TU CI CHIUDI TU CI PAGHI: Voci dal Corteo di Roma
Pubblichiamo una lettera di una studentessa della Sapienza scritta dopo il corteo di sabato a Roma: “Tu ci chiudi, tu ci paghi”. Questo pomeriggio (4 novembre) nella Capitale, si svolgeranno due assemble, una degli student* a Piazzale Aldo moro alle ore 15.30, e una chiamata alla fine del corteo di sabato. L’incontro pubblico si svolgerà a San Lorenzo a piazza dell’Immacolata alle ore 18.
“Sono le 18 quando arriviamo a Piazza Indipendenza. Certo l’elicottero che volva sulle nostre teste ci ricordava dell’imminenza dell’appuntamento già da qualche ora. Ci muoviamo a piedi da via de Lollis. Le vie che percorriamo sono stranamente silenziose, poche le macchine a passare, quasi nessuno che passeggia, sembra sia notte eppure non si sono ancora fatte le sei.
Raggiungiamo il concentramento del corteo da Castro Pretorio, entriamo in piazza da via S. Martino della Battaglia, è vuota se non per il presidio in lontananza di cui percepiamo i primi suoni. Rompiamo ingenuamente il silenzio con qualche risata e l’impaccio di prove di cori inventati per l’occasione.
La piazza è sgombra da ogni macchina o motorino parcheggiato, i negozi sono chiusi, non c’è nessuno che passa; normalmente è una delle zone di passaggio più piene, snodo dei trasporti e della circolazione romana. Che strano…
Non siamo i soli ad essere lì. Notiamo immediatamente attorno a noi la presenza ostile di un massiccio numero di forze dell’ordine e mezzi dispiegati. Le vie attorno a noi sono quasi tutte bloccate da loro, da macchie blu omogenee in cui risulta quasi indistinguibile che cosa le componga: “sono uomini o mezzi” ci chiediamo.
Ci guardiamo intorno. Tante persone diverse tra loro in una stessa piazza. Ci sono i precari, i lavoratori dello spettacolo, i movimenti di lotta per la casa. Tutti ci incuriosiscono ma più immediatamente in modo spontaneo ci disponiamo in quella parte di piazza dove riconosciamo i giovani, non hanno striscioni e neppure bandiere ma l’entusiasmo e la voglia di essere lì si percepisce, ce li presenta come affini.
“Mettiamoci qui allora” al fianco di studenti delle scuole, universitari, giovani lavoratori, semplicemente giovani forse. Alcuni li riconosciamo, li abbiamo già chi sa quando incontrati, altri non sappiamo chi siano. Intanto gli interventi si fanno sempre più cadenzati; “l’intenzione è arrivare al ministero dell’economia” sentiamo gridare dall’amplificazione in testa al corteo. Partiamo, la prima battaglia l’abbiamo vinta; non tutti avrebbero scommesso sulla possibilità che ci saremmo riusciti a muovere, tra questi anche molti di noi. Partiamo!
I passi sono lenti ma non per questo poco determinati. “È tempo di riscatto” gridiamo. Nessuno ha troppo chiaro cosa succeda ma non per questo non si continua a cantare, intervenire e esprimersi. Giriamo sulla destra a Castro Pretorio. È proprio la stessa strada che più di una volta al giorno ogni studente universitario che arriva con i mezzi a termini compie per arrivare all’università. La stessa strada, ma non sembra la stessa. La via attraversata da così tante persone si fa più stretta, le grida la rendono più facile da attraversare, la rabbia la fa diventare di tutti.
Proseguiamo, andiamo verso Piazzale Aldo Moro. Quanti significati per noi quella piazza. Siamo all’incrocio tra via dell’Università e piazzale Aldo Moro quando dopo qualche bomba carta lanciata all’enorme dispiegamento di guardie schierate in tenuta anti-sommossa, le forze dell’ordine caricano il corteo, o per meglio dire, una metà del corteo. In quella curva ci siamo noi, in quella metà ci sono i giovani.Forse pensavano di fermarci, sbagliano. Non ci intimoriranno, non ci faremo, “è solo l’inizio” gridiamo.
Dopo attimi concitati, il corteo più determinato e irato di prima si ricompatta. Ripartiamo. Siamo di fronte l’ingresso della nostra università. È da così tanto che non ci entriamo che definirla nostra sembra un impacciato tentativo di rendere proprio qualcosa che da troppo tempo non ci appartiene più.
Ci dirigiamo verso San Lorenzo. È il quartiere della movida, un simbolo oggi più che in altri moneti dell’ipocrisia di un governo che continua a crede, o meglio che continua farci credere, che ci sia un orario di contagio del virus. Camminando per quelle vie qualcuno riconosce il locale dove lavorava, altri i luoghi di socialità dove ci si incontrava; c’è chi dice che lì alla fine della strada c’era un locale dove una volta si è esibito.
Tutto è chiuso, ma per gli istanti in cui il corto attraversa quelle vie sembra che la forza di tanti renda più sopportabile la situazione ormai inaccettabile.Ci siamo, arriviamo in piazzetta, Piazza dell’immacolata per chi non ne conosce il gergo. Per un attimo quella piazza sembra essere uno spazio di tutti, ritagliato negli interstizi di decreti anti sociali. Restiamo lì. Si chiacchiera, ci si confronta, si resiste insieme.
È solo l’inizio. Siamo stanchi e ora sappiamo di non essere i soli ad accettare passivamente una situazione che racconta la nostra generazione come la causa del contagio.Siamo stanchi di pagare affitti insostenibili, tasse universitarie inaccettabili, pagare per un diritto alla studio di cui non c’è più neppure la traccia.
Questa crisi ha dei responsabili, ora ne conosciamo nome e cognome. Sono loro a dover pagare! Ci raccontano come giovani senza futuro, ma la piazza di sabato lo ha dimostrato; “non lo accettiamo” e con l’arroganza di chi ha tutto da perdere, lo promettiamo, “il futuro è nostro e ce lo riprendiamo” perché tu ci hai chiuso ma ora è tempo di pagare. “
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