le parole d’ordine su cui AAI si impegna a concentrare le sue energie sono: smettere di vendere sottocosto (e quindi affrontare il problema dei bassi prezzi dei prodotti agricoli e degli alti costi di produzione, che sono aumentati in particolare dopo la pandemia e la guerra e non sono mai diminuiti), difendere il Made in Italy e regolamentare le importazioni in modo più stringente.
L’attuale presidente dell’AAI, Gabriele Ponzano, 52 anni, alleva bovini da ingrasso nell’Alessandrino. Nel tempo ha dovuto ridimensionare la sua attività “per il problema dei costi e della manodopera, perché io sono da solo”. Ma la sua rimane un’azienda di grandi dimensioni rispetto alla media: Ponzano coltiva 120 ettari (contro 11,1 ettari medi di Superficie Agricola Utilizzata per azienda – dati 7° censimento generale agricoltura) e alleva all’incirca 180 capi. La sua azienda, ci spiega, non è rappresentativa della composizione di AAI. Questa è estremamente variegata anche perché, sottolinea, la dimensione non è più un indice di benessere. Al contrario, i problemi sono condivisi tra aziende anche molto diverse tra loro:
Il problema fondamentale non è la dimensione ma quello che coltivi. Oggi con cento ettari di cereale puoi fare fatica a tirarti fuori uno stipendio normale.E magari invece con dieci ettari di vigneto, se ce l’hai in una buona zona, riesci a tirarti fuori un bello stipendio. […] Se io ho dieci ettari di vigneto, ho anche un investimento di attrezzatura minore a un’azienda più grande, e questo è fondamentale. Mio nonno con dieci ettari ha comprato delle cascine, ha fatto studiare i figli, ha fatto studiare i nipoti, ha comprato delle case. Noi con cento ettari facciamo fatica a tirarci fuori uno stipendio e se ti capita un inconveniente magari sei costretto a vendere un pezzo di terra per pagare le spese.
Il problema della mancanza di redditività delle imprese agricole è stato centrale durante il movimento dei trattori ed era spesso ricondotto a due cause: il basso prezzo dei prodotti agricoli e gli alti costi di produzione. Queste parole d’ordine erano già molto forti durante il presidio di inizio febbraio a Torino Sud, quando più di 400 trattori sono stati parcheggiati per tre giorni su un campo nei pressi dell’interporto e del Centro Agro Alimentare Torino (CATT). In quell’occasione Davide, un agricoltore trentaseienne del vercellese, aveva insistito proprio sul punto del giusto prezzo, spiegando il problema in questi termini:
La terra dovrebbe permetterci di ottenere qualche sorta di reddito, coltivando. Noi un grano di farina panificabile oggi lo vendiamo a 22 euro al quintale. Il consumatore finale paga il pane dai 3 euro e 50 ai 6 euro al chilo. Viene riconosciuto poco al primo anello e il consumatore finale paga di più.
Il problema del prezzo dei prodotti agricoli (e delle sue variazioni lungo la filiera agroalimentare) viene sollevato da molti anni, dagli agricoltori ma anche dalle associazioni di consumatori e dagli studiosi del settore, a partire, per esempio, dalle evidenze che contengono le relazioni sui prezzi dei prodotti alimentari in Europa elaborati ogni anno dalla Commissione Europea per l’Agricoltura e lo Sviluppo Rurale.
Una delle forze del movimento dei trattori è stata proprio quella di far emergere delle contraddizioni concrete che le associazioni di categoria (in particolare Coldiretti) avevano lasciato da parte o affrontato quasi esclusivamente in termini burocratici. Secondo Ponzano, il movimento ha permesso di formulare delle critiche e ottenere dei risultati e i sindacati sono tornati a fare un minimo di politica.
L’importante, sottolinea Ponzano, è poi che facciano politica sui problemi principali, concreti, ovvero sul fatto che molte aziende agricole stanno morendo, e non lanciare delle battaglie su delle questioni tutto sommato marginali come può essere la questione della carne sintetica. Un esempio di lotta strategica sarebbe quella che cerca strumenti per mettere fine alla vendita sottocosto dei prodotti agricoli. Uno strumento legislativo in questo senso citato da Ponzano è il decreto-legge 198 del 2021 che recepisce una direttiva europea del 2019 finalizzata a limitare le pratiche commerciali sleali nel settore agroalimentare:
Prima del movimento dei trattori, nessuno conosceva questa legge e nessuno ne parlava […] adesso se tu vai a vedere nei comunicati stampa delle associazioni cominciano a parlare anche loro di queste disposizioni, di costo minimo garantito, di 198. Quindi questo è un esempio di un riscontro che si sta avendo a seguito delle mobilitazioni.
Naturalmente, l’esistenza della legge non è sufficiente affinché la sua applicazione sia garantita. In Italia ciò non avviene perché risulta molto difficile ottenere una certificazione sul calcolo degli effettivi costi di produzione. Però avere ben presente un riferimento normativo è già considerato, a giusto titolo, come un avanzamento della lotta.
Anche il tema del consumo di suolo e della transizione interessa questi agricoltori da vicino. AAI ha già aiutato un agricoltore a capire se e come potrebbero avvenire delle richieste di vendita di terreni o degli espropri legati a dei progetti di agri-fotovoltaico. Questi temi preoccupano visto che la vendita dei terreni potrebbe risultare attraente per molti produttori, in un periodo in cui fanno fatica ad andare avanti. Questa attenzione ai rischi legati all’accaparramento delle terre e alle trasformazioni del territorio non deve essere presa come un generico rifiuto di ogni transizione ecologica. Come era già emerso durante le settimane delle proteste, infatti, la critica è verso una transizione ecologica dall’alto, che non tiene conto della situazione economica e sociale delle persone.
Anche al livello della PAC, per AAI, la “transizione ecologica” dell’Europa non si adatta all’agricoltura perché non considera le differenze territoriali né i vincoli temporali (“tempo meteo e non tempo di calendario!”) delle diverse lavorazioni. Spiega Ponzano in relazione ai vincoli di rotazione e specifiche colture previsti dal capitolo degli aiuti diretti “Regimi per il clima, l’ambiente e il benessere degli animali” (ecoschema 4, PAC 2023-2027):
Non si può imporre dei sistemi di coltivazione che siano uguali da noi e in Francia. Ma già uguali da noi tra il nord e il sud Italia, ma già qui in regione tra la collina e la pianura. Abbiamo dei modi diversi di lavorare il terreno. Non si può imporre tre schemi di coltivazione in tutta Europa.
Rispetto alla possibilità di superare alcune delle difficoltà strutturali dell’agricoltura industriale, per esempio mettendo in pratica dei tentativi di filiera corta, emerge uno scetticismo che segna la differenza rispetto alle proposte agro- ecologiche. Ponzano sottolinea per esempio come queste opzioni funzionino soprattutto per alcuni prodotti (per es. ortofrutta, formaggi) mentre per altre produzioni (cereali, grandi allevamenti) siano impossibili. Tuttavia, anche all’interno di AAI, si inizia ad intavolare un ragionamento su delle necessarie forme di cooperazione alternative alle filiere tradizionali. Ma gli agricoltori sono anche lucidi riguardo alcune trappole del sistema cooperativistico che sottostà alle stesse regole di mercato sopra descritte, ovvero il rischio di trasformazione della cooperativa stessa “da una cooperativa di agricoltori a una commerciale che pensa più al reddito della cooperativa che al reddito degli agricoltori”.
Il tema della cooperazione rimane al centro delle pratiche che AAI intende sviluppare. E chissà che questa non si possa dare man mano anche in modo trasversale, ora che questa categoria si sta riorganizzando come soggetto politico sul territorio e che le conseguenze della crisi produttiva e riproduttiva si fanno sempre più schiaccianti ed interconnesse.
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